Ormai da un mese circolavano voci a questo proposito: ci sarebbe finalmente stata un’esercitazione, una prova pratica di una delle armi utilizzabili in un’eventuale guerra contro gli Invasori. Quando sentì dire di cosa si sarebbe trattato, Lilo non ci credette. Tweed non l’avrebbe certamente fatto.
Ma dopo poco la notizia diventò ufficiale. Erano tutti preoccupati, ma nessuno sapeva còme intervenire. Tweed voleva togliere il buco nero dall’altra faccia di Poseidone, farlo passare attraverso Giove e stare a vedere la reazione. Su Poseidone erano tutti d’accordo che se una reazione ci fosse stata, non sarebbe stato necessario trasmettere le notizie a Tweed. L’intero sistema solare l’avrebbe saputo immediatamente.
Lilo ne parlò con Niobe e Vejay, quindi trascorse ore e ore con Cass e Cathay. Avevano tutti paura. Quello che Lilo voleva decidere era come comportarsi. Cathay pensava che qualsiasi tentativo di arrestare il processo sarebbe stato un suicidio e diceva che la cosa migliore era sperare che gli Invasori ignorassero tutto. In fin dei conti Giove era uh pianeta grande. Poteva anche darsi che non fosse colpito nessuno.
Lilo la pensava in modo completamente diverso, e con lei Niobe, Vejay e Cass.
«Sai cosa credo?» esclamò Lilo. «Credo che non si sia mai presentata un’occasione migliore per cercare di impadronirsi di Poseidone.»
Aspettò che la reazione a queste parole si placasse. Respirava con forza, e intendeva far valere le proprie ragioni. Se fosse riuscita a convincerli, forse avrebbe convinto anche se stessa. Non voleva morire, e la sua proposta sembrava pericolosa, anche a lei.
«Voglio dire questo: qual è il momento migliore per rischiare se non quando l’alternativa è altrettanto brutta? Io sono disposta a farlo. Voi?»
La discussione si protrasse inutilmente nel cuore della notte. Il massimo che Lilo riuscì a ottenere fu il consenso a parlarne ancora e l’impegno dell’appoggio se fosse riuscita a elaborare un piano.
Uno l’aveva, ma appena abbozzato. Dipendeva da come si sarebbero evolute le circostanze, ma ogni piano presupponeva di essere a bordo della nave che avrebbe fatto cadere il buco su Giove. Se le fosse riuscito, avrebbe potuto pensare a come impadronirsi della nave e tornare a prendere gli altri.
Così avvicinò una Vaffa per accennare alla possibilità di servirsi della nave per lanciare un’altra sonda biologica. Osservò che sarebbe stato ragionevole unire le due missioni. Il rimorchiatore elettromagnetico avrebbe potuto lasciar cadere il buco in modo che passasse attraverso il centro di Giove, poi effettuare una leggera deviazione nella traiettoria per lanciare una sonda carica di strumenti, mandandola a sfiorare l’atmosfera.
Dopo essersi consultata con i suoi cloni e aver esaminato le direttive di Tweed, Vaffa approvò il progetto. Lilo disse che avrebbe avuto bisogno di qualcuno che la aiutasse e propose Vejay. Vaffa lo escluse immediatamente, poiché non aveva una buona reputazione. Lilo si affrettò a fare il nome di Cathay come alternativa. Non voleva che la Vaffa pensasse che c’era un progetto di fuga.
Contava sul fatto che, sebbene Tweed potesse sapere cosa avrebbe fatto in fase di progettazione e di preparazione, non poteva predire come avrebbe reagito di fronte a un’occasione imprevista. La sua intenzione era di porsi in una situazione in cui si potesse presentare un’opportunità del genere.
Disse a Vejay di trovare un sistema che permettesse a Cathay di uccidere o neutralizzare il pilota del rimorchiatore e, con un po’ di fortuna, assumere il controllo dell’astronave. Di proposito, non fece nessun piano per liberarsi dei Vaffa. Non solo le sembrava impossibile, ma era convinta che eventuali piani l’avrebbero danneggiata anziché aiutarla. Tutto andava fatto a braccio. Sarebbe salita sulla nave e sarebbe stata attenta a cogliere qualsiasi possibilità.
Fece del suo meglio per non pensarci. Infatti le sembrava un progetto folle. Tweed li sorprese e per poco non rovinò tutto. I cospiratori si riunirono in fretta appena Lilo venne a sapere cosa sarebbe effettivamente successo.
«Ecco cosa capita a fidarsi delle voci,» commentò Niobe.
«Avremmo dovuto pensarci,» osservò Vejay. «Se avesse usato il nostro buco nero ci saremmo trovati in difficoltà. Il generatore a fusione di emergenza avrebbe soddisfatto le nostre necessità, ma saremmo stati ai limiti.»
«È solo che non pensavo che gli interessassimo fino a questo punto,» disse Niobe.
Ciò che Tweed aveva fatto era stato comprare un secondo buco nero sul mercato libero di Plutone. Era in viaggio verso la Luna per diventare la nona stazione energetica orbitante, ma quello che nessuna autorità sapeva era che Tweed intendeva farlo prima passare attraverso Giove.
Era semplice, era economico. Tipico di Tweed. Appena era possibile, con ogni singola mossa sviluppava più di un progetto. Il buco, in orbita intorno alla Luna, gli avrebbe permesso di riscuotere profitti enormi, cosicché le spese per la realizzazione del piano sarebbero state giustificate e assorbite. Il grande rimorchiatore elettromagnetico che aveva accelerato il buco di Plutone l’avrebbe lasciato andare da una parte di Giove, avrebbe atteso che gli passasse attraverso e l’avrebbe recuperato dall’altra parte.
Lilo fece presente a Vaffa che sarebbe stato sempre possibile usare il piccolo razzo di Poseidone per andare incontro alla nave più grande. Vaffa ci pensò su e alla fine approvò l’idea. Le Vaffa potevano anche sospettare l’esistenza di un piano, ma si sentivano sufficientemente sicure per quanto riguardava il piccolo razzo. Aveva la strana caratteristica di esplodere se superava una certa distanza dal campo gravitazionale di Giove: un’altra delle innumerevoli precauzioni contro le fughe.
Il piccolo razzo era di un modello standard, poco più di un motore e di un telaio pieno di sedili. Tre dei quattro sedili erano occupati da corpi argentei mentre un Vaffa rallentava fino a scendere alla velocità dell’enorme rimorchiatore.
Lo aveva avvicinato dal davanti, su un fianco. Nessuno di loro voleva portarsi all’estremità posteriore dell’astronave. Là, da qualche parte, sostenuto da linee invisibili di forza magnetica, c’era un buco nero più piccolo di una capocchia di spillo, ma con una massa grande come quella di un asteroide medio. Non conveniva avvicinarvisi troppo.
Lilo cercava di destreggiarsi con tutti i fattori che aveva in mente, aspettando l’occasione che, se si fosse presentata, sarebbe potuta durare solo una frazione di secondo. Il rimorchiatore aveva un equipaggio di un’unità. Solo Vaffa era in comunicazione con lui. La capsula di gas artigianale nascosta nella sonda fissata all’esterno del razzo. Vaffa con la propria arma al fianco. Tempi e traiettorie: venti minuti allo sgancio, a quando il rimorchiatore avrebbe lasciato andare il buco nero e si sarebbe allontanato; trenta minuti al cambiamento di direzione che avrebbe immesso la sonda nella traiettoria giusta per sfiorare l’atmosfera gioviana.
Cathay doveva cercare di entrare nel rimorchiatore per primo (alla camera stagna poteva accedere solo una persona alla volta). Dopo dipendeva da lui. Se avesse narcotizzato l’uomo all’interno, erano costretti a cercare di sopraffare Vaffa. Avrebbero potuto farcela, con l’aiuto della sorpresa.
A dieci metri di distanza Vaffa lanciò una linea magnetica al rimorchiatore e lasciò che li trainasse. I tre si alzarono dai sedili e cominciarono a ormeggiare il piccolo razzo. Lilo vide Cathay avvicinarsi al portello dov’era nascosta la bomba a gas e cercò di frapporsi fra lui e Vaffa.
«So cosa tenti di fare,» disse Vaffa con calma.
«Un’ispezione,» disse Lilo, disperata. «Dobbiamo…»
«Fatemi vedere.» Stava mettendo mano al laser.
Lilo puntò un piede sul razzo e gli si lanciò contro. Lo colpì con una testata allo stomaco, facendolo piegare in due. Vide il laser passarle davanti alla faccia, mentre lui allentava per un attimo la presa. Gli colpì il polso con il taglio della mano e l’arma si allontanò da loro roteando.
«La camera stagna!» gridò. «Entra nella camera stagna! Presto!»
Non riusciva a vedere se Cathay si stesse muovendo. Vaffa le sferrò un pugno al mento, ma la forza del colpo gli fece girare il corpo abbastanza da schivare. Era stato un riflesso istintivo, ma eira un comportamento sbagliato in assenza di peso. Si rese conto del proprio errore e stava per cambiare tattica, allorché si accorse che era uscito dalla portata della nave e del razzo. Afferrò il piede di Lilo quando gli passò accanto, proprio mentre lei cercava di aggrapparsi a una sporgenza del razzo. Vaffa tirò, Lilo gli dette un calcio, mollando però la presa. I due cominciarono ad allontanarsi dal razzo, non velocemente, ma senza che avessero modo di tornare indietro con i loro mezzi. A meno che…
Lilo gli diede altri calci, colpendolo alla mascella. Vaffa la strinse con la forza della disperazione, finché Lilo dovette fermarsi perché non era più rivolta verso la nave, La sua idea era stata quella di spingerlo lontano da sé e di tornare indietro così. Ma l’aveva capito anche Vaffa, e non appena Lilo smise di tirare calci, cominciò ad arrampicarglisi su per la gamba. Fra un secondo sarebbe stato lui ad allontanare Lilo dalla nave.
Lei scalciò di nuovo, spingendolo nuovamente alla caviglia, poi continuò a scalciare, questa volta con entrambi i piedi. Quando faceva centro le sembrava che le sue costole si frantumassero sotto i colpi. Con crudeltà, mirò sempre allo stesso punto. Lui si piegò in due per il dolore e la lasciò andare. Fluttuava libero, roteando adagio adagio.
La situazione non sembrava troppo brutta, a patto che Cathay riuscisse a impadronirsi dell’astronave. Vide Vaffa che girava a circa una rivoluzione al secondo, poi vide il rimorchiatore. Se ne era allontanata di una cinquantina di metri. Era ancora possibile capire in che direzione lei si stesse muovendo.
Poi sentì Vaffa chiamare la nave.
«Cathay! Sta parlando con il pilota. Devi prenderlo prima che possa chiamare Poseidone e raccontare cosa è successo, o…» Si interruppe, rendendosi conto che se fosse stato dentro la nave, in condizioni di poter fare qualcosa, non avrebbe potuto sentirla. Se non era dentro alla nave, era comunque tutto finito.
Trascorsero tre lunghi minuti. La sola cosa che Lilo sapeva di sicuro era che non si stava avvicinando alla nave. Se ne allontanava. E non le interessava neanche in che direzione. Davanti a lei Giove diventava sempre più grande e ormai riempiva il cielo con al centro esatto il cerchio del rimorchiatore, visto di poppa. Da qualche parte, davanti a lei, c’era un buco nero.
«Ci arriverai prima tu!» gridò come una pazza. «Come ti senti, Vaffa?»
Per un po’ non ci fu risposta La voce che finalmente la raggiunse era tesa, piena di dolore.
«Perché l’hai fatto?»
«Non credo che riuscirei a spiegartelo. Ma ha quasi funzionato. Potrebbe ancora andare bene. Tengo le dita incrociate.»
Nessuna risposta. A Lilo parve di sentire un gemito. Dopo qualche secondo ne fu sicura. Ci fu un rumore indefinito che le fece rizzare i capélli anche dopo che lo ebbe identificato. Era un grido subvocalizzato, raccolto dal microfono che Vaffa aveva in gola e amplificato in un vero rantolo. Poi silenzio. Lilo cominciò a preoccuparsi. Non l’aveva colpito così forte.
«Lilo? Mi senti? Sei viva?»
«Sì, sono qui! Ce l’hai fatta!»
«Mi c’è voluto un po’ per sintonizzare la radio sulla frequenza della tuta. Maledizione, vorrei che tu fossi qui. Tutti questi pulsanti mi fanno paura.» L’avevano addestrato per ore sui modelli che Vejay aveva costruito. Avrebbe potuto scegliere una traiettoria, se fosse stato necessario; e se non ci fosse stato nessun imprevisto, sarebbe riuscito a mantenerla.
«Non importa. Ora devi sganciare il buco nero, alla svelta. Credo che Vaffa sia morto e ho paura che sia stato ucciso dal campo magnetico che ha interferito col generatore della tuta. Non conosco la fisica abbastanza da sapere cosa possa fare un campo magnetico potente, ma non sembrava piacevole. Puoi… velocemente, voglio dire? Non so quanto ci vorrà per…» Si interruppe, rendendosi conto che si stava lasciando prendere dal panico. «Un attimo. Ora lo faccio.» Lo sentì borbottare fra sé, poi un grido di trionfo. «Ecco. Segnano tutti zero. Ce l’ho fatta?»
«Lo saprò fra un momento. Adesso dobbiamo farci venire in mente qualcosa alla svelta. Nessuno dei due vuole cadere in quell’affare. Dovrai allontanare un po’ la nave. Vejay ha detto che il campo gravitazionale di un buco nero è molto debole anche solo a poca distanza, ma aumenta enormemente se ci si avvicina. Io sto bene. Ma tu devi salvare la nave per il ritorno.»
«È troppo tardi. Non ho avuto il tempo di dirtelo, ma il pilota è riuscito a parlare con Poseidone prima che lo addormentassi. Sanno che ci siamo impadroniti della nave. Ci aspettano. Non si può tornare, Lilo.» Lo sentiva singhiozzare. Oh, Dio. Vejay, Niobe e Cass che aspettavano all’esterno sperando che Lilo e Cathay tornassero con il rimorchiatore…
«Cathay, ne abbiamo parlato. Sanno cosa fare. Se verranno sospettati di qualcosa, si nasconderanno con Cass e aspetteranno. Adesso dobbiamo andarcene, per poter tornare con qualche arma efficace.»
«Hai ragione. Noi…»
Sembrò che tutto succedesse contemporaneamente. Dietro Lilo balenò un lampo. Fece per voltarsi, poi ci ripensò. Doveva essere il Vaffa che si scontrava con il buco e che veniva condensato in materia degenerata dalla terribile gravità, liberando sotto forma di radiazioni pure tutta l’energia immagazzinata negli atomi del suo corpo.
Già quello era abbastanza spiacevole; inoltre, davanti a lei, il rimorchiatore si era messo in moto. Ne usciva un sottile fascio di luce che lo spingeva nella direzione opposta, e i motori continuavano a funzionare.
Giove aveva inghiottito il cielo. Era bellissimo. Sebbene sapesse che sarebbe stato la causa della sua morte, Lilo doveva ammetterlo. E lo preferiva al buco nero, anche se la sua morte non sarebbe stata altrettanto rapida.
Da quando, due ore prima, il pilota automatico del rimorchiatore aveva effettuato la manovra prestabilita (i particolari, gli infiniti particolari; come avrebbe potuto considerarli tutti?), Lilo era stata sopraffatta da un letargo paralizzante, dalla certezza della morte. Non che non avesse lottato per opporvisi; lei e Cathay avevano considerato tutte le possibilità. Ma quando lo sfondo di stelle aveva cominciato a ruotarle intorno in una direzione che poteva essere spiegata in un solo modo, aveva capito che il suo destino era segnato. Era passata lontano dal buco, ma non abbastanza.
Anche Vaffa l’aveva mancato, ma addirittura per meno. Gli si era avvicinato quanto era bastato perché il suo corpo fosse compresso in una particella troppo piccola per essere visibile, se non per la luce emessa mentre veniva annientato. C’era stato un lampo di un secondo, e si era perduto nello spazio.
Lilo non si era avvicinata tanto. Un buco nero poteva essere pericoloso, ma non tanto per il rischio di andargli a sbattere contro. Questo era molto improbabile, poiché era così minuscolo e galleggiava in uno spazio così ampio. Ma anche mancarlo di poco poteva essere fatale. Via via che ci si avvicinava al buco, la forza del campo gravitazionale variava bruscamente. Se Lilo gli fosse passata accanto con un’orbita iperbolica stretta, le tensioni indotte dalla gravità del buco, che avrebbe attirato le diverse parti del suo corpo con forze diverse, l’avrebbe fatta a pezzi. Se si fosse avvicinata di più, come Vaffa, la gravità avrebbe potuto ridurre il suo corpo a una massa di neutronio dèlie dimensioni di uno spillo.
In un certo senso era stata fortunata, ma non abbastanza. Sarebbe rimasta sufficientemente lontana da restare viva, ma stava senz’altro orbitando lentamente intorno al buco.
Aveva discusso la situazione con calma insieme a Cathay. Lui voleva andare a soccorrerla con il piccolo razzo, ma lei gli disse cosa aveva visto allorché il rimorchiatore si era messo in moto. L’accelerazione aveva strappato il veicolo dagli ormeggi e l’aveva fatto a pezzi. Allora Cathay voleva andare a prenderla con il rimorchiatore, ma era impossibile. Neppure un pilota abilissimo avrebbe osato avvicinarsi tanto al buco.
Da un certo punto di vista Cathay stava soffrendo più di lei. Lui aveva ancora scelte da compiere, cose da fare, e nessuna era facile. Lilo glielo disse chiaramente, col distacco brutale della persona il cui destino è segnato.
«Non puoi tornare su Poseidone, almeno adesso. Ti stanno aspettando. Devi sperare che Cass e gli altri stiano bene. Devi andare su Saturno. Vai alle coordinate che ti ho detto e aspetta. Trasmetti sulla frequenza che ti ho dato. Probabilmente Parameter non si è allontanata molto dal laboratorio. Io sono lì, da qualche parte. Devi trovare me e Parameter. Ti aiuteranno. Hai il rimorchiatore. Puoi trovare delle armi, in qualche modo. Poi torna a prendere i bambini. Torna, Cathay.»
«Tornerò. Ma non voglio andarmene. Non posso lasciarti qui.»
«Devi farlo. Non voglio che tu ascolti quando… quando verrà la fine. Non lo voglio.» Sentiva di essere prossima al panico e rese la voce il più dura possibile. «Ora vai. Hai fatto tutto quello che potevi.»
Fu solo quando cominciò ad avvertire una leggera pressione sulla schiena che si domandò come sarebbe morta.
La pressione aumentò con rapidità incredibile. Stava sfrecciando attraverso l’atmosfera di Giove, come una meteora, ma la tuta l’avrebbe protetta. Fu circondata da un alone arancione che diventò così luminoso da non permetterle di vedere nient’altro. Il suo movimento rotatorio si arrestò mentre spinte aerodinamiche la stabilizzavano con la schiena rivolta verso il pianeta e le braccia e le gambe allungate davanti a sé. La decelerazione aumentava velocemente, ma Lilo sapeva che grazie al polmone della tuta che le immetteva ossigeno nel sangue poteva reggerla fino a valori enormi.
La tuta si fece rigida. La sensazione di trazione ai piedi e alle mani era scomparsa. La sola impressione di moto era che la pancia stesse cercando di toccare la spina dorsale. La pelle della faccia era tirata sulle guance e i seni cercavano di trovare una nuova disposizione sotto le ascelle.
Non sapeva assolutamente quanto sarebbe durato. A quel punto doveva essere svenuta, anche se poi non ricordò di averlo fatto né di aver riacquistato i sensi. Ma la pressione era scomparsa. Aveva raggiunto la velocità massima per gli strati superiori dell’atmosfera e stava cadendo per effetto dell’attrazione di gravità, quasi in assenza di peso. Si guardò intorno cercando di vedere il buco nero, i cui effetti sui gas che lo circondavano avrebbero dovuto essere visibili. Poi ricordò che l’atmosfera non avrebbe affatto rallentato il buco; esso doveva aver già attraversato metà pianeta. Quindi sarebbe sicuramente stato Giove a ucciderla.
L’aria era limpida e nuvole altissime si levavano intorno a lei. Di tanto in tanto, allorché i venti la investivano e là spostavano di lato, era sottoposta a brusche accelerazioni.
Era una cosa al di fuori del tempo, la caduta. Agli inizi aveva seguito le antiche abitudini, tentando di calcolare quanto le ci sarebbe voluto per raggiungere le nuvole scure sotto di sé, quale poteva essere la temperatura al di fuori del campo della tuta, a quale densità i gas l’avrebbero fatta galleggiare. Poi però si accontentò di guardare. Era uno spettacolo stupefacente. Se doveva morire, sarebbe potuto capitarle di peggio che andare incontro alla morte in quello scenario, da sola.
Non durò a lungo. Raggiunse lo strato di nuvole e la visibilità diventò nulla. Non vedeva niente, solo la mano argentea che si teneva davanti agli occhi per essere sicura di non essere ancora morta. Era possibile morire senza saperlo?
Il fatto che la sua mente non smettesse di funzionare cominciò a disturbarla. Non avendo niente da fare né da vedere, cominciò di nuovo a riflettere. Cosa l’avrebbe uccisa? Sarebbe sopravvissuta a tutto e sarebbe morta appena terminata la riserva di ossigeno? Sarebbe stata una morte comoda, perdere a poco a poco coscienza e non risvegliarsi più.
Ricordò la valvola di uscita della tuta, il fiore metallico che aveva sotto la clavicola per l’espulsione dei gas di scarico e del calore. Era costruito in una lega molto resistente, ma avrebbe potuto surriscaldarsi, otturarsi, fondersi. In quel modo la morte sarebbe stata più rapida, e forse più dolorosa. Ma non poteva farci niente. Provò un momentaneo rimpianto per il fatto che non sarebbe riuscita a raggiungere lo strato di idrogeno liquido caldo. Sarebbe stata senz’altro una cosa da vedere.
Più tardi, con maggiore freddezza, si rese conto che probabilmente sarebbe stato monotono quanto quello schifoso strato di nuvole che stava traversando.
Ma all’improvviso sbucò fuori dalle nubi. Un ampio spazio semibuio le si aprì davanti. In realtà era molto più luminoso di quanto si sarebbe aspettata, considerando lo spessore dello strato di nuvole soprastante.
Per qualche motivo, venne ripresa da una paura paralizzante. Non poteva far niente per respingerla. Alcune parti della sua mente avevano esaminato la situazione da un punto di vista diverso, giungendo alla conclusione che non aveva possibilità di scampo. E non volevano accettare il fatto.
Svenne di nuovo, o ebbe un attacco di pazzia. Adesso le nubi erano molto più vicine, un miscuglio di forme rosse e viola orlate di sprazzi luminosi (bianchi, con vaporosi fondi grigi) che si agitavano e ribollivano come un calderone di torpedini elettriche.
C’erano alcune forme gialle appena visibili, che guizzavano dal banco di nubi sotto di lei — (sopra di me, sospese in un cielo azzurro) — nell’aria più limpida, poi di nuovo nell’oscurità. Erano quasi certamente vive. Si domandò se fossero Invasori, o membri della razza gioviana intelligente, o solo degli animali.
(Il terreno era soffice, cedevole. Ne afferrai una manciata; me lo feci passare attraverso le dita. Sabbia. Mi ci infilai agitandomi, cercando di seppellirmici. Una brezza mi rinfrescò il corpo e spinse le soffici nubi bianche nel cielo azzurro, sopra di me. Una forma gialla sfrecciò fuori da una delle nubi) … e poi di nuovo dentro il banco di nuvole. Si stavano avvicinando. Aveva riacquistato una calma distaccata e si domandò se avrebbero cercato di mangiarla. Le facevano male gli occhi, per lo sforzo di guardarle…
(A sinistra, a destra, si allontanano, poi… Ouch! Mi si sono incrociati gli occhi e comincia a farmi male la testa. Mi sono messa le mani sulla faccia, contenta della sabbia ruvida con la quale mi sono sfregata. Sono rotolata sulla sabbia, giù, sentendo duro sotto di me, umidità, pendio) … stava salendo, puntava direttamente verso di lei. Non riusciva a capirne la forma. Al centro, se si poteva dire che avesse un centro, c’era un foro, e in mezzo al foro c’era un albero (un albero) e la sensazione di sabbia nella bocca, acqua (che mi investe, che mi fa rotolare, che mi tira, nella bocca e nel naso) sale e sabbia e un rumore rombante. Disorientamento, tempo che scorre lateralmente, una sensazione di nausea che aumenta in fondo allo stomaco…
Mi alzai nell’onda e barcollai come un’ubriaca, nuda, bagnata, confusa. Feci un passo e caddi mentre la terra ondeggiava. Sulle mani e sulle ginocchia, vomitai nell’acqua schiumosa. Cominciai a trascinarmi, intontita, concentrata completamente sui ciuffi bagnati di capelli che mi penzolavano davanti, oscillando. Vidi le mie mani che afferravano la sabbia, e sarebbero potute appartenere a qualcun altro.
Il sole stava tramontando. Era la cosa più maestosa che Lilo avesse mai visto.
Si rannicchiò sotto un gruppo di arbusti battuti dal vento, stringendosi le gambe contro il corpo. Il vento veniva dal mare ed era freddo. Batteva i denti. Forse sarebbe congelata prima della fine della notte.
Le era impossibile ricordare quando aveva deciso che non era morta, che quello non era l’aldilà. Era restata molte ore stesa sulla sabbia, insensibile, con la mente ingombra di troppe cose impossibili. La lucidità era tornata solo gradualmente, con cautela, pronta a svanire di nuovo in un qualsiasi momento.
Il freddo l’aveva aiutata. La percezione di quel disagio l’aveva costretta a controllarsi, a strisciare al sottile riparo delle piante, a rannicchiarsi per combattere i brividi.
Mentre guardava l’oceano col sole che tramontava dietro di lei, si era resa conto di sapere dove si trovava. Le stelle spuntarono a una a una, tremolando debolmente. Dunque ammiccavano, non era una favola per i bambini.
Scese la notte, e dopo molte ore di brividi e di fame qualcosa si levò sopra le acque. Era la Luna.
Era nel continente nordamericano e stava guardando l’oceano Atlantico.
La regione era piatta. Erano diverse ore che Lilo camminava verso sud, sulla spiaggia. Una volta si era spinta verso l’interno per qualche centinaio di metri, ma il terreno era soffice e bagnato e nuvole di insetti si erano alzate a tormentarla. Aveva la pelle punteggiata di macchioline.
Non aveva un vero piano, se non quello di continuare a muoversi. Sperava di trovare un riparo e possibilmente qualche pianta commestibile. Aveva esaminato alcune bacche verdi e un tipo di alga marrone, le aveva assaggiate tutte e due e aveva ripreso a camminare. Avrebbe dovuto avere molta più fame per ridursi a mangiarle. Stava evitando l’idea di catturare animali e cibarsene. Tutte le carni che aveva mangiato fino ad allora venivano da piante mutate. Non aveva considerato il fatto che forse non sarebbe riuscita a catturare niente. Una parte della sua mente non riusciva a smettere di pensare che quella fosse una disneyland al di sotto della superficie lunare. Sarebbe stato facile crederlo, a parte la costante pesantezza che avvertiva. Le caviglie e i polpacci le pulsavano a causa della gravità e del continuo scivolare della sabbia sotto i piedi.
La spiaggia si restrinse fino a diventare un punto; a ovest c’era l’estremità settentrionale di una grande baia. Si lasciò cadere sulla sabbia e guardò la terra dall’altra parte. Era troppo lontana per raggiungerla a nuoto, così dovette decidere se tornare indietro o continuare lungo la parte interna della baia. Dalla sua posizione non era possibile sapere se fosse davvero una baia o se si trattasse di un’isola.
Rimase sorpresa nel rendersi conto di quanto fosse stanca. Le girava la testa e si sentiva accaldata. La sabbia le sembrò molto comoda quando ci si stese sopra e si girò su un fianco per proteggersi la faccia dal sole. In pochi minuti si addormentò.
Lilo si svegliò con un dolore che non aveva mai provato.
Si alzò in piedi gridando. Si sentiva divorata dalle fiamme e cercava freneticamente di spegnerle. Ma toccandosi non faceva che peggiorare la situazione.
Niente di quello che aveva provato prima d’allora l’aveva preparata a tanto. Le poche volte che si era fatta male, il dolore era stato facilmente controllabile; le era bastato arrivare a uno dei terminali di pronto soccorso che si trovavano a ogni angolo. Quando vide che il dolore durava da quindici minuti e non dava segni di diminuire, perse la testa e corse alla cieca sulla spiaggia finché non cadde.
Dopo un po’ notò che il dolore continuava a essere forte come prima ma riusciva a sopportarlo. Si alzò a sedere, si asciugò le lacrime e si esaminò. Era rossa come una ciliegia dalle caviglie alle spalle. Aveva ustioni profonde su tutta la schiena.
Non aveva pensato che sulla Terra potesse succedere una cosa del genere. L’atmosfera doveva agire da schermo protettivo contro i raggi ultravioletti, altrimenti non avrebbe potuto esserci vita. Non si era mai trovata a pensare ai possibili effetti dannosi della luce del sole. Le sole volte che aveva avuto a che fare con essa, o era dentro una tuta o dietro lo schermo di plastica di un solarium pubblico.
Capì che c’erano lezioni che era meglio imparare.
Adesso il terreno era meno paludoso. Dopo aver seguito la baia, aveva deciso di spingersi all’interno appena la riva aveva cominciato a curvare verso ovest. Vicino all’acqua non aveva trovato niente di commestibile; sperava di avere maggiore fortuna nell’interno.
Lilo notò che allorché andava verso nord — per quanto riusciva a valutare — procedeva senza molte difficoltà. Quando si dirigeva a est o a ovest, il terreno era segnato da grosse fenditure. Gli alberi e il sottobosco non le permettevano di vedere la zona, cosicché solo salendo su una collina poté guardare in basso e rendersi conto che stava attraversando i resti di una città. Aveva camminato per un’ampia strada. Su entrambi i lati c’erano file regolari di buche, quasi tutte ingombre di rovi e piene d’acqua a metà. Un tempo c’erano state delle case, e ora non restavano che le fondamenta.
La distruzione era stata metodica, ma non assoluta. Rimanevano tracce di artefatti sotterranei, di oggetti in cemento e acciaio mezzo sepolti. Trovò un pezzo di conduttura di rame che sporgeva di due metri dal suolo.
Camminò tutto il giorno, e quando restava solo un’ora di luce solare, arrivò in un punto in cui la baia si restringeva e sembrava piuttosto un fiume. Constatò stupita quanto poco riuscisse a capire della natura del terreno nonostante ci stesse camminando sopra. La zona al di là del fiume assomigliava molto a quella che aveva già visto. In alcuni punti essa distava meno di un chilometro, in altri era più lontana. Non sapeva se la terra più vicina fosse un’isola sul fiume o una punta che si allungava dall’altra parte.
In mezzo all’acqua, davanti a lei, c’erano due isolette, ed era certa che erano artificiali. Guardando più attentamente la collina su cui si trovava, scoprì una costruzione in muratura. Un tempo il fiume era stato attraversato da un ponte sospeso, non c’erano dubbi.
Scese giù dalla collina e ne esplorò i fianchi, cercando l’entrata di un’eventuale stanza nascosta. La notte era vicina e sperava di trovare un qualche riparo. Ma non c’era niente.
Un grosso felino maculato la osservava dai rami di un albero. A parte i gabbiani e i granchi, era la prima forma di vita animale che incontrava. Lilo sapeva qualcosa delle specie animali, ma quella non la riconosceva. Poteva sembrare un giaguaro, o un leone africano, ma di taglia più piccola. Gli voltò la schiena e riprese a camminare.
Qualcosa la fece girare.
Vide il felino con la coda dell’occhio, poi se lo trovò faccia a faccia. Era sceso a terra e correva verso di lei a velocità incredibile. La sua testa diventava sempre più grande nel suo campo visivo. Aprì la bocca e saltò.
Gli eventi si susseguirono troppo in fretta perché Lilo riuscisse a seguirli. Ricordò di aver sentito il rumore di una collisione, e il felino che la urtava, sbattendola a terra, Lilo vide confusamente l’animale che si leccava una zampa posteriore e il sangue che spruzzava da dove gli si era conficcata una lunga asta di legno. Poi il felino si alzò e cominciò a muoversi, e lo stesso fece Lilo. La cosa successiva che ricordò fu di essere salita tre metri su per un albero, con le mani sanguinanti.
In basso c’era un essere umano, in lotta col felino: la belva l’aveva addentato a un braccio, mentre l’uomo la colpiva con una piccola ascia. Vide la bestia cadere al suolo e l’uomo raddrizzarsi. Alzò gli occhi su di lei, poi si guardò l’avambraccio e osservò la bestia: aveva la testa spezzata in due, ancora fremente. Lilo scese lentamente dall’albero.
«Sei solo un ragazzo,» esclamò sorpresa. Lui la guardò di nuovo, nervosamente, senza capire. Lei cominciò a domandarsi se fosse davvero un ragazzo.
Era basso, non arrivava neppure a due metri. Sarebbe potuto stare sotto il braccio teso di Lilo. Aveva i capelli biondi e indossava vestiti succinti e scarpe di pelle. Riesaminò i suoi ricordi di antichi tipi razziali e decise che era scandinavo. Aveva la faccia lunga, e la fronte alta.
«Grazie per quello che hai fatto,» disse Lilo. «Ma non mi capisci, vero?»
Lui alzò gli occhi e sorrise. Gli mancavano tre denti davanti.
«Credo di non aver mai visto nessuno sporco come te,» esclamò Lilo. «Tranne me, forse.» Continuava a parlare in tono amichevole, e in effetti non aveva paura di lui. Poi si chiese se invece non avrebbe dovuto averne e fece un passo indietro. Aveva già commesso due errori, con il sole e con il felino, e non voleva che quello fosse il terzo. Cercò di ricordare qualcosa delle tribù primitive della Vecchia Terra. Le poche cose che le vennero in mente non la incoraggiarono a pensare di fidarsi di lui.
Il giovane disse qualcosa, e le parve di riconoscere alcune parole. Lui annuì e le rivolse un ghigno, fece alcuni gesti incomprensibili e infine indicò il sole.
Parlava un americano corrotto e probabilmente accennava alla notte imminente. Lilo ne era molto contenta. L’americano aveva le stesse radici dell’inglese, o forse era il contrario? Lilo non conosceva bene la storia. Ma sapeva che il suo linguaggio sistematico era un miscuglio di radici inglesi e russe. Pensava che sarebbe riuscita a parlare con lui.
Decise di seguirlo per vedere se avesse cibo e un riparo che fosse disposto a dividere. Quando si voltò e la vide sembrò che approvasse. Lei doveva costringersi a ricordare che poteva essere pericoloso, specialmente se stava tornando a una tribù di individui simili a lui. Restava tuttavia il fatto che lei non aveva la tendenza a sospettare degli stranieri. Il pensiero che lui potesse usarle violenza le era così estraneo che presto lo dimenticò.
La portò in una caverna nascosta. Vi si accedeva per una scala di cemento, celata dietro un cespuglio di arbusti, e dentro era grande e piana. All’inizio pensò che si trattasse di un sottosuolo con ancora il tetto, ma quando lui accese un fuoco, capì cos’era stato quel posto: sulla Luna una stazione di treni locali era ancora grosso modo uguale a quella.
Lilo si domandava cosa dovesse aspettarsi da quell’uomo. Le sue nozioni sulla vita e le abitudini dei barbari erano praticamente nulle. Ricordava, però, alcune storie sul fatto che le donne avevano occupato una posizione sociale del tutto diversa da quella degli uomini, prima che i cambiamenti di sesso ponessero rimedio a tutta la questione. Si chiese se lui avrebbe voluto cop, poi — e fu un trauma — pensò se considerasse un proprio diritto farlo. Sarebbe stato molto sorpreso, si disse.
Ma sembrava un po’ in soggezione nei suoi confronti. Continuava a guardare i peli sulla parte inferiore delle gambe, e quando lei si alzava, restava a bocca aperta davanti alla sua altezza. Dopo poco Lilo scoprì che le ferite gli facevano male. Gli esaminò il braccio che era stato morso. Non protestò, e quando lei gli sorrise in modo incoraggiante, rispose con un sorriso. Non sembrava grave, solo quattro fori profondi e alcuni tagli.
Ancora una volta dovette controllarsi. Sulla Luna una simile ferita non avrebbe avuto nessuna conseguenza, una volta debellato il dolore. Lì ci potevano volere giorni prima che guarisse.
Si chiamava Makel, e cinque giorni dopo era morto.
La ferita non guarì mai. La curava con acqua e diverse foglie e unguenti, ma peggiorava di giorno in giorno. Cominciò a puzzare. Lilo capì di essere stata superficiale e imprecò contro la propria stupidità. Ma i problemi di sterilizzazione le erano sconosciuti come gli istinti predatori del felino che l’aveva quasi uccisa. La Luna era stata, fin dagli inizi, un ambiente privo di batteri. Guanti di gomma, maschere facciali — anche l’acqua bollita che avrebbe potuto usare per medicarlo — erano ignoti nella chirurgia lunare.
Continuò a essere in forze fino all’ultimo, a dispetto dell’infezione che si diffondeva. Andava tutti i giorni a caccia e lei lo accompagnava. Non ci fu il tempo per imparare molto, ma riuscì a capire alcuni metodi di sopravvivenza fondamentali. Imparò a stare sempre in guardia. Quello era un mondo diverso, che l’avrebbe uccisa se lei gliene avesse offerta la possibilità. Apprese quali bacche e quali frutti mangiare e quali radici scavare.
Alla fine fu sopraffatto dalla febbre. Lei gli rimase accanto, asciugandogli il sudore dalla fronte, dandogli un sorso d’acqua quando lo chiedeva. Lo spogliò e lo lavò, e scoprì che la sua prima impressione era stata giusta. Non era un adulto, ma non era neppure un bambino. Avrà avuto quattordici o quindici anni.
Una notte Lilo si accorse che era freddo. Non sapeva da quanto tempo fosse morto. Si posò la sua testa in grembo e si dondolò avanti e indietro, piangendo silenziosamente. Non aveva mai visto un essere umano morire. Continuò a cercare di convincersi che non era stata colpa sua, ma non ci credette mai.