— Non è un gran panorama — ammise Bob Baxter — ma io lo trovo stimolante, a modo suo. Mi riesce difficile dimenticare il mio lavoro, quando guardo fuori da questa finestra.
Baxter era un uomo magro, nervoso, spigoloso come una squadra da falegname. Aveva un viso scialbo e impersonale, e la caratteristica sua che più restava impressa erano le spesse lenti cerchiate di nero. Senza quelle, si poteva benissimo non riconoscerlo. E forse le portava proprio per questo. Sedette lasciandosi cadere nella poltroncina girevole dietro la scrivania, e indicò la finestra con una matita gialla su cui era impressa la scritta PROPRIETÀ DEL GOVERNO DEGLI STATI UNITI.
L’altro individuo che si trovava in ufficio e che sedeva impettito su una sedia, annuì. Non era la prima volta che udiva quelle considerazioni sul panorama. Era un uomo brutto e solido, con le labbra tese e sottili, e una testa incredibilmente tonda, coperta da capelli corti e grigi. Era conosciuto col nome di Horst Schmidt: un nome di comodo come potrebbe essere John Smith.
— Tranquillo, in certo qual modo — disse Baxter, agitando la punta della matita in direzione delle pietre bianche e degli alberi verdi. — Niente è più tranquillo di un cimitero, suppongo. E sapete che cos’è quell’edificio dal tetto stravagante, proprio dall’altra parte del camposanto?
— L’ambasciata dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. — L’inglese di Schmidt aveva un leggero accento straniero, anche se con una marcata inclinazione alla gutturalità.
— Davvero simbolico! — Baxter si girò e lasciò cadere la matita sulla scrivania… — È proprio l’ambasciata americana che sorge dirimpetto a quella sovietica, con un cimitero in mezzo. Offre spunti di meditazione. Che cosa avete scoperto riguardo a ciò che è accaduto l’altra notte sulla banchina?
— Non è stato facile, signor Baxter. Tutti tengono la bocca chiusa. — Schmidt infilò una mano nel taschino interno della giacca e ne estrasse un foglio di carta piegato, che tenne davanti a sé col braccio teso, socchiudendo gli occhi per leggere. — Questo è l’elenco delle persone portate in ospedale per ferite, tutte ricoverate su per giù alla medesima ora. Sono…
— Tralasciate i particolari, farò fare una fotocopia della lista. Volete riassumermi, ora?
— Certo. Un ammiraglio, un generale, un colonnello, un altro pezzo grosso, un funzionario importante del ministero degli interni. Cinque individui in tutto. E ho buoni motivi per ritenere che un numero non identificato di altri individui sono stati medicati per abrasioni varie, e poi dimessi. Tra questi ci sono personalità dell’aeronautica.
— Benissimo. Siete molto efficiente.
— Non è stato semplice. È un’impresa complicata giungere ai registri degli ospedali militari. Ho avuto parecchie spese…
— Presentatemi la lista. Sarete pagato, non temete. E adesso la domanda da sessantaquattromila dollari, se posso esprimermi così: che cosa ha causato tutte queste ferite?
— Questo è difficile dirlo, dovete rendervene conto. C’entra una nave, la Isbjorn. È un rompighiaccio.
— Be’, non si possono chiamare notizie strabilianti, poiché lo sapevamo fin dal primo giorno. — Baxter aggrottò la fronte e prese un mazzo di matite ben temperate, disponendole in una fila ordinata sulla carta assorbente verde, ancora vergine, che aveva davanti. Oltre a quella, sulla scrivania c’era soltanto un portaritratti a portafoglio, di finto cuoio, dentro cui stava la foto di una donna dalla faccia tonda e sorridente, e di due bambini paffuti, ma imbronciati. — Ci deve essere dell’altro.
— Infatti: la Isbjorn è stata rimorchiata nel cantiere navale di Christianshavn, dove la stanno riparando. Sembra che abbia lo scafo danneggiato, forse per una collisione. Ho potuto accertare che ciò che ha prodotto le avarie della nave ha causato anche le ferite alle persone. È stato difficilissimo ottenere questa notizia, per via della stretta cortina di silenzio stesa dai servizi di sicurezza sopra l’intera faccenda. Basterebbe questo per indurmi a credere che sta avvenendo qualcosa di importante.
— Io la penso come voi, Horst — disse Baxter perplesso, prendendo una delle matite e cominciando a rosicchiarla. — Dev’essere qualcosa di grosso per i danesi. Lo dimostra la presenza di tutti quei militari, del ministero degli interni e di quel maledetto rompighiaccio. E quel rompighiaccio mi fa pensare al ghiaccio. E il ghiaccio mi ricorda la Russia e… Insomma, vorrei proprio sapere che cosa diavolo bolle in pentola.
— Allora voi non avete… — Horst sorrise senza la minima sfumatura di ironia, rivelando una brutta dentatura gialla, irregolare e con diverse protesi in acciaio, nella quale spiccava il lusso inaspettato di un dente d’oro. — Voglio dire che dovreste aver ricevuto qualche informazione attraverso la NATO. Non è così?
— Questi non sono fatti vostri! — Baxter guardò severamente l’estremità mordicchiata della matita, poi gettò questa nel cesto della carta straccia. — Siete qui per fornire notizie a me, non per riceverne. Tuttavia posso anche dirvi che, ufficialmente, non è accaduto niente, e che nessuno ha intenzione di dirci una sola parola sulla faccenda. — Dietro lo schermo della scrivania, si asciugò le dita umide sui pantaloni.
— È molto sleale da parte loro — dichiarò Horst, con assoluta indifferenza. — Dopo tutto ciò che il vostro paese ha fatto per la Danimarca…
— Potete dirlo forte! — Baxter lanciò una rapida occhiata all’orologio. Era tutto d’oro, con un numero straordinario di pulsanti e lancette. — Mi farete pervenire una relazione tra una settimana. Stesso giorno e stessa ora. Dovreste riuscire a scoprire qualcosa di più.
Schmidt gli porse il foglio con i nomi. — Avete detto che volevate fare una fotocopia. E poi c’è la faccenda di… — Aveva la mano tesa, con il palmo in su, e, prima di ritirarla, si permise un sorriso significativo.
— Il denaro. Ditelo chiaro e tondo, Horst. Denaro. Non c’è di che vergognarsi. Tutti lavoriamo per il denaro. È il denaro che tiene in movimento gli ingranaggi. Torno subito.
Baxter prese il foglio e uscì dalla porta che dava nell’ufficio attiguo. Schmidt rimase seduto, immobile, senza interessarsi minimamente alla scrivania o all’armadietto dell’archivio, posti contro la parete. Sbadigliò e ruttò rumorosamente, facendo poi schioccare le labbra con aria disgustata. Prese due pastiglie bianche da uno scatolino di plastica che teneva in tasca, e le masticò. Infine Baxter tornò e gli restituì il foglio, accompagnato da una busta lunga, senza nessuna scritta. Schmidt intascò tutte e due le cose.
— Non li contate? — domandò Baxter.
— Siete un uomo d’onore. — Schmidt si alzò. Col suo vestito blu, le pesanti scarpe nere e i calzoni larghi, dai risvolti tanto capaci che sembravano ingoiare i piedi, rappresentava il classico tipo dell’Europa Centrale. Baxter inarcò le sopracciglia ma non disse nulla. Poi Schmidt prese dall’attaccapanni sciarpa e cappotto, entrambi dello stesso tessuto scuro e rozzo di cui era fatto il cappello a larghe tese, e se ne andò senza più dire parola, dalla porta che si apriva sul corridoio grigio e impersonale. Non c’era nessun nome, sopra quella porta. Solo il numero 117. Invece di dirigersi verso l’anticamera, percorse tutto il corridoio, poi scese una rampa di scale che portavano alla biblioteca del Servizio Informazioni degli Stati Uniti. Una volta là, senza neanche leggerne i titoli, prese due libri dallo scaffale più vicino alla porta. Mentre i volumi venivano segnati dal bibliotecario, lui si avvolse bene nel suo cappotto. E quando uscì in Østerbrogade, pochi minuti dopo, camminò per un poco dietro un tizio che pure portava dei libri. Poi l’altro svoltò a destra e lui, a sinistra. Passò con aria indifferente davanti al cimitero di Garnisons, proseguendo quindi per la stazione della metropolitana di Østerport.
Una volta dentro la stazione, si servì di tutti i servizi che essa offriva, uno dopo l’altro. Comprò il giornale all’edicola presso l’entrata, girandosi per vedere chi veniva dietro di lui. Andò alla toilette, in fondo all’edificio, poi infilò libri e giornale in un armadietto automatico, e intascò la chiave. Scese una scala che portava ai treni, e, sebbene fosse proibito attraversare i binari, riuscì a risalire poco dopo attraverso un’altra scala. Nel frattempo, gli era venuta sete, e andò a riempirsi un bicchiere di Carlsberg al distributore automatico. Bevve in piedi, davanti a uno degli alti tavolini. Evidentemente tutte quelle manovre ottennero il risultato desiderato, perché, dopo essersi asciugato le labbra col dorso della mano, Schmidt uscì dalla porta posteriore della stazione e percorse non passo vivace Østbanegade, costeggiando i binari, dove questi emergevano dalla galleria nella luce del sole invernale. Al primo incrocio svoltò a sinistra e camminò lungo l’altro lato del cimitero. Era solo nella strada.
Quando se ne fu assicurato si guardò intorno liberamente e oltrepassò gli alti cancelli di ferro battuto dell’ambasciata sovietica.