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Non vado quasi mai a visitare una disneyland. Secondo me il desiderio di lavorare la terra a mani nude e di mangiare cibi cresciuti dal suolo è innocuo, ma sciocco. Ci fa desiderare qualcosa che non potremo mai avere, qualcosa che è sempre sospesa nel cielo lunare. Porta a fantasie lunatiche, come quella che da tanto tempo ossessionava Tweed: la riconquista della Terra, la liberazione del tuo pianeta di origine dagli Invasori.

Sono cresciuta circondata dal metallo e non mi è mai sembrato che per questo mi mancasse qualcosa. Le storie sulle glorie della Vecchia Terra mi lasciano indifferente. Per raggiungere le nostre frontiere non dobbiamo cercare di ricatturare il passato, ma guardare in noi stessi. Ho tentato di farlo, e sono finita in prigione.

Tweed doveva aver regolato il termostato del suo paradiso privato sui venti gradi. Stavo soffocando. Porse le piante avevano bisogno dell’estate, ma io senz’altro no. E alcuni piccoli insetti odiosi si erano fatti strada fra i peli delle mie gambe. Natura. Mi tolsi l’ingombrante tunica e cercai di rinfrescarmi mentre Tweed meditava sul mio destino.


Lilo vide Tweed fare un cenno all’uomo al limitare del boschetto. Divenne tesa. Di che si trattava? Poteva decidere che non valeva la pena occuparsi di lei — ancora non sapeva che intenzioni avesse nei suoi confronti — e le cose potevano cominciare a succedere in fretta. Osservò attentamente Vaffa. Se le fossero saltati addosso, avrebbe venduta cara la pelle.

Ma Tweed attraversava velocemente il folto prato. Quando fu scomparso, Vaffa si rilassò un po’. Si sedette nell’erba e si mise a carezzare il serpente. Questa Vaffa era due metri e mezzo, non aveva seno e aveva pochissimo grasso addosso, ed era completamente bianca, come un osso. Un teschio: magra, parca di movimenti, possente e letale.

Qualcuno venne verso di loro correndo. Lilo si chiese come mai qualcuno corresse con quel caldo. Si trattava forse di una persona in difficoltà? Ma era solo allegria. Lilo vide prima il tatuaggio, poi la faccia.

«Salve, Mari.»

«Salve,» ansimava. «Non è meraviglioso? Essere qui, voglio dire.»

«Uh, huh.» Lilo colpì con uno schiaffo qualcosa che ronzava e ritrasse la mano rossa. Sanguisughe!

«Salve, Vaffa.» La donna salutò Mari con un cenno della testa. La dottoressa era madida di sudore e sembrava che le piacesse. Rimase ferma per un attimo, riacquistando fiato. «Devi venire con me,» disse.

«A fare che?»

«Devo registrarti. Ordine del Capo. Vieni, ci vuole un minuto.»

Lilo sapeva che ci sarebbe voluto un po’ di più, ma la seguì per un sentiero che si snodava fra gli alberi. Voltandosi, vide che Vaffa le stava seguendo: prestava però più attenzione al serpente che non a Lilo. Non era molto lusingante. Sarebbe stato piacevole considerarsi pericolosa, ma Vaffa non sembrava particolarmente impressionata. Be’, probabilmente era la cosa migliore. Forse un giorno avrebbe avuto una sorpresa.

Aveva pensato che sarebbe stata portata nella parte più normale della residenza di Tweed. Invece andarono in una radura in mezzo a un folto bosco. Vicino c’era una cascata. Mari aveva portato con sé la borsa; la posò per terra e fece un cenno a Lilo. Steso sull’erba c’era un sottile lenzuolo di plastica.

«Qui?» chiese Lilo. «Non hai bisogno di…» Mari stava già aprendo quello che sembrava un tronco d’albero. Dentro era metallico.

«Perche no? Non ti preoccupare, ti piacerà.»

Lilo doveva ammettere che l’ambiente era più riposante di quello di una normale sala operatoria. Forse l’avrebbe aiutata a superare il nervosismo.

La paura di Lilo nei confronti della registrazione della memoria era comune. Poteva ripetersi quante volte voleva che quello che temeva era semplicemente impossibile; non poteva risvegliarsi dopo il processo di registrazione e sentirsi dire che era morta e che erano passati diversi anni. A un clone poteva succedere, ma a lei no. La coscienza umana è lineare e la sua mente era attaccata al suo corpo, per sempre. Una registrazione della memoria faceva sì che una seconda personalità, esattamente come la sua, potesse venire immessa in un secondo corpo, anch’esso esattamente uguale al suo. Ma Lilo non avrebbe mai potuto partecipare alla vita che il clone avrebbe condotto, anche se aveva tutti i suoi ricordi fino al momento della registrazione.

Cercò di rilassarsi mentre Mari la collegava. Si sentì intorpidire mentre Mari girava i comandi della sua scatola nera. Da quel momento in poi le fu impossibile vedere quello che faceva il medico, però conosceva abbastanza bene il procedimento. Le scoperchiarono la testa. Quando le mani di Mari entrarono nel suo campo visivo si accorse che erano coperte di sangue.

Nel cervello di Lilo c’erano piccoli canali metallici, installati allorché aveva tre anni. Le consentivano di essere collegata a un computer e servivano anche da condotti per il mezzo di registrazione: catene mononucleari di acido ferro-foto-nucleico. Mari avvolse un nastro di registrazione intorno alla fronte di Lilo. Appena esso entrava in funzione, il registratore avrebbe ridotto Lilo all’incoscienza per tre minuti.

In pratica era piuttosto semplice, in teoria impossibilmente complesso. Spesso Lilo si chiedeva se la razza umana sarebbe mai riuscita a mettere a punto quel metodo senza le informazioni ottenute attraverso la Linea Calda Ophiucus.

La memoria è un procedimento olografico: non viene immagazzinata in un solo punto, ma in tutto il cervello. Non può essere registrata o decifrata mediante un processo lineare, come un nastro magnetico che scorra in un registratore. Doveva essere afferrata tutta insieme, nella sua interezza, come con un’istantanea o un ologramma. Il FPNA lo rendeva possibile. Ogni linea — contenente miliardi di bit — interferiva con tutte le altre mentre il processo era in corso. A differenza di un ologramma visivo, nel quale ogni segmento della lastra fotografica presenta tutte le informazioni su tutta l’immagine, una linea isolata di FPNA era inutile. L’immagine aveva un significato solo se tutte le linee del fascio — quarantasei — si combinavano fra loro. La banda di registrazione faceva sì che in tutto il cervello venissero a crearsi campi magnetici che producevano un codice di permutazioni quasi infinite.

Lilo non si era mai preoccupata di sapere se il procedimento fosse effettivamente in grado di ritenere tutto. I concetti di anima, di karass, di karma o di atman non le dicevano molto. Conosceva persone che erano morte ed erano state riportate in vita grazie alla registrazione della memoria e alla clonazione, e non si notava nessuna differenza.

Mari azionò l’interruttore e l’ultima cosa che Lilo ricordò fu la sua faccia sorridente.


Quando si svegliò la faccia era sempre lì, sempre sorridente. Lilo rispose al sorriso, contenta che fosse finito. Accennò ad alzarsi.

«Ferma, non così veloce,» disse Mari, allegra. «Prima devo staccarti e richiuderti.»

C’era qualcosa di diverso. Guardò di nuovo e si rese conto che si trattava dello sfondo. Qualcosa dietro la faccia di Mari era cambiato.

Erano le foglie degli alberi. Prima erano verdi, adesso c’era un miscuglio di rossi, gialli e viola.

«Oh, Dio, no. No, questo… questo non mi piace. Non voglio!»

Mari le toccò delicatamente la fronte. «Non voglio essere costretta a spegnerti.»

Lilo si lasciò andare. A poco a poco si rese conto che al limite del suo campo visivo c’era un cerchio di facce, fra Mari e la volta degli alberi, che la fissavano. C’era Tweed, Vaffa, e… l’altro Vaffa. Uomo e donna, che la guardavano.

Mari terminò il proprio lavoro. «Lascia che ti aiuti,» disse. «Ne avrai bisogno.» Lilo si lasciò mettere a sedere e poi alzare in piedi. Rimase rigida, provando per un attimo le vertigini, ma riacquistando rapidamente il senso dell’equilibrio. Si abbandonò alle sensazioni, senza avere il coraggio di pensare: l’erba sotto i piedi, i capelli che le accarezzavano la faccia, la pelle fresca e il calore della schiena di Mari contro il braccio, il gioco dei muscoli nelle gambe e nei piedi. Mari le circondò la vita con un braccio e la fece camminare in cerchio, come un’ubriaca.

«Riacquisterai l’uso normale delle gambe in pochissimo tempo,» disse dolcemente. «Ti ho fatto fare esercizi durante tutto il processo di crescita, mentre eri nella vasca. Sei forte, solo che ancora non ci sei abituata. Pensi di riuscire a reggerti in piedi da sola?»

Lilo annuì, non avendo abbastanza fiducia in sé per parlare. Mari la lasciò andate e lei si trovò davanti a Tweed che aveva alcuni fogli in mano.

«Così sono morta,» disse. Lui guardò i fogli e spuntò qualcosa.

«Non avete niente da dirmi?»

Tweed non parlò, si limitò a guardare nuovamente i fogli e a farvi un altro segno. Il Vaffa uomo osservava le cime degli alberi e sorrideva. Era la prima volta che lo vedeva sorridere. La femmina si teneva la mano davanti alla bocca e Lilo capì che cercava di trattenersi dal ridere. Era lei che li divertiva? Che razza di gente era?

«Che diavolo sta succedendo? Me lo potreste dire, per favore?»

Tweed strappò un foglio e lo passò a Lilo. Lei lo guardò, guardò Tweed, poi dovette guardare di nuovo quello che temeva di aver visto.

«Così sono morta.»

«Non avete niente da dirmi?»

«Che diavolo sta succedendo? Me lo potreste dire, per favore?»

Le parole erano stampate e accanto a ogni frase c’era un grosso segno. Le vennero di nuovo le vertigini. Ci fu un’apparizione: al limite della radura, una grande alce, con corna di cristallo che riflettevano il sole in una luce azzurra. Un’allucinazione? Guardò da un’altra parte. Voleva andarsene da quel luogo folle.

«È meglio che ti sieda e ti riposi,» disse Mari, circondandola di nuovo con un braccio, mentre a Lilo tremavano le ginocchia. «Forse ti farebbe bene piangere.»

«No! Piangerò più tardi. Adesso voglio sapere cosa sta succedendo.»

«E lo saprai,» annuì Tweed. Fece un cenno e il Vaffa maschio gli aprì una sedia. Ci si sedette. «Mari, ti avevo detto di non intrometterti.»

«Mi dispiace, Capo,» rispose Mari, impotente. «È solo che non riesco… quando qualcuno è in difficoltà, io…»

«Non ti preoccupare. Non avrei dovuto farti venire qui. Comunque non ha importanza. Lilo, come hai già visto, non sei quella che pensavi di essere. Sei un clone. Forse sai cosa è successo alla Lilo originale. Ho motivo di credere che stesse tramando già prima che la facessi registrare. In ogni caso è entrata in società con me con… intenzioni che non erano esattamente le migliori. Sai di cosa sto parlando?»

«Sta dicendo che ho cercato di fuggire. E che non ce l’ho fatta.» Guardò i due Vaffa. Le loro espressioni erano impenetrabili.

«Esattamente. Ci pensavi fin dal momento in cui hai capito che non saresti stata giustiziata.»

«Immagino che non abbia senso non ammetterlo, no?»

«No, non ne ha.»

Ho paura, pensò, ma non lo disse. Poteva darsi che l’avesse scritto da qualche parte. Sentì qualcosa che le si accumulava dentro, qualcosa che doveva trovare uno sbocco. Ne fu contenta, anche se avrebbe significato la morte per lei. Gli avrebbe strappato la pelle dalla faccia, gli avrebbe scoperto le ossa e gliele avrebbe spezzate con i denti. Lo avrebbe ucciso. Guardò per terra, mentre dentro le cresceva la sete di sangue. Stava per scattare…

I suoi occhi si posarono su due piedi nudi. Risalirono lungo un paio di gambe, dei genitali senza peli e un petto piatto, fino a una testa calva. Le ginocchia erano piegate, le braccia leggermente allontanate dai fianchi. Le labbra erano aperte sui denti macchiati secondo la moda. Voleva che Lilo attaccasse. Vaffa si era spostata fra Lilo e Tweed addirittura prima che a Lilo fosse venuto in mente di aggredirlo. La rabbia si ridusse a un nodo secco allo stomaco. Vaffa si rilassò.

«Sapeva dove mettersi,» stava dicendo Tweed. «Lo capisci?»

«Sì, lo capisco.»

«Le tue azioni sono prevedibili, Lilo.»

«Capisco anche questo.»

«Ti piacerebbe sapere cosa ti è successo? Ti mancano quattro mesi.»

«Immagino che sia meglio che sappia.»


Ero stata sciocca. Adesso capivo quanto fosse stato ridicolmente facile fuggire.

Mi avevano portato a fare un corso di sopravvivenza nella disneyland delle Amazzoni, trecento chilometri quadrati di giungla tropicale a clima controllato, venti chilometri al di sotto di Aristillus. Ero nell’entroterra, la zona che la gente non vede mai, dove piove tutto il giorno e gli abiti ti marciscono addosso nell’umidità soffocante.

Stavamo tornando a casa attraverso i corridoi pubblici. C’era una guardia sola; Vaffa era stata richiamata all’ultimo momento. Avevo rubato il pezzo di pelle di cui avevo bisogno dal laboratorio di Mari. Aspettavo che si presentasse un’occasione.

La guardia si voltò da un’altra parte.

Scattai fra la folla. In due secondi sparii alla vista. In trenta ero già due livelli più in basso e mille metri a est su un marciapiede che attraversava la città e che tornava indietro. Superai la dogana grazie al pezzo di pelle che avevo sulla palma, e presi un treno per Clavius.

Il treno si fermò a un segnale. Trenta minuti dopo la porta si aprì con un sospiro a una stazione che conoscevo bene. Mi domandai cosa mi avrebbero fatto.

C’era Vaffa, la donna, la faccia che mi era ormai così familiare. Guardai la cosa di metallo scuro che aveva in mano, poi i denti che aveva messo in mostra. Ancora non capivo.


Lilo ebbe un altro, inutile conato di vomito. Era passato molto tempo da quando aveva svuotato lo stomaco, ma continuava a sentirsi male. Era inginocchiata sull’erba, sopra il miscuglio di bile e di fluido della vasca che aveva rigettato. Mari la sorreggeva, mentre Tweed riponeva le foto.

«I Vaffa sono piuttosto diretti nelle loro azioni,» esclamò Tweed. «Come ti avevo detto tanto tempo fa, sono utili.» Li guardò tutti e due. Lilo notò lo sguardo e per un attimo si domandò se non ne avesse paura anche lui. «Sei in grado di continuare?»

Lilo si sedette sui talloni. C’era Vaffa, la donna che aveva sparato a qualcuno che le assomigliava esattamente e che poi aveva sorretto il cadavere insanguinato con la faccia e il corpo informi, in modo che potesse essere fotografato. Il suo viso si muoveva solo quando sbatteva gli occhi.

«C’è altro?»

«Temo di si. Non ti arrendi facilmente. Se tu lo facessi non saresti il tipo di persona che sto cercando.»

«E altre fotografie?»

«Sì. Devi vederle»

«Facciamola finita.»


Ero stata sciocca.

Adesso lo capivo, e chiedevo perdono delle mie due precedenti incarnazioni. Col mio insuccesso avevo reso inutili le loro morti. Molto difficilmente avrei avuto un’altra occasione.

E il costo: Mari, Mari…

Forse Tweed non mi avrebbe riportato di nuovo in vita. O, se l’avesse fatto, non mi avrebbe detto di Mari e della mia vergogna. Vaffa comparve sulla porta della mia stanza. Lo salutai.


Tweed aveva acceso un altro sigaro. Esalò una nuvola di fumo, e Lilo vide la Vaffa femmina allontanarsi di un passo da lui. Le venne un tic al naso.

«La prima volta sei scattata,» disse. «Hai visto l’occasione che volevo tu vedessi e l’hai colta.» L’alce, che era risultata non essere un’allucinazione, era entrata nella radura e stava brucando l’erba dietro Tweed. Mentre Tweed parlava, Lilo osservava la luce che si rifletteva sulle corna. Non voleva pensare.

«La seconda volta avevi imparato, ma non la lezione che volevo io… Avevi deciso di stare più attenta. Ti offrii la stessa occasione e tu, saggiamente, la rifiutasti. Questa volta saresti fuggita da sola.»

«Cosa feci?»

«Adesso arriviamo al punto di questa sgradevole situazione. Non ti dirò come hai tentato di fuggire. Capisci perché?»

Lilo cercò di pensarci, ma non le servì a niente. Sapeva solo di essere in trappola. Niente aveva senso.

«Non importa. Non mi aspetto che tu assimili tutto in una volta sola. Ci metterai un po’ per abituartici. Voglio solo che tu capisca che hai fatto del tuo meglio per sfuggirmi. Questa volta non hai avuto nessun aiuto. Ti ci sono voluti due mesi per mettere a punto il piano, e in tutto quel tempo sembrava che tu cooperassi con me. Quello che devi capire è che era il miglior piano che tu potessi escogitare.» Pronunciò queste parole con voce tonante. Lo guardarono tutti; non potevano farne a meno. Sapeva essere un abile oratore, quando lo voleva.

«È proprio ciò che quella specie di messinscena doveva dimostrarti. Ti ho già vista riportata alla vita due volte. E tutt’e due le volte hai reagito nello stesso modo. Non avevi scelta: puoi essere solo quello che sei. Ogni volta sei partita con ricordi identici a quelli che avevi il giorno in cui sei stata registrata, qui in questa radura. Ogni volta sei diventata una persona leggermente diversa. La Lilo originale era sciocca, non era abbastanza previdente, e ha pagato. La seconda era molto astuta. Ha ucciso Mari e si è avvicinata quanto…»

«Cos’ha fatto?»

«Mi hai sentito.»

Mari le era accanto. «Lilo, non…»

Lilo si tirò indietro in preda all’orrore. «No! Non avrei potuto farlo. Avrei potuto uccidere… quello,» indicò i due Vaffa. «Avrei potuto uccidere una qualunque di quelle due cose. Ma non Mari.»

«Non ho detto che tu non abbia avuto rimorsi,» continuò Tweed. «Vaffa dice che sembravi sollevata quando ti ha ucciso.»

«Lilo, non provo nessun rancore verso di te,» fece Mari. «So che sembra strano, ma adesso ti conosco… ti conosco due volte. Mi piaci. Hai fatto quello che pensavi di dover fare, e hai aspettato che fossi stata registrata. Ho perso solo qualche giorno. Il Capo mi ha detto che non ho provato nessun dolore, non mi hai fatto soffrire.»

«È vero,» annuì Tweed. Stava esaminando Lilo.

«Non posso crederci…»

«Devi farlo. E sappi anche questo. Adesso ti conosco. Ci sono segni che posso notare, cose che non puoi nascondermi. Se li vedrò, saprò che stai seguendo la sceneggiatura. Tu, invece, non sarai mai sicura.» Le sue grasse dita, che sottolineavano quello che diceva, erano come le sbarre di una gabbia che le si chiudeva intorno.

«Ti darò il tempo di pensare a quello che ti ho detto. Quando avrai deciso se sei disposta a collaborare, vieni a dirmelo. Devi scegliere tu, e questa volta voglio una decisione definitiva, non le menzogne che mi hai detto all’Istituto. Ho già perso abbastanza tempo ed energia con te.»

Se ne andò, seguito dal Vaffa maschio come da un cane fedele. Lilo e Mari rimasero praticamente sole, poiché sembrava che l’altra Vaffa si fosse scordata di loro. Lilo la guardò mentre cercava di convincere il suo serpente a scendere da un albero, poi si arrampicò su un tronco verticale e gli si mise accanto.

Il silenzio diventò sgradevole.

«Vorrei sapere cosa rispondere,» sussurrò Lilo. «Vorrei davvero saperlo.»

«Rispondi che farai quello che dirà. Non hai scelta.»

«No, non parlavo di quello. Non… non ho molta scelta su quello, immagino. Almeno così sembra. Non so cosa dire a te.»

«Non mi devi dire niente. Tu non hai fatto niente. Di te ho solo buoni ricordi. A chi è stato fatto del male? A qualcuno che un tempo era me, da qualcun altro che un tempo era te.»

A Lilo sarebbe piaciuto considerare la situazione in quel modo. Sapeva che si sarebbe vergognata in eterno per ciò che aveva fatto il suo io precedente. Ma il solo modo per superarlo era vederlo come suggeriva Mari.

«Ti ho acconciato le gambe come piacciono a te,» disse Mari. Lilo abbassò lo sguardo. Non aveva pensato che le sue gambe sarebbero state diverse, ma era naturale. Lo schema genetico non comprendeva i peli.

«Grazie. È un gesto che apprezzo.»

«Sapevo che l’avresti fatto.»

Lilo fece una smorfia. Sapeva che Mari non voleva sottintendere niente di male con quella frase; ma non sarebbe mai riuscita ad ascoltare quelle parole senza turbarsi. Non le piaceva essere prevedibile. Per niente.

Domandandosi se fosse quello che aveva detto l’altra volta, disse: «Sarà meglio che vada a vedere il Capo, immagino.»

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