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Ja, ja — disse il capitano Nils Hansen al telefono. — Jeg skal nok tale med hende. Tak for det. — Sedette, tamburellando con le dita sull’apparecchio mentre aspettava. L’uomo che si era presentato semplicemente come Skou, se ne stava in piedi, guardando fuori dalla finestra la luce grigia del freddo pomeriggio invernale. Si udì il rombo lontano dei motori, mentre uno dei grossi aerei rullava sulla pista.

— Salve, Martha — continuò Nils, in inglese. — Come va? Bene. No, sono a Kastrup, dove sono atterrato poco fa. Un bel vento di coda proveniente da Atene ci ha fatto arrivare presto. Il guaio è che devo ripartire subito… — Annuì e prese un’aria decisamente infelice.

— Senti, cara, tu hai perfettamente ragione, e io la penso come te, ma non possiamo farci assolutamente niente. Le autorità hanno deciso così. Ora non posso pilotare perché ho volato già troppe ore, ma mi ci portano in aereo. Uno dei piloti, uno svedese, è a letto con l’appendicite, a Calcutta. Devo partire col prossimo volo, me l’hanno riservato propria ora. Dormirò e passerò un’altra notte a Oberoi Grand, così sarò pronto per domani. Bene… Meno di quarantotto ore, direi. Mi spiace quanto te, di non poter venire al pranzo! Di’ agli Overgaards che sto piangendo a calde lacrime al pensiero di perdere le loro ghiottonerie… Invece dell’ottima selvaggina scandinava dovrò mangiarmi quell’orribile curry che corrode l’intestino… E starò male per una settimana. Naturalmente, skat, sentirò la tua mancanza. Mi farò pagare un premio e ti comprerò qualcosa di carino. Sì… okay… ciao.

Nils riappese e guardò con evidente disgusto la schiena di Skou.

— Non mi va di mentire a mia moglie — disse.

— Davvero spiacente, capitano, ma non si poteva evitare. Questione di sicurezza, sapete. Premunitevi oggi, e il domani si guarderà da sé. — Lanciò un’occhiata al suo orologio. — L’aereo per Calcutta sta per partire e voi dovete essere a bordo. Avete una prenotazione in un albergo di quella città, ma non potrete ricevere telefonate. Tutto predisposto fino nei minimi particolari. È uno stratagemma necessario, ma innocuo.

— Perché necessario? Voi spuntate dal nulla, mi portate in questo ufficio, mi mostrate delle lettere firmate da personaggi importanti che mi chiedono di collaborare, tra cui quella del comandante delle Forze Aeree di Riserva, mi strappate la promessa di aiutarvi, mi convincete a mentire a mia moglie… ma in realtà non mi dite niente! Che diavolo sta succedendo?

Skou si guardò intorno nella stanza, come se fosse tappezzata di innumerevoli apparecchi spia, e si limitò a portarsi un dito alle labbra.

— Se potessi, ve lo direi. Non posso. Ma tra poco saprete tutto. Adesso… possiamo partire? Vi porterò la borsa.

Nils l’afferrò prima che l’altro potesse impadronirsene e si alzò, calcandosi in testa il berretto dell’uniforme. Era alto uno e novantadue, senza scarpe: ora, in completa uniforme, con tanto di berretto e impermeabile, diventava talmente voluminoso da riempire quasi completamente il piccolo locale. Skou aprì la porta, e Nils lo seguì. Uscirono dalla porta posteriore dell’edificio, dove li aspettava un tassì. Il motore della Mercedes era già acceso e, non appena furono saliti, l’autista abbassò la bandierina e partì senza che nessuno gli desse istruzioni. Non appena fuori dall’aeroporto, voltarono a destra allontanandosi da Kastrup.

— Interessante — disse Nils, guardando fuori dal finestrino. Non era più arrabbiato, ora: non riusciva mai a restare irritato per molto tempo. — Invece di dirigerci verso Copenaghen e la sua vita brillante, puntiamo a sud su quella isoletta coltivata a patate. Che cosa possiamo trovare di interessante, in questa direzione?

Skou si protese verso il sedile anteriore, allungò un braccio e lo ritirò stringendo in mano un soprabito pesante e un berretto scuro. — Volete essere tanto gentile da levarvi il cappotto e il berretto dell’uniforme e da indossare questi? Sono certo che i pantaloni non verranno identificati come appartenenti a un pilota della SAS.

— Cappa e spada, perbacco! — disse Nils, sfilandosi a fatica il cappotto nello spazio ristretto del sedile posteriore. — Suppongo che questo tassista dall’aria tanto onesta sia al corrente di tutto, eh?

— Certo.

Dal sedile anteriore spuntò allora una valigetta dove entravano giusti giusti i capi appena tolti. Nils sollevò il bavero, si tirò il berretto sugli occhi e abbassò la testa.

— Ecco. Così ho abbastanza l’aria da cospiratore? — E non poté trattenersi dal ridere. Skou non condivideva la sua allegria.

— Vi prego di non fare niente che possa attrarre l’attenzione su di noi. Questo è molto importante, ve lo posso dire.

— Ci credo.

Proseguirono in silenzio, attraversando un paesaggio di campi arati di fresco che attendevano le semine di primavera. Il villaggio di Dragør non era lontano, e Nils guardò con sospetto i vecchi edifici di mattoni rossi. Non si fermarono, ma si diressero al porto.

— La Svezia? — domandò Nils. — Saliamo sulla nave traghetto?

Skou non si curò di rispondere e l’auto oltrepassò lo scivolo del traghetto, puntando verso il porto. Là erano ormeggiate alcune imbarcazioni da diporto, oltre a una motolancia di discrete dimensioni.

— Seguitemi, prego — disse Skou. E afferrò la borsa di Nils, prima che questi facesse in tempo a prenderla. Poi si diresse verso la lancia. Nils lo seguì docilmente, domandandosi in quale imbroglio stesse per immischiarsi. Skou salì sull’imbarcazione e mise le borse nella cabina; poi fece segno al pilota di salire a bordo. L’uomo che sedeva al volante fingendo di ignorare tutta la faccenda, accese il motore.

— Addio — disse Skou. — Credo che viaggerete molto comodamente, lì dentro.

— Ma, dove…?

Skou non rispose e cominciò a sciogliere gli ormeggi. Nils si strinse nelle spalle, poi si chinò per passare attraverso la porta della cabina.

Si lasciò cadere sulla panca che stava nell’interno e malgrado la scarsa luce che filtrava attraverso i piccoli oblò, si accorse di non essere solo.

— Buon giorno — disse alla figura infagottata che sedeva all’estremità della panca, dirimpetto alla sua. E ricevette in cambio una risposta impersonale. Quando i suoi occhi si furono adattati alla penombra, si accorse che al piede dell’uomo c’era una valigia e che anche lo sconosciuto indossava un cappotto nero e un berretto scuro.

— Cos’è questa storia? — chiese Nils, ridendo. — A quanto pare, hanno beccato anche voi. Stessa uniforme.

— Non so di che cosa stiate parlando — replicò l’altro freddamente, strappandosi di testa il berretto e ficcandolo in tasca.

Nils si spostò lungo la panca per metterglisi di fronte.

— Naturale. Quello Skou è veramente misterioso. Però ha poca fantasia, quando si tratta di travestimenti. Scommetto che vi hanno prelevato in gran fretta per un lavoro segreto, e vi hanno scodellato qui.

— Come fate a saperlo? — fece l’altro, sedendosi più eretto.

— Fiuto. — Nils si levò il berretto e lo indicò. Poi guardò meglio in faccia il compagno di viaggio. — Ma dove vi ho già visto? Forse a qualche festa, o su qualche rivista? Non siete quello del sommergibile che collaborò al salvataggio di un 707, al largo della costa? Carlsson, Henriksen o qualcosa del genere.

— Henning Wilhelmsen.

— Io mi chiamo Nils Hansen.

Dopo le presentazioni, si strinsero la mano e all’improvviso la tensione diminuì. Faceva caldo nella piccola cabina, e Nils si sbottonò il cappotto. Il motore pulsava regolarmente, mentre si staccavano dalla riva.

Wilhelmsen guardò l’uniforme dell’altro passeggero.

— Non è singolare? — commentò. — Un comandante della marina e un pilota della SAS che se ne vanno a spasso per l’Øresund su una vecchia carcassa come questa. Che cosa vorrà dire?

— Forse la Danimarca possiede una portaerei di cui noi non sappiamo niente!

— E allora, io che c’entro? Dovrebbe essere una portaerei sommergibile, ma in tal caso ne avrei senz’altro sentito parlare. Che ne dite di berci qualcosa?

— Il bar non è aperto.

— Chi lo dice? — Wilhelmsen tirò fuori da una tasca laterale una fiaschetta ricoperta di cuoio. — Il motto dell’equipaggio di un sottomarino è: Siate sempre pronti.

Nils fece schioccare involontariamente la lingua mentre il liquido scuro veniva versato nella tazza di metallo. — Non posso bere, se devo volare nelle prossime dodici ore.

— Sarà molto improbabile, direi. A meno che questa carcassa non metta fuori un paio di ali. E poi, questa è roba della marina; assolutamente analcolico.

— Accetto l’offerta.

Il liquore li tirò su di morale. Dopo aver ronzato intorno all’argomento per un poco, si scambiarono le rispettive informazioni, ma scoprirono soltanto di non sapere niente. Erano diretti verso un luogo imprecisato, per ragioni ignote. Guardarono il sole che si andava abbassando, e di comune accordo dichiararono che l’unico lembo di terra danese situato in quella direzione era l’isola di Bornholm, e che, con quell’imbarcazione leggera, non potevano certo raggiungerla. Mezz’ora dopo, il loro interrogativo ebbe risposta: il motore della lancia si spense e gli oblò di tribordo si oscurarono all’improvviso.

— È sicuramente una nave — disse Henning Wilhelmsen sporgendo la testa dalla porta. — La Vitus Bering.

— Mai sentita nominare.

— Io sì. È una nave dell’Istituto della Marina e ci sono stato anche a bordo. L’anno scorso, quand’era nave appoggio del Blaeksprutten, il piccolo sottomarino sperimentale che io stesso ho collaudato.

Alcuni passi rimbombarono sul ponte e un marinaio guardò dentro, chiedendo il bagaglio. Glielo diedero e lo seguirono su per la scaletta. Un ufficiale della nave li pregò di seguirlo nel quadrato, poi fece strada. Là c’erano ad aspettarli più di dodici militari in uniforme, rappresentanti di tutte le forze armate, e quattro tipi in borghese. Nils ne riconobbe due: un uomo politico che una volta aveva volato sul suo aereo come passeggero, e il professor Rasmussen, vincitore del Premio Nobel.

— Sedete, signori — disse Ove Rasmussen. — Ora vi spiegherò perché siamo tutti qui riuniti.


All’alba del mattino seguente erano nel Baltico, in acque internazionali, a cento miglia da terra. Arnie aveva dormito male: non aveva la stoffa del marinaio, e il rollio della nave l’aveva tenuto sveglio. Arrivò sul ponte per ultimo, e raggiunse gli altri che guardavano come il Blaeksprutten veniva estratto dalla stiva.

— Ha l’aria di un giocattolo — disse Nils Hansen. Il gigantesco pilota, pur portando ancora il berretto della SAS, indossava ora, come tutti gli altri, un paio di stivaloni di gomma, un maglione, e pesanti pantaloni di lana, adatti al tagliente vento artico. Era una giornata invernale, con le nubi basse e l’orizzonte vicino.

— Non è un giocattolo, ed è più grande di quello che sembra — osservò Wilhelmsen, calorosamente. — Con un equipaggio di tre uomini, può ancora portare un paio di osservatori. Si tuffa bene, i comandi sono buoni, raggiunge un’ottima profondità…

— Però mancano le eliche — disse Nils, cupo, ammiccando agli altri presenti. — Devono essere saltate via.

— Questo è un sottomarino, mica una delle vostre macchine volanti! Ha turbine idrauliche e motori a reazione, proprio come quei vostri stupidi bestioni. Ecco perché si chiama Blaeksprutten… Si muove sfruttando la spinta dell’acqua, come le seppie.

Arnie colse lo sguardo di Ove, e chiamò il collega in disparte, con un cenno.

— Una giornata ideale per l’esperimento — disse premendo la lingua contro gli incisivi rimessi, che sentiva ancora estranei. — La visibilità è ridotta e sul radar non compare assolutamente niente. Un aeroplano delle forze aeree ha fatto un volo di ricognizione: la nave più vicina è a centoquaranta chilometri. Ed è soltanto una nave da carico polacca.

— Vorrei essere a bordo, durante l’esperimento, Ove.

Ove gli mise amichevolmente le mani sulle spalle. — Lo credo, mio caro… Io non voglio affatto prendere il tuo posto, ma il ministro pensa che tu sia troppo importante per farti correre grossi rischi, la prima volta. E, secondo me, ha ragione. Comunque, sarei disposto a fare come dici tu, se potessi: solo che non me lo permettono. L’ammiraglio ha ordini precisi e pretenderà che vengano eseguiti. Non preoccuparti, avrò cura del tuo pargoletto! Abbiamo eliminato quell’armonica di disturbo e non c’è altro che possa fare cilecca. Vedrai.

Arnie si strinse nelle spalle, rassegnato, sapendo che sarebbe stato inutile insistere.

Dopo molte oscillazioni e molti ordini gridati col megafono, il piccolo sottomarino fu staccato dalla nave e deposto in mare. Wilhelmsen sgattaiolò giù per la scaletta prima ancora che toccasse la superficie liquida dell’acqua, e con un balzo fu a bordo. Sparì nel boccaporto della torretta di comando, e pochi minuti dopo qualcosa rombò sott’acqua, e i motori si mossero. Henning sbucò di nuovo dal boccaporto e salutò con la mano. — Venite a bordo! — gridò.

Ove prese la mano di Arnie. — Andrà tutto bene — disse. — Abbiamo effettuato dodici controlli diversi dopo l’installazione dell’unità Daleth.

— Lo so, Ove. In bocca al lupo!

Rasmussen scese la scaletta, seguito da Nils Hansen, ed entrarono tutt’e due nel boccaporto, richiudendolo subito.

— Mollare! — gridò Henning. La sua voce rimbombò nell’altoparlante collegato alla radio a onde corte a bassa frequenza, che era stata installata sul ponte. Le gomene furono sciolte, e il piccolo sottomarino cominciò ad allontanarsi. Arnie agguantò il microfono.

— Allontanatevi di trecento metri, prima di iniziare resperimento!

Ja vel!

I motori della Vitus Bering erano stati spenti, e la nave rollava sul mare tranquillo. Arnie si teneva stretto al parapetto e guardava il Blaeksprutten allontanarsi. Sembrava calmo come al solito, ma sentiva il cuore battere più in fretta di quanto gli fosse mai capitato. La teoria è una cosa, la pratica un’altra… come avrebbe detto Skou! Sorrise tra sé. Quello era resperimento finale.

Aveva un binocolo appeso al collo, e se lo portò agli occhi mentre il sottomarino compiva un’ampia virata intorno alla nave. Attraverso le lenti, il Blaeksprutten appariva distintamente: si muoveva sicuro, mentre le onde si rompevano contro lo scafo quasi completamente sommerso.

Poi, e non era un’illusione, le onde cominciarono a frangersi contro i fianchi e lo scafo restò quasi completamente scoperto. Sembrava sollevarsi nell’acqua in modo innaturale… sempre più.

Infine galleggiò come un enorme pallone sulla superficie del mare.

Poi si staccò anche da quella. Cinque, dieci, trenta metri. Arnie lasciò andare il binocolo e si tenne stretto al parapetto con tutt’e due le mani, impietrito.

Quel sottomarino da venti tonnellate e dallo scafo poderoso se ne stava sospeso con la grazia di un corpo più leggero dell’aria, quaranta metri sopra il livello del mare! Poi il Blaeksprutten sembrò ruotare sopra un perno invisibile, e puntò verso la nave appoggio. Si spostava lentamente, mentre una pioggerellina salata cadeva dallo scafo grondante. Nessuno parlava; tutti erano ammutoliti alla vista di quello spettacolo incredibile. Si udiva indistintamente il balbettio dei motori diesel del sottomarino. Senza staccare gli occhi dalla visione, Arnie agguantò il microfono.

— Potete scendere, ora — disse. — Credo che l’esperimento possa considerarsi riuscito.

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