Oro. Tutto era giallo dorato.
Fluttuavo nella luce bassa; conscia, distaccata da tutto tranne che da quel colore. Il liquido cominciò a defluire dalla vasca e io continuavo a galleggiare, asciutta, a mezz’aria.
Una scossa mi fece rendere conto delle sedici fonti di dolore sottili come uno spillo; le braccia e le gambe si agitavano convulsamente, ma il mio cuore non si metteva a battere. Poi una sensazione familiare: avevo picchiato con un ginocchio.
Un’altra scossa e il mio cuore pulsò. Ero viva, ed era l’ora. Avrei preferito morire che sopportare un’altra scossa. Respirai profondamente e venni squassata dai colpi di tosse. Battei la testa contro il bordo della vasca e ritirai le mie mani fredde dal bernoccolo: erano rigate di sangue. Me ne era entrato un po’ nell’occhio sinistro, tingendo di rosa il giallo dorato.
Il coperchio della vasca si aprì con un sibilo delle guarnizioni di gomma. Una cintura mi avvolgeva il petto e ci armeggiai sopra. Mi sentivo le mani come guanti di gomma gonfi. Mentre ero seduta e mi massaggiavo i piedi raggrinziti, il resto dei miei sensi mi assalì e mi fece star male. Volevo sputare la lingua.
Le punte delle dita e i piedi sembravano antichi, mummificati. Cercai di mettere a fuoco gli occhi sulla stanza, socchiudendoli, liberandoli dal sangue.
«Voi chi diavolo siete?»
La stanza era piccola. Non era stata costruita per contenere tre persone. Fortunatamente, in assenza di gravità nessuno doveva stare seduto, neppure Lilo; era così debole che, in un campo gravitazionale, non sarebbe neppure riuscita a sollevare le braccia. Galleggiava in aria, riscaldandosi le mani su un tubo di brodo. Beveva a piccoli sorsi dal bocchino, dopo aver visto a che disastro andava incontro se cercava di bere più in fretta.
«Credo di avervi perduto un’altra volta,» disse stancamente. La cosa che desiderava di più era tornare a dormire. La testa le pulsava e le voci erano confuse. «In che anno siamo, avete detto?»
Cathay sospirò, il che irritò Lilo e le rese più difficile credere a ciò che le diceva. La storia era già abbastanza incredibile senza dover anche accettare il fatto che il suo clone aveva amato quell’uomo.
Ma Parameter continuò con pazienza infinita.
«L’anno è il 571, il mese è Capricorno. Sei stata arrestata nel Sagittario del 568 e giustiziata un anno dopo. Cioè, è stato il tuo clone a essere giustiziato, secondo Cathay. La Lilo originale è vissuta un altro po’ di tempo, poi è stata uccisa anche lei. Un secondo clone — apparentemente già pronto, se i tempi sono giusti…»
«È il normale modo di procedere di Tweed,» intervenne Cathay.
«Sì. Il secondo clone è stato ucciso mentre cercava di fuggire, come la Lilo originale. Il terzo clone è stato mandato su Giove, dove ha incontrato Cathay ed è stato…»
«Sì, sì, questa parte la ricordo,» annuì Lilo. In realtà non voleva sentir dire di nuovo che era stata uccisa. I particolari delle avventure del suo clone su Poseidone le erano oscuri. Poteva sempre chiarirli in seguito.
«Ora, perché il… Mi sembra che avrei dovuto essere risvegliata prima. Cosa è successo?»
Parameter fece una pausa, come se avvertisse che Lilo era rimasta turbata da quella storia.
«Forse dovremmo lasciarti riposare, prima di continuare.»
Lilo sollevò lo sguardo. Parameter/Solstizio era una figura comica, un essere umano fatto da un bambino con la plastilina. La sola parte visibile del corpo di Parameter era la bocca, dalla quale Solstizio si era ritirato in modo che la sua partner potesse parlare con gli altri. La figura aveva fianchi grossi, una vita sottile e niente collo; c’era solo un grosso pezzo del corpo di Solstizio che copriva la testa e le spalle. Ma Lilo non rideva. A differenza della maggior parte degli esseri umani, era un po’ in soggezione davanti alla simmetria perfetta che rappresentavano.
«No, continua. Mi riposerò più tardi. Comunque grazie.»
«D’accordo. Sei in un corpo clonato; conoscevi la situazione, quindi ti aspettavi una cosa del genere. Però questo non è il clone che lasciasti sette anni fa. Quello è morto.»
«Cosa? Perché?»
«Sei sicura di voler continuare? Mi sembra che ti turbi.»
Voleva dormire, dormire, ma era decisa ad andare fino in fondo. Doveva sapere qual era la situazione effettiva, per spaventosa che potesse essere.
«In realtà non sappiamo perché. Quando siamo arrivati, era morto. Avevi detto che sarebbe potuto succedere, ma non ci spiegasti quello che avremmo dovuto fare. Riesaminammo le discussioni avute con te e giungemmo alla conclusione che avevamo promesso di risvegliarti. Il problema era stabilire cosa volesse dire. Decidemmo che eravamo obbligati a produrre un altro clone e a risvegliarlo. Non conoscevamo molto bene i tuoi congegni, quindi il risveglio è stato un problema, temo…»
«No, non ti preoccupare. Sei stata molto brava, data la situazione. Dunque, sono il secondo. Vediamo, con i tre sviluppati sulla Luna più il mio corpo originale, si arriva…»
«Temo di no,» disse Parameter. «Abbiamo studiato il problema con cura prima di cominciare a sviluppare un altro clone, ma ci mancava ancora la necessaria esperienza. Il secondo clone è stato un insuccesso. È morto quando abbiamo cercato di portarlo in vita. Tu sei il terzo. Cathay ci ha aiutato. È arrivato tre mesi fa.»
«E adesso,» aggiunse Cathay, «un altro tuo clone è senz’altro in viaggio verso Poseidone.»
Lilo si chinò sulla consolle del computer. Erano passati cinque giorni dal suo risveglio e fisicamente si sentiva molto meglio. Opportuni esercizi fisici le avevano rafforzato i muscoli, anche se era ancora lontana dal trovarsi in perfetta salute.
La capsula stava diventando troppo piccola. Non che Parameter/Solstizio occupassero molto spazio; sembravano accontentarsi di restare tutto il giorno ferme; non si muovevano solo per muoversi. Ma Cathay era un’altra storia.
Provava una soddisfazione perversa per il fatto che Cathay non le piaceva. Il suo racconto sui metodi di Tweed per assicurarsi la lealtà dei suoi agenti l’aveva disturbata. Non era piacevole sapere che poteva essere tanto prevedibile. Ma all’ultima Lilo quell’uomo era piaciuto, almeno a quanto diceva lui. Forse l’aveva amato. Be’, questa Lilo non lo faceva!
«Non possiamo parlarne un altro po’?» diceva Cathay, piano. «Non si risolve niente se ti comporti così.»
«Non c’è niente da risolvere, per quanto mi riguarda.» Stava lavorando al computer con la scusa di scoprire cosa fosse andato storto coi primi due cloni cresciuti nella capsula. In realtà era troppo arrabbiata per riuscire a concentrarsi sulle cifre che le apparivano sullo schermo. Stava lì in modo da potergli girare le spalle.
«Sei davvero decisa.» Sembrava stanco quanto lei. Addolcendosi per un attimo, Lilo si rese conto che doveva essere dura anche per lui. Ricordava il suo clone. Aveva avuto una relazione con lei, prima che morisse. Adesso Lilo aveva modificato la situazione.
«Si, lo sono. Non mi hai lasciato nessuna alternativa, perché…» «È la possibilità di salvare un sacco di persone a cui volevi bene… ritiro quello che ho detto. Alle quali vorresti bene, se le incontrassi.»
«Maledizione, questo vale per la metà della razza umana! Pensa a cosa mi stai chiedendo di fare. D’accordo, sembra duro, ma il fatto è che per me queste persone non significano niente.»
«Neppure il tuo clone? Ormai ne sarà arrivato un altro.»
«Sì,» sussurrò, arrabbiata. «Hai continuato e continui a ricordarmelo, vero? Ma lui non è me. Verso di lui non ho più obblighi di quanti ne abbia verso chiunque altro. Mi dispiace per lui, ma francamente il pensiero di incontrarlo mi fa accapponare la pelle.» Si voltò nuovamente verso la consolle e sospirò. Va bene, pensò, un’altra volta. Poi se non la pianta lo butto fuori a calci.
«Ho ammesso che l’idea di impadronirmi di quel satellite e di andarmene da tutto il maledetto sistema solare mi attrae. È un’idea folle, ma è abbastanza radicale da risolvere tutti i miei problemi. Se funziona. Non mi hai dato motivo di credere che funzionerebbe. Mi stai chiedendo di rischiare la vita — che mi sono sforzata miracolosamente di conservare — sulla scommessa più sfavorevole che abbia mai sentito. Dimmi se non è vero.»
Cathay non aprì bocca. Non la guardava mai quando arrivava a quel punto, é Lilo sapeva che voleva dire che era d’accordo con lei.
«Non sto discutendo sul fatto che il sistema di propulsione funzioni o no. So che in passato ha funzionato. Sto dicendo che con il sistema di vigilanza che mi hai descritto… con questa… questa Vaffa, questa oscenità che pretende di essere umana, e per di più una dozzina di loro…» Non riusciva a continuare. La situazione che le aveva descritto a proposito di Poseidone era repellente. Fece un profondo respiro per calmarsi.
«Dimmi come possiamo risolvere il problema delle Vaffa e mettere a punto il propulsore. Allora prenderò in considerazione la tua proposta.»
«L’altra Lilo…» Cathay si interruppe. «Be’, lei parlava di fucili a raggi laser. Se potessimo attaccarle all’interno, mentre le tute non sono in funzione…»
«Non ne ho mai usato uno. E tu?»
«No,» ammise. Le lanciò un’occhiata. Il suo sguardo le diceva che lei non era la Lilo che aveva conosciuto. Erano giorni che cercava di dirglielo. Dopo diversi imbarazzanti minuti di silenzio, lui si alzò e uscì per restare solo.
«Io ne ho usato uno,» disse Parameter, improvvisamente.
«Davvero?» chiese Lilo. Perché mai l’aveva detto? Era difficile che Parameter parlasse senza motivo. «Sei brava a sparare?»
«La migliore,» rispose Solstizio. Quando parlava con le corde vocali di Parameter, Solstizio si serviva di una voce bassa. «Non sbaglio mai. I miei riflessi e le mie capacità di calcolo sono molto migliori di quelli umani.»
«Lo so. Ma cambierebbe la situazione? Riusciresti a uccidere tutte le guardie prima che ti colpissero?»
«No.»
«Non pensavo a questo. Ammettiamolo, sono più di noi. Scommetto che ognuno di quei mostri è bravo quasi quanto te. E Cathay e io saremmo inutili.»
«Sì.» La coppia taceva, ma Lilo sospettava che stessero conversando l’una con l’altro.
«È possibile,» disse Parameter.
«Sì? L’avete detto anche voi che un combattimento sarebbe disperato.»
«Non abbiamo mai detto questo. Abbiamo detto che non potremmo vincere una battaglia contro i fucili laser. Abbiamo pensato a un altro approccio. Noi non verremmo, naturalmente. Nello spazio interstellare non c’è niente che interessi una coppia. Non c’è abbastanza luce solare.»
«Ovviamente.» Lilo sospirò, passandosi le dita fra i capelli. Ebbe un sussulto e si massaggiò un braccio. Andava ancora soggetta a crampi e attacchi di debolezza. «Be’, ammetto che non c’è un’alternativa che mi attragga. Avevo la vaga intenzione di… ecco… di accoppiarmi e rimanere fra gli Anelli. Era quello che avevo in mente allorché costruii questa stazione. Però adesso che è successo… voglio dire, adesso che davvero vivo in un corpo clonato…»
«Hai paura,» terminò Parameter. «Non mi sorprende.»
«Mi dispiace.»
Parameter rise. «Non temere di offendermi. Sono abituata al fatto che la maggior parte degli esseri umani abbiano paura dell’accoppiamento.»
«Volevo farlo…»
«… ma non ci avevi pensato abbastanza. No, non fa per te. Cioè, sarebbe giusto, ma non riusciresti mai a vederlo sotto questo aspetto. Lo sapevo da molto tempo.»
Lilo capiva che Parameter aveva ragione. Era triste rendersene conto. Con tutta la fatica che aveva fatto per disporre la capsula vitale fra gli Anelli, non aveva considerato a sufficienza il problema di dove sarebbe andata una volta riportata in vita. Si era accontentata del vago progetto di vivere sugli Anelli come coppia. Sugli Anelli non c’erano leggi; non ce n’erano mai state e mai ce ne sarebbero state.
Ma in che altro posto poteva andare? Nessuno degli Otto Mondi l’avrebbe accolta; non appena il suo genotipo fosse stato scoperto, l’avrebbero arrestata e condannata allo stesso destino a cui era andato incontro il suo io originale.
Era una fuorilegge. E laggiù, in orbita intorno a Giove, c’era un mondo di fuorilegge nelle sue stesse condizioni.
«Hai detto che è possibile,» riprese con cautela.
La bocca esposta di Parameter si atteggiò a un sogghigno.
«Dentro di te sei un soldato di trincea, Lilo. Pensi in termini di combattimenti corpo a corpo anche se non ne sai niente. Esci dalle gallerie. Stiamo parlando di spostare un mondo, di farlo uscire dal sistema solare. Devi pensare in grande.»