Tweed deve avermi presa per usarmi come una specie di jolly. Non capivo come potessi essere utile ai suoi piani. Non che questo mi disturbasse; non ero divorata dal desiderio di aiutarlo a sconfiggere gli Invasori. Immagino che, in astratto, fossi d’accordo con quel fine, solo che non credevo fosse possibile raggiungerlo. Combattere contro gli Invasori è come voler abolire la legge di gravità.
Però c’erano persone che avevano un lavoro molto più significativo del mio. Se si vuole considerare significativo. Mi vennero mostrati alcuni disegni e alcuni piccoli modelli esplicativi di armamenti pronti per essere prodotti non appena Tweed fosse stato rieletto e avesse avuto accesso agli assegni in bianco che un tempo controllava. C’erano alcune applicazioni spaventosamente nuove della teoria del campo nullo, compresa, per esempio, un’apparecchiatura capace di proiettare un campo sferico a grandi distanze. L’idea era quella di racchiudervi dentro un Invasore e poi restringere il campo fino alle dimensioni di un diametro atomico. Era difficile immaginare una creatura in grado di sopravvivere a un trattamento del genere. Poi si spegneva il campo. In breve: una bomba H in miniatura.
Vidi progetti di astronavi da guerra, di un tipo che non veniva costruito dai tempi precedenti l’Invasione. E tutte le altre cianfrusaglie che si usavano in una guerra: tute autonome da combattimento e fucili, carri armati e granate, bombe a fusione e bombe al neutronio. Sulla carta Poseidone avrebbe potuto sconfiggere qualsiasi pianeta degli Otto Mondi.
Ma a cosa avremmo sparato?
Lilo riusciva a sbrigare il lavoro vero e proprio in non più di un’ora al giorno. Spesso restava in laboratorio più per l’apparenza che per altro.
Da un punto di vista accademico, il primo mese era stato interessante. C’era tutto il gruppo di campioni atmosferici che aspettavano di essere analizzati. Lilo sapeva qualcosa sui materiali organici reperibili nell’atmosfera gioviana per aver letto le antiche ricerche condotte prima dell’Invasione. I chimici e i planetologi avevano ampliato quell’insieme di informazioni e avevano raccolto alcune spore e alcuni microrganismi. Poi, circa un anno prima, qualcosa era andato a sbattere contro il cucchiaio della sonda automatica. Non era molto grande; aveva grosso modo la massa di un topo adulto. Se fosse stato più grande avrebbe distrutto la sonda.
A livello strutturale non ne restava molto. Era una palla di gelatina ghiacciata in metano e ammonio. Ma dal punto di vista cellulare si potevano imparare molte più cose. Lilo portò a termine quel compito nella prima settimana, lavorando dodici, quattordici ore al giorno. Fece una mappa della struttura cromosomica delle cellule intatte. L’organismo assomigliava, sotto molti aspetti, agli animali della parte superiore dell’atmosfera, raccolti dalle sonde inviate su Urano.
Lavorò con Chea, il chimico inorganico, per scoprire le presumibili caratteristiche di quell’organismo. Si vide che le creature gigantesche dei livelli gassosi superiori, come alcune forme di vita superiore di Marte, utilizzavano i catalizzatori e i polimeri in modi che sulla Terra si ritrovavano solo nelle raffinerie. I suoi campioni costituivano un’eccezione. Alla fine della terza settimana, allorché trovò i resti di un sistema riproduttivo, riuscì a clonare una delle cellule. La cellula crebbe fino a diventare una sfera trasparente piena di idrogeno: visse qualche ora all’interno di una precaria camera gioviana, prima di sgonfiarsi. Il pallone era fatto di vinile. Nella parte inferiore aveva un sottile rigonfiamento a forma di croce, contenente una struttura ossea.
Il lavoro successivo fu di pura routine. Con i resti dei campioni preparò una coltura di tessuti e si mise a studiare come si potesse uccidere la creatura. Non c’erano vie di mezzo: o si scopriva la soluzione o non si trovava niente. Se avesse avuto a che fare con una creatura basata su acqua e ossigeno avrebbe trovato una dozzina di modi per attaccarla, semplicemente studiandone i geni e sintetizzando un virus. Ma non esisteva nessun lavoro sulle strutture genetiche degli organismi gioviani. Quasi tutte le proprie ricerche sulla vita terrestre le svolgeva al computer; ma per i geni extraterrestri non esistevano programmi. Per attaccarli doveva introdurre variazioni quasi casuali in punti diversi del gene e poi guardare cosa succedeva.
«Ma Tweed vuole che troviamo un insetto che uccida i Gioviani,» osservò un giorno Chea. «Ci riuscirai in questo modo?»
Lilo alzò le spalle. «Può darsi, però non è molto probabile. Posso trovare qualcosa che uccida queste cose. Ma non i Gioviani, se intendi le creature intelligenti che sono là sotto.»
Era nella galleria adibita alla coltivazione insieme a Chea, Cathay e Jasmine, il capo dei planetologi. Si stavano sporcando tutti le mani con una nuova specie di albero di maiale sviluppato da Lilo e che produceva una pancetta migliore di quella che avevano mangiato fino ad allora. Erano inginocchiati sulla terra scura e calda e parlavano mentre trapiantavano le pianticelle. Erano sovrastati dal lucente mozzo centrale della fattoria, al di là del quale si vedeva la parete più distante del cilindro ruotante. Portavano tutti occhiali scuri e i loro corpi erano coperti di lozione contro gli ultravioletti e di sudore. Era un momento lieto per tutti.
Lilo trascorreva quasi tutto il proprio tempo a coltivare, nel vivaio idroponico e all’esterno, su un lotto di terra che aveva preparato per le piante resistenti al vuoto. Il cibo era già migliore, e lei era diventata una specie di eroina per i reclusi. A Lilo piaceva lavorare con le piante, ma non altrettanto cucinare. Stava insegnando a farlo a Cass e a tre altri ragazzi. Venivano su bene.
«Vuoi dire che non credi che i Gioviani siano come quella creatura?» domandò Cathay.
«Non ho motivo di pensarlo,» rispose Lilo. «E probabilmente Jasmine può darti molti motivi sul perché non dovremmo aspettarcelo.»
Jasmine prese un’altra pianta dal secchio e cominciò a scavare un foro. Era una donna piccola con occhi grandi e grosse mani capaci. Portava i capelli biondi in spesse trecce e aveva un collare di pelliccia, la sua sola alterazione chirurgica. All’arrivo di Lilo, erano due anni che Cathay e Jasmine dividevano una stanza e avevano tutti e due espresso il desiderio che Lilo si unisse a loro. Lilo non sapeva cosa fare. Si era trovata bene a dividere la stanza con Chea, il collaboratore più abile che avesse mai avuto. Ma quella fase del loro rapporto si era chiusa quando avevano smesso di lavorare insieme sull’organismo gioviano. Adesso Chea era impegnato in qualcosa di diverso, qualcosa che non coinvolgeva Lilo. Da allora non si erano più frequentati come le sarebbe piaciuto.
«Per ora è impossibile saperlo con certezza,» disse Jasmine, spianando la terra intorno alle radici della sua pianta. «Cioè se quello che Lilo sta scoprendo sugli organismi superiori avrà qualcosa a che fare con quelli che vivono più in profondità. Ma è improbabile.»
«Come mai?» Allorché le discussioni entravano in campi scientifici, Cathay era l’uomo della strada perpetuo. Ma non gli dava noia. Ammetteva senza esitazioni che non ne sapeva praticamente niente. Non era un insegnante di capacità o di conoscenze, ma un maestro elementare: uno che guidava i bambini nell’esplorazione di loro stessi, facendogli scoprire e sviluppare le rispettive attitudini.
«Sappiamo molte cose sulle caratteristiche dell’atmosfera gioviana,» rispose Jasmine. «È a strati. In alto idrogeno, sotto ammoniaca, idrosolfuro di ammonio, acqua e idrogeno liquido, tutti in diversi stati cristallini, o fluidi, o mescolati gli uni con gli altri. Non c’è motivo di pensare che la creatura di Lilo potrebbe sopravvivere se scendesse di poche centinaia di chilometri.»
«E molti motivi per pensare che non sopravviverebbe,» aggiunse Lilo.
«Dici che questa cosa ha una borsa piena di idrogeno,» riprese Cathay. «Come fa a sostenerla se galleggia nell’idrogeno?»
Lilo rise. «È una buona domanda. Me lo sono chiesto anch’io, e non sono ben sicura neanch’io. Penso di averla vista in uno dei primi stadi. Forse nasce in uno strato più basso, si fa riempire il pallone di idrogeno e risale verso la luce del sole. Dopo avrebbe bisogno di un nuovo metodo per restare in aria. Lì può trovare tutta l’energia di cui ha bisogno. È un luogo violento.»
«È possibile che Giove abbia diverse biosfere,» disse Jasmine. «Forse si mescolano un po’, secondo l’ipotesi di Lilo che la sua creatura sia nata a un livello inferiore e salga verso l’alto. Ma sarà difficile fare degli studi, specialmente sui livelli inferiori, dove probabilmente vivono i Gioviani.»
«Perché pensi che siano laggiù?»
«Be’, io… hai ragione. Potrebbero vivere negli strati superiori, ma è improbabile, credo, solo in base a un semplice calcolo statistico. Ci sono tanti strati che possono occupare. Le sonde che ho lanciato hanno individuato trentasette ambienti distinti, come le bucce di una cipolla. Alcuni di loro, in determinate condizioni climatiche, si mescolano, e ciò aumenta ulteriormente le possibilità. Ma è difficile immaginare qualcosa che possa vivere in tutti quanti. In fondo, poco prima che le mie sonde interrompano le loro trasmissioni, c’è un nucleo di idrogeno metallico fuso. Non so se lì possa viverci qualcosa, ma non scommetterei che sia impossibile vivere nello strato immediatamente superiore.»
«E in quello cosa c’è?»
«Idrogeno liquido, ma è caldo. Circa dodicimila gradi. Tre milioni di atmosfere di pressione. E non mi domandare che tipo di vita potrebbe esserci. Non sarebbe simile a niente di quello che ha studiato Lilo. Ma se gli Invasori e i Gioviani vivono in quella roba, i nostri tentativi sono inutili. Non si riuscirebbe mai a toccarli, credo.»
La conversazione stava disturbando Lilo. Il concetto di ricerca bellica le era nuovo; era qualcosa a cui non aveva mai pensato. Non è piacevole sapere che il tuo lavoro ha un solo fine: uccidere qualsiasi cosa tu riesca a scoprire.