17

Il singolare personaggio chiamato Javelin viveva sulla sua nave, la Cavorite, attualmente ormeggiata nello spazioporto di Plutone — quello vero, non la grande pianura sopra Florida dove atterravano i voli di linea. Era una zona ampia, ma piuttosto affollata, come mostrava il radar del piccolo scooter di Lilo. C’erano almeno mille fabbriche, stazioni energetiche, specchi e fattorie; quasi tutta l’industria pesante e gran parte dell’agricoltura di Plutone. Era contenta che a guidare ci pensasse il computer che controllava il traffico.

Lo scooter attraccò accanto alla camera stagna della Cavorite. Nell’uscire dallo scooter per entrare nell’altra nave, Lilo rimase sorpresa delle sue dimensioni. Le era sembrata strana già mentre vi si avvicinava; era quasi tutta motore e serbatoio, come ogni nave per cercatori, ma anch’essi erano più grandi del normale. Per quanto riguardava la sezione degli alloggi… era possibile che fosse d’ottone?

La sezione degli alloggi era affusolata, senza alcun motivo apparente. Si ergeva come un capezzolo dorato a un’estremità del massiccio cilindro del serbatoio. Non aveva niente dell’aspetto casuale, di elementi messi assieme a casaccio, che Lilo associava alle astronavi da spazio profondo. Sembrava un proiettile tozzo, schiacciato sul davanti e leggermente conico sul dietro. Quattro pinne massicce giravano intorno alla poppa — equidistanti una dall’altra — dove la sezione anteriore era collegata al serbatoio. Sul naso c’era molto vetro, e su un fianco si vedeva una fila di oblò rotondi.

La camera stagna sembrava abbastanza normale, ma Lilo notò i grandi quadranti di ottone con gli aghi che giravano rapidamente. Aprì la porta interna sganciando contemporaneamente il casco.

Si trovò in una piccola stanza, grande circa tre volte la camera stagna. Un’elegante tappezzeria color porpora rivestiva due pareti contrapposte, mentre le altre quattro erano coperte di mogano. Una grossa poltrona di pelle, con accanto un tavolo di ebano intagliato, era fissata su ciascuna parete tappezzata. Sui tavoli, lampade di Tiffany, portacenere di cristallo e un assortimento di riviste.

Lilo ne guardò le date; la più recente aveva duecento anni.

Dalla stanza si poteva uscire solo attraverso la porta della camera stagna. Nella parete di fronte c’era un foto circolare in cui Lilo sarebbe appena riuscita a infilare la testa. Si sedette su una delle poltrone, facendo di quella parete il suo provvisorio «pavimento», e alzò gli occhi sull’altra poltrona del «soffitto». L’effetto non le piaceva.

Non aveva riconosciuto la lastra di vetro quadrata nella parete di fronte alla poltrona; era uno schermo televisivo in bianco e nero. Javelin doveva averlo costruito da sola; Lilo era sicura che non ne esistessero fuori dei musei. Lo schermo si accese e apparve la faccia di una donna in grandezza naturale. Era attraente, anche se più matura di quanto richiedesse la moda. Era raro vedere qualcuno di un’età apparente di più di venticinque anni. Javelin sembrava piuttosto sui trentacinque. L’immagine mostrava solo la testa, e Lilo provò una certa delusione.

«Così vuole noleggiare un’astronave,» disse Javelin. «È una richiesta strana, glielo concedo. Probabilmente sono il solo cercatore a cui potrebbe interessare. Ma in questo momento non mi interessa abbastanza. Comunque ascoltiamo la sua proposta, e sarà bene che sia eccezionale.»

Lilo si era preparata a una discussione lunga e intricata. Quello era stato lo stile dei cercatori che aveva incontrato. Javelin l’aveva presa un po’ di sorpresa.

«Posso fare una domanda? Pensavo che mi volesse qui per vedermi faccia a faccia. Invece sembra che io non possa neppure entrare nella nave.»

«Siamo faccia a faccia,» ribatté Javelin. «Non ho mai installato una videotrasmittente. Doveva venire in questa stanza perché potessi vederla. E adesso, dove vorrebbe andare? E le do un altro suggerimento. Parli chiaro, senza reticenze. Mi dica esattamente cosa vuole.»

«D’accordo. Io… cioè, io, mia moglie e… ricominciamo da capo.» Lilo stava sudando. Aveva la sgradevole sensazione che Javelin la conoscesse, ed era evidente che voleva la verità. Forse Quince l’aveva chiamata e le aveva detto qualcosa.

«Io e altre due persone vogliamo andare alla Linea Calda.»

«In che punto della Linea Calda? Parla della trasmittente su… 70 Ophiucus? Un bel viaggio. Ma immagino che voglia andare nel punto in cui il segnale è più forte.»

«Esatto. Ci può portare là?»

«Certamente. Perché ci volete andare?»

«Questo non posso dirglielo. Mi dispiace, non posso proprio.»

«Non importa. Ha diritto ai suoi piccoli segreti.» Aveva un’aria assorta e Lilo era preoccupata. Sentiva di essere di fronte a una persona astuta, forse anche molto vecchia. Non ne aveva la certezza, ma provava sempre una strana sensazione davanti a qualcuno di più di trecento anni.

«Da dove viene? E come si chiamano gli altri due?»

«Dalla Luna. Vaffa e Cathay. Quanti anni ha?» Non aveva avuto l’intenzione di domandarlo.

«Se non mi dispiace che me lo chieda?» fece un lieve sorriso. «Sono abbastanza vecchia da essere il ramo mancante del suo albero genealogico, Lilo. Sono nata nel 1979, Vecchia Numerazione. Allora mi chiamavo Mary Lisa Bailey. Sono stata la prima donna a mettere piede su Marte, se le interessa. È stata la mia sola comparsa sui libri di storia.»

Lilo non era sicura che le avesse detto la verità. Aveva già incontrato persone che pretendevano di avere un’età strana, e generalmente non le aveva credute. Per quanto ne sapeva, non c’era nessuno che fosse nato sulla Terra e fosse ancora vivo. Dopo tutto l’invasione era avvenuta cinque secoli e mezzo prima, quando la scienza biologica stava muovendo i primi passi. Tuttavia…

«Quindi sarebbe…»

«L’essere umano più vecchio. Non lo dica in giro. L’ultima cosa che desidero è diventare un’altra volta oggetto di interesse. Per inciso, porterò lei e i suoi amici. Quando sarete pronti per partire?»

«Ha… eh, mi lasci pensare. Sta andando un po’ troppo in fretta, per me.» Non credeva che avrebbe mai detto una cosa del genere a un cercatore.

«Non avrete bisogno né di vaccini né di passaporti per dove dobbiamo andare. Potete portare trenta chili di bagaglio ciascuno. Quando potete essere pronti?»

«Va bene domani?»

«Allora partiremo fra ottantamila secondi standard. Preparate le carte d’imbarco. Vi cucinerete e vi accudirete da voi. Dovrò fare alcuni cambiamenti strutturali per permettervi di spostarvi sulla nave. Pareti da abbattere, cose di questo genere. Portate dello champagne, d’accordo?»

Lo schermo si oscurò.


«Non so perché abbia accettato così velocemente,» disse Lilo. «Forse ce lo dirà.» I tre stavano dirigendosi verso la grande massa della Cavorite con uno scooter più grande del precedente, nel quale potevano indossare i caschi. Ognuno di loro aveva una tuta e una valigetta.

Lilo aveva ripetuto per tutto il giorno la sua conversazione con Javelin. Aveva detto a Vaffa che non c’era niente che la preoccupasse, che Javelin era solo un’eccentrica e che probabilmente li trasportava solo per divertimento.

In realtà c’erano diverse cose che la disturbavano, ma erano tutte così vaghe che riusciva appena a definirle. Prima di tutto, perché Javelin aveva acconsentito? Più ci pensava e più si convinceva che il fattore decisivo era stato aver detto che venivano dalla Luna e aver nominato Vaffa. A sentire quei nomi, dietro la faccia impassibile di Javelin era cambiato qualcosa.

Poi gli accenni alla Linea Calda. Perché era stata così precisa sulla destinazione? Doveva essere stato il suo strano senso dell’umorismo a farle suggerire che potessero considerare la possibilità di andare su 70 Ophiucus. La maggiore penetrazione umana nello spazio interstellare non era superiore a mezzo anno luce; 70 Ophiucus era a diciassette. Ma aveva fatto una pausa — non era vero? — prima di citare la stella.

Dalla sua prima visita la stanza d’ingresso era cambiata. La parete antistante la camera stagna era stata abbattuta e le poltrone non erano più fissate al suolo. Adesso la stanza era ingombra di strani mobili antichi, tanto che non capivano come sarebbero riusciti ad arrivare dall’altra parte.

Al di là di quella confusione comparve Javelin. Era la prima volta che la vedevano, anche se c’erano troppe cose in mezzo.

«Salve, laggiù!» gridò, guardandoli attraverso i mobili. «Dovrete aiutarmi a caricare questa roba sullo scooter prima di sistemarvi. Non ce la farei a decollare con tutto questo carico.» Poi, più veloce dell’occhio umano, fu accanto a loro.

«Santa Madre Terra, non lo faccia più!» Vaffa sembrava sinceramente scossa. Anche Lilo era sconcertata. Il modo in cui Javelin si era fatta strada in quel labirinto apparentemente impenetrabile era stato sorprendente, incredibile.

Lilo guardò Javelin e vide un sottile cilindro di due metri, che si ingrossava gradatamente al centro e aveva una mano a ciascuna estremità. Il cilindro era flessibile in quattro punti, che rappresentavano il ginocchio, il fianco, la spalla e il gomito. Dalla «spalla», con un leggero angolo rispetto al resto del cilindro, spuntava la testa, con capelli castani tagliati corti. Indossava un semplice tubo azzurro di tessuto che le lasciava scoperti il braccio e la gamba.

Era Javelin, con il braccio alzato. Quando lo abbassava su un fianco, sembrava un grosso temperino.

Non si era semplicemente liberata del braccio destro e della gamba sinistra. Per gli spaziali era una cosa comune togliersi due arti, di solito le gambe. Javelin aveva raggiunto il culmine estetico della magrezza. La cassa toracica, la spalla destra e il fianco sinistro erano stati sostituiti da strutture plastiche. Si era liberata del rene sinistro, del polmone destro e di gran parte dell’intestino. Si era fatta ricostruire il gomito e il ginocchio con giunture a cuscinetto.

Era sinuosa come un serpente. Ciò che restava di lei poteva passare attraverso un foro di venti centimetri di diametro.

«Fare cosa?» chiese innocentemente Javelin.

«…quello. Quello che ha fatto. Non mi piacciono le persone che mi vengono vicino così velocemente.»

«Lo terrò presente. Adesso volete darmi una mano?»

Trasportarono i mobili sullo scooter. Avrebbero potuto essere più rapidi, ma erano tutti e tre affascinati dai movimenti di Javelin. Con una mano afferrava una maniglia accanto alla camera stagna, si allungava con la gamba e prendeva un mobile che tirava, piegandosi come un’anguilla, per farlo passare dal portello.

«Da questa parte,» disse quando ebbero finito. La seguirono al di là della porta, muovendosi tutti goffamente in assenza di gravità. C’era un lungo corridoio, con due pareti rivestite di tappeti e due di pannelli di quercia; questi ultimi erano adorni di ringhiere d’ottone.

«Qui c’è l’equipaggiamento vitale,» spiegò, indicando le pareti. «Le cabine sono davanti.» Vi si avviò, tirandosi con le mani (il che, nel suo caso, significava afferrare la ringhiera e compiere un arco con il corpo finché la mano che aveva in fondo alla caviglia non faceva presa). Dopo tre di quei movimenti era già al centro del corridoio, a gamba in avanti, e girava verso di loro con un ampio sorriso. Arrivò in fondo, acquistò movimento con la gamba e scomparve dietro l’angolo.

«Che altro inventerà la scienza?» esclamò Cathay.

«Non la disprezzare,» disse Lilo. «Sembra che funzioni piuttosto bene. Mi fa quasi sentire… superata.»

«Sì. Ma la vorrei vedere in un campo gravitazionale.»

«Immagino che non scenda mai. Mai.»

Javelin li aspettava davanti alla prima di due camere stagne. Li fece passare, illustrando le procedure per conservare l’aria della nave. Si aspettava che la seguissero senza fare sciocchezze. Quindi arrivarono alle cabine.

«Mi scuso per le dimensioni,» disse Javelin, aprendo le porte di due piccole stanze. «Questa non è la Queen Mary. Ho dovuto persino spostare la mia collezione di francobolli. Due di voi dovranno stare insieme, a meno che uno non preferisca il divano del solarium. Avanti, lasciate qui i bagagli e seguitemi.»

Lilo era attonita. Non sapeva fino a che punto Javelin stesse fingendo, se davvero le dispiacesse che ci fossero solo due «stanze per gli ospiti». Le cabine erano piccole, ma lussuosamente ammobiliate, rivestite e fornite di tappeti, come tutto il resto che aveva visto. Oltrepassarono altre due porte, quella di un’officina e quella di un laboratorio medico. Lilo riuscì a lanciarvi solo un’occhiata.

Il solarium occupava la maggior parte della zona abitata. Javelin li fece entrare e continuò ad andare avanti.

«Torno subito,» disse. «Accomodatevi. I bulbi di caffè sono lì, le bevande nelle bottiglie contro quella parete.» Sfrecciò attraverso un piccolo foro nella parte anteriore della stanza.

«È un posto folle,» esclamò Cathay. «Assolutamente folle.»

Lilo fu d’accordo con lui. Era stata in navi di tutti i tipi, ma non aveva mai visto niente di simile alla Cavorite.

«Che stile sarebbe?» chiese. «Primo Vittoriano? Tardo Capitano Nemo?» Ma Cathay non sapeva cosa rispondere, e Javelin se n’era andata.

Il solarium era grosso modo lungo dieci metri e largo quattro. A differenza del resto della nave, aveva un pavimento ben definito, una cosa senza senso secondo Lilo. Era molto più economico agire in caduta libera. Non solo, ma il pavimento era parallelo all’asse di spinta. Con il motore in funzione la stanza sarebbe stata su un fianco. Il basso non sarebbe mai stato in direzione del pavimento. Fu Vaffa a notarlo.

«Be’, a pensarci, nei suoi viaggi il motore è in funzione solo per pochissimo tempo…» Ma continuava a non avere sonso.

Il soffitto era ricurvo e seguiva la forma cilindrica dello scafo. Dodici grandi pannelli di vetro, sei per lato della stanza, si curvavano in alto per incontrarsi con un’elaborata trave di legno che percorreva la stanza nel senso della lunghezza. Era chiaro perché la chiamava solarium.

La stanza era adorna di piante, rampicanti e fiori. C’era un organo a canne con due tastiere su un lato e un acquario toroidale che girava lentamente sull’altro; piccoli pesci angelo boccheggiarono a Lilo quando avvicinò la faccia al loro mondo ruotante. Nel mezzo c’erano poltrone e divani rivestiti di velluto lussuoso, legni intagliati e molte decorazioni di ottone. Lilo si sentì oppressa dai particolari; tutto era infestato da curve.

Lilo infilò la testa nel foro attraverso il quale era scomparsa Javelin ed ebbe una sorpresa. Quella stanza era il centro di controllo della nave. Anch’essa era molto diversa dal solito, con gli strumenti di ottone, la mancanza di quadranti digitali e molti congegni che sembravano controlli manuali. Accanto allo stretto sedile di pilotaggio c’era una lunga leva sovrastata da un pomo di cristallo sul quale spiccavano le scritte STOP e VIA. Ma la vera sorpresa consisteva nel fatto che la stanza era vuota. Poiché al di là del muso della nave non c’era che lo spazio, a Lilo il fatto parve strano.

Si tirò indietro in tempo per vedere Javelin che entrava nel solarium dal corridoio di poppa. Dunque aveva le sue tecniche per spostarsi da una parte all’altra.

«È una nave sorprendente,» le disse Cathay.

«Crede? Grazie. A me piace. È logico, sono quasi trecento anni che ci abito. Il disegno — dell’esterno, voglio dire — l’ho ripreso dalla copertina di una vecchia rivista. Pre-Invasione. In realtà addirittura pre-spaziale.»

«È assurdo,» disse Vaffa, in tono deciso.

«Io penso di no. È chiaro che l’artista autore del disegno non sapeva niente di astronavi. Lui cercava di vendere riviste, così lo fece sexy anziché razionale. Mi è piaciuto.»

«Ma l’eccesso di peso…» obiettò Lilo, perplessa. «La forma non si adatta alla funzione. Non si perde in efficienza?»

«È curioso che dica questo. È in gran parte vero, ma non ha nessun senso poetico? È dal tempo della prima colonia lunare che combatto contro gli ingegneri. Siamo diventati una razza di ingegneri. Ciò che sembra non riusciamo a capire è che dopo il tempo delle ferrovie, viene quello delle belle ferrovie. Il livello artistico è progredito abbastanza, possiamo permetterci di perdere qualcosa in efficienza. Ma le navi per lo spazio profondo continuano ad assomigliare a un attaccapanni che fotte un albero di Natale.»

«Come?»

«Che cop. Scusate, era un termine arcaico. Anzi, tutti i concetti di questa metafora sono arcaici. Ma la Cavorite è meno inefficiente di quanto pensiate. Una volta presa la decisione stravagante — andare in giro nello spazio da sola, con una nave cinque volte più grande di quanto avrei avuto bisogno per lo stretto necessario — tutto il resto è venuto praticamente gratis. Un po’ di metallo leggero per il falso rivestimento esterno. Mobili che sembrano massicci ma in realtà non lo sono; il legno è un’impiallacciatura sottile sopra una normale struttura di schiuma. L’organo si richiude e diventa l’entrata e la biblioteca del computer, che non si vede. L’acquario fa parte del sistema di riciclaggio, e se i pesci stanno bene, sto bene anch’io. Vedrete, funziona.»

Lilo continuava a essere perplessa. Ma Quince aveva parlato di lei con rispetto. Era considerata il miglior cercatore di tutti i tempi.

«Se siete pronti per partire, dovrei iniziare il conto alla rovescia. Devo ancora sbrigare alcune cose. Ho perquisito i vostri bagagli e ho esaminato le radiografie che vi ho fatto mentre…»

«Cosa ha fatto?» Era Vaffa. La faccia le stava rapidamente avvampando.

Javelin la guardò dall’alto in basso. «Sì, la sua reazione non mi sorprende,» disse seccamente. «Fra le sue cose c’erano cristalli e svariati altri elementi. Sarebbe bastato un po’ di sputo e di gomma da masticare per costruire un paio di pistole laser. Li ho buttati via, nell’interesse di un viaggio sicuro e calmo.»

Vaffa aveva piantato i piedi contro la paratia di poppa. Si lanciò attraverso la stanza, contro Javelin. Aveva le braccia tese e la bocca aperta in un ringhio. Lilo non voleva guardare. Javelin era così esile, così fragile. Vaffa cominciò a fare una curva in aria, voltandosi per colpire Javelin.

Finì quasi prima di cominciare. Javelin si girò, piegandosi con un angolo impossibile e piantando una mano sul pavimento. Fece forza e, mentre Vaffa le passò accanto, si voltò e la colpì di taglio al collo. Vaffa andò a sbattere malamente contro le canne sopra l’organo, e rimase sospesa in aria.

Javelin le rivolse un’altra occhiata, poi spostò l’attenzione su Lilo.

«Devo conoscere la natura del meccanismo che ha dentro l’addome,» disse. «E anche che cos’ha attaccato sulla sinistra dell’osso pelvico.»

«Non lo so,» rispose Lilo. «Però sospettavo che dentro potesse avere qualcosa.»

Javelin annuì. «Dunque, è così, eh? D’accordo. Uno sembra un semplice meccanismo di rilevamento. Pensavo che l’altro fosse una bomba, ma ho deciso che non lo è. Probabilmente è una capsula di narcotico. Andrebbe d’accordo con il rilevatore, no?»

«Immagino di sì.» Lilo aveva la faccia in fiamme.

«Bene.» Sembrava che anche Javelin volesse abbandonare l’argomento. «Se vuole rimuoverli usi pure la sala operatoria. Posso gettarli fuori, oppure può decidere di farci qualcos’altro.» Spostò lentamente gli occhi su Vaffa, ancora sospesa a mezz’aria, poi rivolse un sorriso a Lilo.

«Accensione fra seicento secondi. È meglio che andiate nelle vostre cabine.»

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