Lilo-Diana continuò a stringere l’arpione mentre l’animale si dirigeva verso le profondità dell’oceano. Arrivò al fondo e continuò a nuotargli con forza parallelamente.
L’adrenalina cominciò lentamente a svanire e a Lilo rimase l’amaro sapore della sconfitta. Non aveva ucciso la bestia, e forse non sarebbe riuscita a farlo. Non era nemmeno sicura di averle fatto male.
Alla fine mollò la presa e la balena scomparve nell’acqua blu. Lilo rimase sospesa a mezz’acqua, senza affondare e senza risalire.
E adesso cosa doveva fare? Si toccò la valvola sul petto. Poteva disattivare la tuta e affogare rapidamente. Oppure risalire in superficie e dirigersi verso riva. Probabilmente ce l’avrebbe fatta, grazie all’aria della tuta, ma lo voleva davvero?
C’era qualcosa sopra di lei.
Senza sapere perché, si spostò verso l’alto per andargli incontro.
La forma diventava via via sèmpre più grande — (sotto di me adesso, e continua a scendere) — e le sbatté in faccia. Giallo? No, molti colori — (un giallo più profondo delle nuvole in tumulto che mi si accavallano intorno, un’altra delle cose simili a quella dentro cui ero caduta tanti anni prima) — tutti i colori e tutte le forme, contenuti in una forma sola.
Si sentì il cuore in gola. Stava cadendo.
Non so per quanto tempo caddi, ma forse la domanda non ha senso. Cadevo attraverso lo spazio e il tempo, e attraverso la mia vita.
Non fu più possibile sapere chi o dove fossi. Ogni secondo della mia vita esisteva contemporaneamente. Stavo in piedi su una pianura rocciosa sotto una luce violenta, e sapevo che ero sul mondo che un tempo veniva chiamato Poseidone e che ora era a due anni luce dal sole;
piangendo disperatamente, con un sentimento così intenso che non ne avrei mai provato un altro uguale in vita mia, con in grembo la testa di un uomo morto;
cadendo attraverso l’atmosfera gioviana;
davanti a un uomo chiamato Vaffa, mentre osservavo la sua arma alzarsi al rallentatore e udivo un’esplosione;
tenendo un coltello in mano e pensavo al suicidio;
guardando un pesce in una vasca circolare ruotante;
correndo fra gli alberi sotto un cocente sole azzurro e ridevo;
parlando con un uomo chiamato Quince nel bagno pubblico di Plutone;
seduta in una sala riunioni al centro di una ruota di settanta chilometri di diametro e guardavo un film;
sentendo un pene eretto penetrarmi nel corpo mentre le luci lampeggiavano sulle pareti della mia stanza;
davanti a Vaffa, mentre la sua pistola si alzava per uccidermi;
venendo in vita in una vasca di fluido giallo;
tenendo per mano mia madre, a cinque anni, mentre seguivamo il trasportatore che trasferiva le nostre cose in una nuova casa;
seduta nel riflesso verde del terminale del mio computer e studiavo un’interessante interpretazione dei dati della Linea Calda;
attraccando con una grossa nave colonizzatrice che orbitava intorno a 82 Eridani. Il Pianeta era abitato e dovevamo rimetterci in viaggio;
guardando un corso d’acqua in America, mentre la schiuma bianca mi turbinava intorno alle ginocchia;
dando alla luce la mia seconda figlia, Alicia, mentre andavo verso il centro;
tenendo Alicia per mano, mentre dava alla luce mio nipote;
davanti a Vaffa;
morendo. Morendo di nuovo. E di nuovo ancora.
Ne uscii impotente. Tutti gli attimi erano stati adesso. Erano scomparsi tutti, lasciandomi immagini confuse e quasi nessun ricordo. Ciò che ricordavo era tanto nel mio futuro quanto nel mio passato.
Tornò, quella vorticosa sensazione di abitare il presente, il passato e il futuro tutti contemporaneamente. Ne uscii di nuovo, e questa volta rimbalzai lungo le quattro dimensioni di quel lungo verme rosa con un milione di gambe che rappresentava la mia vita, dalla nascita alle mie molte morti. Ero una sola entità, un solo punto di vista, un solo presente. Percorsi tutta la mia esistenza, all’indietro e in avanti, nel futuro e nel passato.
Caddi di nuovo, disorientata, confusa. Mi era stato mostrato qualcosa che la mia mente non poteva comprendere e sentivo già svanire i ricordi. Esistevo in troppi modi nello stesso tempo per riuscire a capire. Gli occhi non mi funzionavano o mi mostravano immagini che il mio cervello non riusciva ad assimilare.
Non so quanto restai nel luogo calmo e nero in cui ero entrata. Non c’era tempo, ma tutte le mie sorelle erano insieme a me. Cominciammo a vedere, un po’. Qualcosa nuotò verso la mia coscienza distaccata, una cosa strana che percepivo senza effettivamente vederla. Per sorprendente che fosse, mi era quasi più familiare di tutto il resto che mi circondava. All’improvviso seppi che era una cosa preziosa. Qualcosa che dovevo avere. (C’era qualcuno che mi diceva che dovevo averla?) Apparteneva a loro, agli Invasori, e dovevo possederla io.
Allungai la mano…
Ricordò Cathay chinato su di lei, che le scuoteva le spalle. La testa oscillava avanti e indietro, abbandonata. Mise a fuoco gli occhi.
«Stai bene… Cosa è successo?»
«Ti hanno fatto qualcosa?» Era la voce di Vaffa, e Lilo sorrise vedendo sulla sua faccia una preoccupazione sincera. Vaffa, Vaffa, c’è ancora speranza per te!
«Chi è quella?»
«Sono io.» Lilo si sedette. Era stata Javelin a farle la domanda, e Lilo sapeva di cosa parlava. Aveva visto quel momento nel caleidoscopio che l’aveva sopraffatta mentre la sirena dei Mercanti ululava. Guardò il nuovo occupante della stanza — una donna alta e abbronzata, tutta bagnata — e si fecero un cenno di saluto. Fra loro non c’era bisogno di parole. Erano già state lì tutte e due.
Lei aveva qualcosa in mano, un cubo argenteo di cinque centimetri di spigolo.
«Chi sei?» chiese Vaffa.
La donna la guardò incuriosita.
«Puoi chiamarmi Diana, per evitare confusione. Mi chiamavano tutti così.»
Quella parola fece sgorgare una cascata di ricordi nella mente di Lilo. Cercò di trattenerli, ma stavano già svanendo come un sogno. Un lungo viaggio, un viaggio fantastico, dieci anni… ostacoli da superare. Alberi alti, grandiosi, che arrivavano al soffitto… no, questo apparteneva alla sua linea vitale. Si sforzò ancora di ricordare. C’era un’altra Lilo, sul satellite in fuga. Era stata costretta ad andare avanti nel tempo, verso la propria morte, tre morti, e indietro, verso molte altre… non era così? Non ne era più sicura. Ma c’era qualcosa che guidava i suoi passi, la conoscenza di cosa sarebbe successo, di cosa era successo.
«Andiamocene di qui,» disse Lilo.
«Cosa?» Javelin si oppose. «C’è un sacco di cose che voglio…»
«No. Non serve a niente. Solo una domanda,» ribatté Lilo, guardando William. «Cos’è quella cosa che ho… che ha in mano?»
William sembrava triste.
«Quella,» disse, «è una singolarità. Le cose vanno più in fretta di quanto ci aspettavamo.»
«E cos’è una singolarità?»
William alzò le spalle. «Vorrei tanto che lo sapessimo. Se lo sapessimo saremmo come gli Invasori. La chiamiamo così perché viola le leggi fondamentali dell’universo. Crediamo che non possa esistere nel nostro universo, almeno non di norma. Tutto quello che si vede è un campo nullo che la ricopre. Non vedrete mai altro.»
«E cosa fa?» Lilo era confusa. Aveva già saputo le risposte alle domande che stava ponendo.
«Sembra che elimini la forza d’inerzia di un corpo. Non mi domandi come. Sono milioni d’anni che le studiamo e non sappiamo come funzionano. Pensiamo che possa trasformare l’inerzia in qualche altra caratteristica della materia e immagazzinarla in un ipotetico iperspazio, o in una quinta dimensione.»
«In pratica sarebbe un propulsore spaziale,» osservò Javelin.
«La base per un propulsore spaziale. Quando imparerete a usarlo, il che avverrà molto presto, riuscirete a raggiungere rapidamente velocità elevate, e con pochissimo carburante. Le stelle saranno alla vostra portata.»
«L’ho rubato,» disse Diana, orgogliosamente.
«Hmmm?» William la guardò. Sembrava distratta. «Davvero? L’ha rubato, dice? Meraviglioso. Sembra che sia riuscita a farla agli Invasori, così.»
Diana si mostrò per un attimo fiera, poi sembrò perplessa. Lilo era triste per lei. Aveva già un’idea di ciò che era in realtà successo.
«Non l’ho rubato, vero?» chiese Diana.
«No. Fa parte dello schema che culminerà con lo sterminio di quanto resta della vostra specie nel sistema solare, tranne quelli che sono sul pianeta natale. La singolarità si riprodurrà. Potrebbe anche essere una creatura vivente. Ce ne serviremo, come tutti gli altri.»
«Ma perché ce l’hanno data?»
«Non conosco le loro intenzioni. Ma pare che non vogliano uccidere specie intere. Sulla Terra non uccisero nessuno, ricordate. Non direttamente. Né diedero la caccia ai sopravvissuti sulla Luna. Vi hanno lasciato vivere finché non avete cominciato a dargli noia. Adesso vi offrono un’altra possibilità di diffondervi fra le stelle; non credo che gli interessi che la sfruttiate, ma la possibilità ve la offrono.
«Quindi si preoccupano per gli esseri umani…»
William aggrottò le sopracciglia. «Chi lo sa di cosa si preoccupano? Non sembrarono particolarmente toccati dalle difficoltà incontrate dalla mia razza. Quella singolarità può sembrare miracolosa a voi e a me. Per loro è probabilmente sullo stesso piano tecnologico di una pietra levigata.
Cathay continuava a spostare lo sguardo da una Lilo all’altra.
«Mi vuol dire qualcuno che diavolo sta succedendo?» esclamò. «Chi è lei? E da dove viene?»
«Non mi riconosci?» domandò Diana. «Sono cambiata fino a questo punto? L’ultima volta che mi hai visto stavo cadendo su Giove.»
«Ma dove sei stata… voglio dire, come hai…»
«È stata restituita dagli Invasori,» spiegò William. «Hanno semplicemente ripercorso la sua linea vitale. In base alle nostre indicazioni preliminari, è andata diverse migliaia di anni nel futuro, ha passato dieci anni sulla Terra ed è stata riportata qui. Per loro è stato facile come sarebbe per voi unire due punti con una linea.»
Lilo cominciava a essere impaziente.
«Possiamo andare, adesso? Sulla nave potrò rispondere a tutte le vostre domande.»
«Sì, sì,» disse William. «Se volete andarvene, andate pure. Dovremo modificare i nostri piani, naturalmente. Ci aspettavamo una cosa del genere, sì, ma non così presto. E non nel giardino di casa nostra. È molto irritante. Pensate a quello che vi abbiamo detto. Vale sempre, ma non avete più il tempo che credevamo…»
«Non siamo nemmeno riusciti a vedere l’interno del loro grande cerchio,» brontolò Cathay. «Abbiamo visto solo una costruzione artificiale.»
«Uno scenario,» suggerì Vaffa.
«In ogni caso qualcosa che hanno costruito per farci sentire a nostro agio.»
Javelin era davanti alla cupola di vetro della Cavorite e guardava la ruota. «Non volevano che vedessimo l’interno, credo.»
Vaffa alzò lo sguardo. Stava rimuginando da quando erano tornati sulla nave, più di un’ora prima. Aveva ascoltato in silenzio Diana che narrava la sua storia, Lilo che faceva del suo meglio per raccontar loro le cose che aveva appreso, e in che modo. A metà storia, Lilo si rese conto che non riusciva a farsi capire. Javelin e Cathay sembravano decisamente scettici, anche se era chiaro che nessuno dei due era in grado di fornire una spiegazione migliore dell’accaduto. Javelin aveva avanzato la teoria — il più diplomaticamente possibile — che Diana fosse un impostore, qualcuno costruito dai Mercanti per ragioni note solo a loro.
Lilo e Diana non avevano neppure cercato di confutare l’accusa, e dopo poco essa era morta di morte naturale. Nessuno riusciva a immaginare un motivo per cui i Mercanti volessero infiltrarsi fra gli esseri umani in modo così evidente. La domanda che continuava a tormentarli era: perché i Mercanti avevano sentito la necessità di richiedere la cultura umana? non erano abbastanza forti da prendersela?
Venne raggiunta la decisione provvisoria di aspettare e vedere. Non sapevano niente del procedimento di cui i Mercanti intendevano servirsi per impadronirsi della cultura umana. Non sapevano quasi niente delle loro capacità.
«Cosa facciamo, allora?» domandò Vaffa. «Lo ammetto. Non sono mai stata così confusa.»
«Che vuoi dire?» chiese Javelin. «A proposito di che cosa?»
«A proposito di… tutto! Di tutto quello che ci hanno detto. Voi ci credete?»
Javelin osservò incerta Lilo e Diana, sinceramente perplessa. «Cos’è che la turba tanto? Capite di cosa stia parlando?»
«Ah… probabilmente è preoccupata per… lo sai, i guai che succederanno.»
«Guai?» gridò Vaffa. La sua voce era diventata pericolosamente acuta. «Guai? Chiamate la fine degli Otto Mondi ’guai’? È questo che succederà, vero? Ho capito bene?»
«Sì,» rispose Lilo. «È quello che hanno detto.»
«Bene…» si irrigidì per un attimo, a bocca aperta, con le mani alzate come se cercasse disperatamente di afferrare qualcosa, prima di sbattersele sulle ginocchia. «Sono la sola alla quale la cosa interessi?» Scrutò tutti i componenti del gruppo e alla fine si fermò su Javelin.
«Perché te la prendi con me?» disse Javelin, leggermente a disagio. «Certo, non mi piace l’idea che muoia tanta gente. Ma avranno la possibilità di andarsene, i Mercanti hanno detto anche questo. Basta che accettino la loro proposta. Quanto agli Otto Mondi…» Scorreggiò. «Perché dovrebbe importarmi? Non sono una cittadina.»
Vaffa guardò Cathay. Lui alzò le spalle. «Fare qualcosa, hai detto, vero? Senti, andrò a casa e pulirò la mia spada. Così saremo tu e io — posso contare su di te, no? — schiena contro schiena, spalla a spalla di fronte agli Invasori.»
«Oh, stai zitto,» disse Vaffa. Guardò Lilo e lo stesso fecero tutti gli altri.
«Succederà,» disse Lilo con calma, e Diana annuì. «Mi dispiace ammetterlo, ma non è che mi importi molto. Il governo non mi piace più di quanto piaccia a Javelin o a Cathay. O a te, Vaffa. Stai cercando di abbatterlo e di riportare il Capo al potere. Ma non importa. Succederà, questa è una cosa di cui sono certa. Immagino che voi non ci crediate, ma abbiamo veramente visto nel futuro, almeno fin dove arrivano le nostre vite. Molte persone moriranno. Gli Invasori stermineranno chiunque rimanga nel sistema solare.»
«E questo non ti interessa?» chiese Vaffa.
«Io…» Anche Lilo era turbata. Ma la risposta fu chiara. «No, è come… come se fosse già successo. L’ho già visto. Possiamo tornare indietro e aggiungere la nostra storia a quella che i Mercanti stanno trasmettendo, fare del nostro meglio per convincere la gente ad andarsene. Ma molti non lo faranno. E questo è il massimo che possiamo fare. È inevitabile.»
Ma Vaffa non poteva accettarlo. Lilo la guardò, chiuse gli occhi e cercò di ricordarla. Stava per cambiare, ne era certa. Vaffa era sul punto di trascendere i propri limiti. Era forse la figlia di Tweed? A Lilo sembrava di ricordare che alla fine Vaffa le avrebbe detto così. Ma non era più sicura su molte cose che riguardavano il futuro. C’erano pezzi e frammenti che di solito non combaciavano. Sapeva che Vaffa si stava chiedendo se avesse curato gli interessi del Capo nel modo migliore. Ma contemporaneamente un dubbio si stava insinuando nella sua mente. La storia di Diana aveva fatto più impressione a Vaffa che a chiunque altro. Era la prima volta che considerava gli Invasori come reali, non come nemici di cartapesta.
Ma per il momento era sempre fedele al Capo. Non era il caso di dirle che era stata costretta ad abbandonare la Luna come risultato diretto delle azioni di un’altra Lilo e di un altro Cathay.
La conversazione proseguì, ma Lilo la ignorò. Stava osservando l’altra se stessa, il suo clone, e il clone stava osservando lei.
«Ricordo Makel,» mormorò Lilo.
«E io ricordo Javelin quando era una persona molto più sottile.» Diana sorrise e Lilo le rispose con un sorriso. «Ricordo anche l’impatto della Vendetta e di essere stata uccisa da Vaffa.»
«Vieni nella mia stanza,» disse Lilo.
Si sistemarono sulle poltroncine, una di fronte all’altra, e non dissero niente per molto tempo. Le voci che giungevano dal solarium erano come il ronzio di una mosca. Stavano discutendo degli eventi delle ultime ore, mentre Lilo se ne sentiva molto al di sopra. Conservava ancora alcune parti della propria esperienza trascendentale, dello sguardo che aveva dato alle cose, a come erano andate, a come sarebbero state sempre. Sapeva di avere una lunga vita davanti a sé, ma i particolari erano confusi e stavano svanendo.
«Se ne va, vero?» chiese Diana.
«Sì. Ricordo solo gli eventi principali del tuo passato, e l’altra… diventa complicato, no? Parlarne, voglio dire.»
Diana sorrise.
«Non ricordo molto del futuro,» disse.
«Ho solo l’impressione che vada avanti per un bel po’. Per ciascuna di noi.»
«Sì.»
Tacquero di nuovo. Lilo aveva la sensazione che non fosse stato detto qualcosa, ma sapeva che lo sarebbe stato. Osservò il cubo argenteo che Diana teneva in mano. Un oggetto comune.
Diana lo guardò come se avesse dimenticato di averlo in mano. Lo lanciò a Lilo.
L’oggetto percorse un metro, rallentò e si fermò a metà strada fra loro due. Lilo non riusciva a pensare a nessuna forza che avesse potuto rallentarlo; in assenza di peso avrebbe dovuto spostarsi in linea retta finché non avesse incontrato un ostacolo. Eppure era lì che galleggiava.
Allungò una mano e lo prese. Le oppose una leggera resistenza. Sembrava che preferisse rimanere immobile, anche se con non molta tenacia.
«Come funziona, mi domando?» chiese Lilo.
«Pensi che dovremmo aprirlo?»
Lilo lo stava tenendo vicino alla faccia e lo esaminava attentamente. Le era parso che ci fosse una lieve scoloritura su uno spigolo e lo stava toccando con l’unghia del pollice. «Io no, voglio solo…»
Si spiegò.
Non fu una cosa semplice. Non era solo questione di facce che si separavano o che si aprivano. Erano cubi più grandi che si sviluppavano da cubi più piccoli finché lei non ebbe quello che le sembrava una malferma pila di otto pezzi (e che però si rivelò un solo ipercubo). Lilo tirò indietro le mani spaventata e la cosa galleggiò.
«Uh… e adesso che faccio?»
Diana girò intorno all’oggetto, piegando il collo per vederlo meglio senza toccarlo.
«Pensi che si riesca a farlo ridiventare com’era prima?»
Lilo allungò un braccio. Era chiaro che la figura era instabile. La singolarità si mosse di nuovo non appena lei la toccò; diventò nuovamente un semplice cubo, ma con spigoli di dieci centimetri. Adesso aveva un volume otto volte più grande di prima.
«Mi è sembrato di aver quasi visto cosa è successo,» disse Diana. Prese il cubo, ma prima che riuscisse a fargli qualcosa esso aveva cominciato di nuovo a svolgersi. Questa volta verso l’interno. Alla fine rimasero due cubi di cinque centimetri di spigolo.
«Forse è meglio se lasciamo che se ne occupino i matematici,» disse Diana, e li appoggiò con cura sulla cuccetta che aveva accanto.
«Se imparassimo a usarlo, Javelin potrebbe risparmiare un sacco di carburante nel viaggio di ritorno.»
«Penso che prima sia meglio chiederlo a lei.»
Diana guardò Lilo, quindi spostò lo sguardo da un’altra parte. Ma i suoi occhi vennero nuovamente attratti verso di lei.
«Io… i particolari si stanno facendo confusi. Su quello che ci succederà, voglio dire.»
«Sì?»
«Ma ho… ecco, hai anche tu la mia sensazione? Tu e io siamo state… insieme a lungo. Ricordo… sembrava che tu partecipassi a quasi tutto ciò che farò d’ora in poi.»
«Sì.» Lilo si rilassò. Non avrebbe potuto sbagliarsi, ma era piacevole che Diana ricordasse la stessa cosa. Ormai le restava poco del futuro: immagini di un sogno che svanivano subito appena le esaminava, impressioni piuttosto che ricordi. Quello che aveva ancora era vivido e reale, ma era come un breve spezzone di film o una tessera fuori posto di un puzzle.
Vedeva un bosco sotto un sole azzurro. Era a non meno di cento anni nel futuro, ma Diana era con lei.
«Mi chiedo di che sole si tratti,» disse Diana, e risero tutt’e due. «Sarà divertente scoprirlo.»