Come posso riassumere un viaggio che durò dieci anni? Dire che fu noioso e che successero poche cose, sarebbe a un tempo un’affermazione terrìbilmente inadeguata e una falsità.
Sono sicura che Javelin cominciò a pentirsi già nel corso del primo mese. Ci aveva portati come un diversivo, per rompere la routine nella quale aveva vissuto per tanto tempo. Ma non avrebbe vissuto in quel modo così a lungo se, in realtà, quella routine non le fosse piaciuta. Dopo il primo mese la vedemmo poco. I suoi alloggi erano accessibili solo a lei. Quando entravamo nel solarium, lei rientrava nella propria parte di nave.
Vaffa decise di farsi addormentare dopo poca.
Cathay e io ci sentimmo molto vicini. Molte volte. Negli intervalli ci parlavamo appena. Ricordo un tremendo litigio per decidere a chi toccasse dare da mangiare ai pesci. Non era colpa sua, e non era neppure mia. In una situazione diversa avremmo potuto sviluppare qualcosa di duraturo, ma non c’era nessun altro da amare o da odiare, o con il quale arrabbiarsi. In parte era solo la mia ostinazione. Lo ammetto. Non volevo amarlo solo perché non c’era nessun altro; avevo bisogno di ragioni più forti. Per lui questo era assurdo, e forse aveva ragione. Ma non potevo farci niente.
Continuavamo a rimetterci insieme soprattutto per le mie necessità sessuali. Per me la mano è sempre stata un partner sessuale insoddisfacente. Non sono mai riuscita a rimanere a lungo arrabbiata con un amante; cominciavo ad aver bisogno di lui, Javelin non costituiva un’alternativa. Una volta ebbi un cop con lei; il che mi sorprese molto, perché avevo pensato che fosse praticamente neutra. Il modo in cui aveva risolto il problema degli organi femminili senza un bacino in cui metterli era ingegnoso, funzionale e affascinante, ma in fondo deludente. Era un’amante mediocre, troppo egocentrica per preoccuparsi di soddisfarmi.
Finii col resistere due settimane più di Cathay. Javelin parve sollevata nel farmi l’iniezione che mi avrebbe fatto dormire per otto anni.
Erano tre settimane che deceleravano.
Javelin aveva avuto ragione; lì c’era qualcosa. Sullo schermo radar appariva una forma delle dimensioni di un grosso asteroide. Era ancora impossibile osservarla direttamente, poiché la luce del getto della nave interferiva con il telescopio. Javelin si era prudentemente diretta verso un punto a cento chilometri di distanza dall’oggetto.
Ma nessuno l’aveva ancora vista, Javelin. Erano quattro settimane che Cathay, Lilo e Vaffa erano svegli e facevano quotidianamente esercizi per ritornare in forma dopo il lungo sonno; invece Javelin era rimasta nella propria stanza. Potevano parlarle, ma solo attraverso i circuiti interni. Lilo pensava che adesso la donna si rendesse conto ancor meglio della loro presenza sulla nave, e che ne fosse sempre più contrariata.
Finalmente comparve, dopo aver tagliato una porta dall’interno della stanza. Adesso aveva due braccia e due gambe, e non poteva più passare attraverso la piccola apertura di cui si era servita. Non poteva aver eseguito da sola quell’intervento chirurgico; Lilo immaginò che nella stanza avesse delle protesi meccaniche.
Sembrava che Javelin ne fosse imbarazzata. Lilo stava per fare un commento, ma al vedere la goffaggine con cui si muoveva in un’accelerazione di un gi — tendendo a dimenticarsi della gamba sinistra e del braccio destro — non disse nulla. Lilo era sicura che avesse modificato alcuni circuiti neurali. Era come se si fosse improvvisamente messa un paio di occhiali che invertissero tutto ciò che vedeva; avrebbe messo un po’ di tempo prima che il suo cervello accettasse i cambiamenti.
All’inizio Lilo si chiese perché Javelin l’avesse fatto. In passato aveva accettato i brevi periodi di immobilità ai quali era costretta quando la nave era sotto spinta; non duravano mai più di un mese ed erano un prezzo ben piccolo in cambio di dieci anni di movimenti comodi in caduta libera.
Ma ora ogni giorno li avvicinava all’avamposto degli Ophiuciti. Chissà cosa avrebbero trovato. Poteva essere qualsiasi cosa, dall’assenza di peso a una gravità di molti gi, e Javelin aveva pensato che fosse meglio essere pronti. Ecco spiegato quello che aveva fatto.
La stazione della Linea Calda era un toroide, una grossa ciambella scura con un diametro esterno di settanta chilometri che ruotava lentamente.
«Sembra un pneumatico,» osservò Cathay, guardando lo schermo del telescopio al di sopra della piccola spalla di Javelin. «Vedete come è schiacciato?»
«Così può avere una maggiore superficie piana all’interno,» spiegò Javelin. «Schiacciato sul fondo e con un tetto arcuato sopra.» Azionò alcuni interruttori sulla consolle. «All’interno hanno una gravità del 75%. Sapete, è piuttosto grande per una rotazione di quel genere. E la densità ci ha ingannato. È soltanto due volte più denso dell’acqua. Non ci dev’essere molto metallo.»
Sul bordo interno della ruota si innalzava una torre. Alla base era massiccia, ma si restringeva rapidamente fino a diventare un ago. Al centro di rotazione c’era un nodulo. Javelin effettuò alcuni altri calcoli.
«Dietro dev’esserci qualcosa di pesante, proprio davanti alla base della torre,» disse. «Altrimenti la sua massa sbilancerebbe la rotazione.»
«Ed è lì che dobbiamo andare, vero?» chiese Cathay. «In cima alla torre?»
«Non so dove altro potremmo dirigerci,» rispose Javelin. «Il resto si muove troppo velocemente. È meglio che vi leghiate alle poltrone. Dovrò compiere alcune manovre.»
«Non dovremmo prima cercare di metterci in contatto con loro?» domandò Lilo. «Sapranno quali sono le nostre frequenze. Immagino che siano secoli che ci ascoltano.»
«Hai ragione. Ma cosa dovremmo dirgli?» Dacché Lilo la conosceva, era la prima volta che Javelin sembrava incerta. Si guardarono l’un l’altro, e nessuno si mostrava particolarmente impaziente di effettuare il primo contatto. Javelin girò le manopole del proprio schermo e ingrandì l’immagine del modulo di attracco al centro della ruota. Avevano tutti notato una debole luce su un lato; Javelin la mise a fuoco.
Per un po’ nessuno disse niente. In realtà la luce era composta da numerose luci e la cosa cui assomigliava di più era un’insegna al neon. C’era scritta una parola: BENVENUTI.
«Vi stavamo aspettando,» disse una voce alla radio. «Se vi avvicinate a cinquecento metri vi lanciamo un cavo. Diciamo fra una ventina di minuti?»