13

— Guarda! — disse Nils. — Guarda qui! — Teneva davanti un’edizione del Berlingske Tidende appoggiata contro la caffettie ra, e masticava rabbiosamente la pancetta affumicata della prima colazione. — Non sono per niente abituato a vedere dei titoli così, in un giornale danese! Impressionante… Guardiano notturno ucciso… ufficio del ministro degli esteri scassinato… documenti mancanti. Sembra di leggere i giornali americani.

— Non capisco proprio che c’entrino gli Stati Uniti — replicò Martha. — Queste cose sono accadute qui, e non in America. Non c’è nessun nesso. — Afferrò la caffettiera per versarsi il caffè e il foglio cadde.

— Ti sarei grato se non mandassi a finire il giornale nella marmellata: è difficile leggerlo, poi. — Nils lo raccolse e ripulì col tovagliolo le macchie rosse e appiccicaticce. — Il nesso c’è, e tu lo sai bene. I giornali statunitensi sono sempre pieni di delitti, stupri e pestaggi, perché là accadono abitualmente cose di questo genere. Le cifre parlano chiaro: ci sono stati più delitti a Dallas in un anno, che in Inghilterra, Irlanda, Scozia e Galles messi insieme. E scommetto che potresti aggiungerci anche la Danimarca.

— Se detesti tanto gli americani, perché mi hai sposato? — domandò Martha, addentando il pane abbrustolito.

Nils aprì la bocca per rispondere, ma poi scoprì che non c’era assolutamente niente da ribattere a quella sottile esibizione di logica femminile, e si limitò a grugnire, cercando la pagina sportiva. Martha annuì, come se quella fosse proprio la risposta che si aspettava.

— Non è ora di andare? — chiese.

Nils lanciò un’occhiata all’orologio sulla porta della cucina.

— Ancora qualche minuto. Non dobbiamo arrivare là prima che si apra l’ufficio postale, alle nove. — Posò il giornale e allungò una mano per prendere la tazza del caffè. Indossava un vestito marrone scuro, invece dell’uniforme.

— Non volerai più? — chiese Martha.

— Non so. Mi piacerebbe, ma Skou continua a tirare in ballo la sicurezza. Forse sarebbe meglio che cominciassero a dare un po’ più retta a lui. Va’ a prendere il soprabito, ora. Ti aspetto in auto.

Attraverso una porta si poteva passare dal ripostiglio nella rimessa, e ciò gli rendeva più facile uscire inosservato. Anche Skou aveva riconosciuto che era molto improbabile che la casa di Nils fosse sorvegliata, ma non si poteva mai essere certi. Da come parlava Skou, sembrava che tutti gli aerei diretti in Danimarca portassero più spie che turisti. Ma forse in questo aveva ragione: non c’era un paese al mondo che non desiderasse la propulsione Daleth. Nils aprì la portiera posteriore della grossa Jaguar e salì. Si ritrovò con le ginocchia in bocca, e si accorse di non essere mai salito sul sedile posteriore prima di allora. In quel momento arrivò Martha, bella ed elegante nel cappotto svedese marrone, con una striscia di seta che le tratteneva i capelli. Dimostrava meno dei suoi ventisei anni. Nils abbassò il finestrino.

— Moglie-bambina! — gridò. — Non mi hai dato il bacio dell’addio.

— Ti impiastriccerei di rossetto. — Gli gettò un bacio sulla punta delle dita e soggiunse: — Ora chiudi il finestrino e accucciati giù sul fondo, che alzo la saracinesca della rimessa.

— Accucciati giù… — grugnì lui, cercando di sistemare la propria mole massiccia sul tappetino dell’auto. — Americana, sei… Impari nuovi vocaboli ogni giorno. Non sapevo che ci si potesse anche accucciare «su»!

— Sta’ buono — disse lei, salendo. — La strada sembra deserta.

Uscirono dal garage, e Nils riuscì a scorgere soltanto le cime degli alberi lungo Strandvejen mentre la moglie riabbassava la saracinesca. Quando partirono, vide soltanto il cielo e qualche rara nuvola.

— Che noia starsene qui…

— È questione di poco. Il treno è alle nove e dodici, no?

— Sì. Non arrivare troppo in anticipo, perché non me la sento di starmene a bighellonare sulla piattaforma.

— Rallenterò quando arriveremo al bosco. Tornerai per cena?

— Non so. Ti telefonerò appena riuscirò a saperlo.

— Non prima di mezzogiorno, però. Vado a fare qualche compera, mentre sono a Birkerød. C’è quella piccola boutique nuova, sai.

— Ci sono anche dei nuovi conticini da pagare… — Nils sospirò teatralmente e cercò di cambiare posizione senza riuscirci.

Erano le nove e nove minuti quando l’auto si fermò nell’area riservata al parcheggio, vicino alla stazione ferroviaria, proprio dirimpetto alla Posta.

— C’è qualcuno intorno? — domandò lui.

— Un tale che sta entrando nell’ufficio postale. E un uomo che sta mettendo il lucchetto alla sua bici. Ora entra nella stazione… Nessuno guarda da questa parte.

Nils spuntò dal fondo dell’auto e si abbandonò sul sedile, sollevato.

— Non ne potevo più.

— Andrà tutto bene, vero? — gli chiese Martha, voltandosi a guardarlo. Aveva sulla fronte, tra gli occhi, una piccola ruga; come quando, appena sposati, l’abitudine di saperlo in volo non aveva ancora cancellato, almeno esteriormente, una preoccupazione assillante.

— Ma certo — la rassicurò lui, allungando un braccio e spianando col dito la ruga.

Lei sorrise, senza molto successo. — Non avrei mai immaginato di desiderare che tu te ne andassi in giro per il mondo su quei grossi aerei. Eppure ora è così.

— Non prendertela. So badare a me stesso. E poi il cane da guardia Skou sarà con me.

Seguì con gli occhi la deliziosa figuretta della moglie che attraversava la strada, poi guardò l’orologio. Un altro minuto. La via era deserta, ora. Scese dall’auto e andò a comprare un biglietto. Uscì sulla piattaforma di legno proprio mentre il treno sbucava dalla curva alla periferia della città, fischiando vigorosamente. Altre tre o quattro persone aspettavano il treno di Copenaghen, ma nessuno si curò di lui, e quando il convoglio si fermò Nils salì sulla prima carrozza. Ove Rasmussen alzò gli occhi dal giornale e gli fece un cenno con la mano. Si salutarono, e il pilota gli si sedette accanto.

— Credevo che ci fosse Arnie, con voi — disse.

— Lui parte con Skou, con qualche altro sistema segreto e complicato.

— Ora non è più un gioco, vero?

— Avete ragione. Chissà se riusciremo a scovare quel delinquente!

— Skou dice che è altamente improbabile. È stato un lavoretto da professionisti: nessun indizio di alcun genere. Quei bastardi di assassini! E tutto per niente… Perché non c’era niente sulla propulsione Daleth nell’ufficio.

Dopo di che viaggiarono in silenzio fino a Hillerød, dove dovevano cambiare treno. Quello per Helsingør era pronto a partire: un solo binario con sole tre carrozze. Il convoglio si lanciò sferragliando attraverso le foreste di faggi e betulle e rasentò i giardinetti posteriori delle case bianche dal tetto rosso, dove la biancheria distesa si gonfiava al vento freddo che soffiava dal Sound. Poi i boschi cedettero il passo ai campi, e a Snekkersten si vide l’oceano per la prima volta: le acque plumbee dell’Øresund, con il verde della Svezia sull’altra sponda. Quella era l’ultima fermata prima di Helsingør, e quando i due viaggiatori scesero trovarono Skou ad attenderli. Nessun altro era sceso dal treno al piccolo villaggio di pescatori, ma Skou si allontanò senza una parola, e loro lo seguirono. Le case vecchie erano circondate da alte siepi e la strada era deserta. Oltre la prima svolta, aspettava un furgone con la scritta KOBENHAVNS ELEKTRISKE ARTIKLER dipinta sui fianchi, in una cornice di simboliche saette culminante in una lampadina dalla luce violenta. Skou aprì gli sportelli posteriori, e gli altri due salirono, cercando di accomodarsi il meglio possibile sui rotoli pesanti di fil di ferro; poi lui sedette al posto di guida, cambiò il proprio cappello a cencio con un berretto a visiera da operaio, e partì.

Entrarono a Helsingør, per strade secondarie, quindi costeggiarono il porto fino a Helsingør Skibsvaerft. La guardia che stava al cancello fece cenno di passare, e il furgone entrò nel cantiere. Lì c’erano gli scheletri di due navi in costruzione. Le macchine chiodatrici martellavano, e la luce attinica mordeva all’improvviso quando i saldatori entravano in azione. Il furgone si fermò davanti agli uffici posteriori, che restavano piuttosto nascosti.

— Siamo arrivati — annunciò Skou, uscendo dal veicolo.

Gli altri scesero e lo seguirono dentro l’edificio, su per una rampa di scale. Un poliziotto in uniforme salutò e tenne aperta la porta per lasciarli passare. Dentro c’era odore di caffè appena fatto, misto al fumo aspro dei sigari. Due uomini se ne stavano seduti con le spalle all’uscio e guardavano fuori da una grande finestra che dava sul cantiere. Si alzarono e si voltarono. Erano Arnie Klein e un tipo alto, di mezza età, con un panciotto nero attraversato da una catena d’oro di un vecchio orologio.

— Questo è Leif Holm, il direttore del cantiere — presentò Arnie.

Furono portati del caffè, che fu accettato e dei grossi sigari Jutland, che gli ospiti rifiutarono. Holm ne accese uno per sé ed espulse una enorme nube di fumo, che rimase sospesa all’altezza del soffitto.

— Là, signori — disse poi, puntando il sigaro come fosse un’arma mortale verso la finestra — là, sullo scalo di costruzione centrale, voi vedete il futuro della Danimarca!

Un rovescio di pioggia si avventò sul porto, nascondendo prima i merli di Kronborg Slot, cioè il castello di Amleto, poi la mole tozza del traghetto svedese di Hälsingborg e gettando infine una coltre nebbiosa sulle centine e sulle lamiere rosse delle navi in costruzione prima di sparire verso l’entroterra. Quindi un sole pallido e bagnato fece capolino. Seguendo la direzione indicata da Holm, Nils e Ove guardarono la nave sgraziata, quasi brutta, che stava per essere terminata. Aveva una strana forma come di un tubo stiracchiato fino a ottenere una figura oblunga. Prua, poppa e fiancata erano arrotondate: la struttura superiore, che ora si stava montando sul ponte in sezioni prefabbricate, era bassa e aerodinamica.

— Questo è il nuovo hovercraft, nevvero? — domandò Nils. — Il Vikingepuden. Costruito per la linea Esbjerg-Londra. Dovrebbe essere il più grande del mondo. — E si domandò che cosa c’entrasse quel veicolo col futuro della Danimarca.

— Esatto — dichiarò Holm. — Gli si è fatta molta pubblicità sui giornali, più che per i traghetti britannici della Manica. Ma nessuno ha detto che lavoravamo ventiquattro ore su ventiquattro, che sono stati effettuati cambiamenti importanti nel piano di costruzione e che, al varo, la nave sarà battezzata col nome di Galatea e navigherà su mari sconosciuti, proprio come la sua omonima. E se anche non si tufferà nel profondo degli oceani, sarà però adatta alle altezze vertiginose. — Posò un dito sul naso e ammiccò cordialmente.

— Non vorrete dire…

— Sì, sì…! La Luna, i pianeti, le stelle… Chissà? Mi dicono che i professori, qui presenti, hanno pensato alla propulsione, mentre noi del cantiere non si stava con le mani in mano. Comunque i cambiamenti effettuati rispetto al progetto originario sono imponenti. Rinforzi interni, boccaporti a tenuta stagna, camere stagne… non starò a scocciarvi con i particolari. Basta dire che tra poche settimane sarà varata la prima vera e propria nave spaziale: la Galatea.

Ora tutti lo guardavano con nuovo e impaziente interesse. La linea arrotondata, assurda in una nave normale, era invece ideale per uno scafo resistente alla pressione: la mancanza di una prua e di una poppa chiaramente segnate non aveva importanza nello spazio. Quel rugginoso toro sgraziato anticipava le forme del futuro.

— C’è un’altra cosa, che voi dovreste sapere, signori. Tutte le varie operazioni del programma, e ciò che sarà reso pubblico solo dopo il varo di Galatea, sono state trasferite ad un altro ministero: al ministero dello spazio. E io ho l’onore di essere il facente funzione del ministro, al momento. Ho perciò il dovere, invero piacevole, di domandare al capitano Hansen se è disposto a trasferirsi dalle Forze Aeree alle Forze Spaziali, naturalmente col grado equivalente e senza alcuna perdita di diritti di anzianità. Se accetterà, il suo primo compito sarà quello di ufficiale comandante su questa splendida unità. Che ne dite, capitano?

— Naturalmente, naturalmente! — rispose Nils, senza esitare. E non staccò più lo sguardo dalla nave, neanche quando gli amici gli si fecero intorno per congratularsi.

Martha non era stata del tutto sincera con Nils, quando lo aveva lasciato alla stazione di Birkerød: non andava affatto a comprarsi dei vestiti, quel giorno, ma aveva un appuntamento a Copenaghen. Era una piccola, candida bugia, una delle pochissime che gli aveva detto da quando si erano sposati. Sette anni! Doveva essere una specie di primato. Ma la cosa più assurda era che non aveva proprio motivo di nascondere a Nils ciò che stava per fare: non si trattava di una decisione importante.

Un complesso di colpa, ecco tutto pensò fermandosi al semaforo e poi svoltando a sud, in Kongevej. Soltanto il mio irrazionale complesso di colpa! Nel cielo si andavano addensando le nubi e le prime gocce di pioggia cominciavano a spiaccicarsi sul parabrezza. Che farebbe il mondo moderno senza Freud che offre una spiegazione per tutte le cose? Stava laureandosi in psicologia all’università di Columbia, quando aveva incontrato Nils per la prima volta. Era venuta a trovare i genitori a Copenaghen, dove suo padre si trovava per lavoro, e il dottor Charles W. Greene, epidemiologo e membro influente dell’Organizzazione per la Salute Mondiale, aveva ospitato la figlia durante le vacanze estive. Lei… era una ragazza tutta braccia e gambe, che portava solo gonne di tweed. C’erano state feste e amici… Un’estate splendida… E Nils Hansen! Grande come una montagna e bello come un Apollo nella sua uniforme della SAS. E di una forza quasi primitiva, elementare. Risate, allegria… e si era ritrovata a letto con lui, quasi senza accorgersene. Non aveva avuto il tempo di pensare, né di rendersi conto dell’accaduto. La cosa più buffa era, in un certo senso, che poi si erano sposati. La sua proposta l’aveva veramente sorpresa. Nils le piaceva, era praticamente il primo uomo con cui fosse andata a letto (i compagni di università non contavano!) ma le era sembrato un po’ strano pensare anche solo lontanamente di legarsi a uno straniero, a un tipo di un altro paese, di un’altra lingua. Tuttavia la Danimarca le sembrava simile agli Stati Uniti sotto molti aspetti. E poi, ci abitavano i suoi genitori e Nils e gli amici parlavano inglese. Era stato tutto così divertente, così rapido… e si erano sposati.

Però non era mai stata completamente sicura del motivo per cui l’aveva scelta. Avrebbe potuto prendersi qualsiasi ragazza gli fosse saltato il ticchio di volere… anche ora doveva sempre scrollarsene qualcuna di dosso, alle feste. Invece aveva scelto lei. Amore romantico diceva a se stessa, ogni volta che si sentiva su di giri, Roba da novella del «Ladies’ Home Journal!». Ma quando si metteva a piovere per settimane e lei restava sola, se ne andava a trovare gli amici o a fare delle compere per sfuggire alla depressione. Allora cominciava a temere che lui l’avesse sposata soltanto perché aveva raggiunto l’età in cui gli uomini danesi si sposano, e aveva trovata lei a portata di mano. E una moglie americana dà un certo prestigio, in Danimarca.

Probabilmente la verità stava al centro di questi due estremi, oppure comprendeva parzialmente tutti e due. Col passar degli anni, Martha capiva che nessuna cosa è mai semplice come si spera. Ora era una donna sposata da parecchio: una casalinga un po’ annoiata, a volte, anche se non infelice.

Tuttavia restava ancora cittadina americana… e forse proprio lì faceva capolino il complesso di colpa. Se amava veramente Nils, come era sicura di amarlo, perché non aveva mai compiuto quel passo e preso la cittadinanza danese? A dire il vero non ci aveva mai pensato molto, e tutte le volte che i suoi pensieri si avvicinavano a quell’argomento, si affrettava a deviarli in un’altra direzione… Non le riusciva difficile.

Guidava distrattamente da un po’, e ad un tratto si accorse che la pioggia si era fatta più fitta e che inondava il parabrezza. Si fermò e azionò il tergicristallo.

Perché non si decideva a cambiare? Quello era forse un sottile legame che la teneva unita alla sua famiglia, alla sua vita precedente? Forse non era ancora sicura del loro matrimonio? Sciocchezze! Nils non ne parlava mai, non ricordava che avesse mai toccato quel punto. Tuttavia lei provava sempre un certo rimorso. Teneva il passaporto in regola, figurando così straniera residente in Danimarca, e una volta all’anno un sorridente agente della polizia criminale ne prolungava la validità con un timbro. Forse era la faccenda della polizia criminale che la disturbava? No, quello non era che un organismo governativo come gli altri: non c’entrava affatto. Ora all’ambasciata americana volevano sapere qualche particolare sul suo passaporto, e lei stava appunto andandoci. Ma non l’aveva detto a Nils.

L’ora di punta era terminata e il traffico era scarso, così arrivò all’ambasciata prima delle dieci. Non c’era alcun parcheggio vicino, e dovette lasciare l’auto due isolati più in su. La pioggia si era fatta leggera e insistente, la classica pioggerellina danese capace di durare parecchi giorni senza interruzione. Martha si infilò le soprascarpe di plastica che teneva sempre pronte nell’auto, e aprì l’ombrello.

L’ingresso, come al solito, era deserto e la ragazza che stava dietro la scrivania la guardò col freddo distacco delle impiegate, mentre lei chiudeva l’ombrello gocciolante e cercava il foglietto di carta nella borsetta.

— Ho un appuntamento — disse, spiegando il foglio e scuotendone via le briciole di tabacco. — Con un certo Baxter, per le dieci.

— Da quella porta, allora. Poi a sinistra, stanza centodiciassette. Quasi in fondo al corridoio.

— Grazie.

Martha scosse con cura l’ombrello sopra lo zerbino, ma si lasciò ancora dietro una scia di goccioline sul pavimento di marmo. La porta della stanza 117 era spalancata, e un uomo con gli occhiali dalla pesante montatura nera stava chino sopra la scrivania, osservando un foglio con profonda concentrazione.

— Signor Baxter?

— Sì, venite, prego. Permettetemi di prendere il vostro ombrello e il cappotto. Che giornate! A volte mi sembra che tutta quanta!a Danimarca sia sul punto di andarsene alla deriva sull’oceano. — Infilò l’ombrello nel cestino della carta straccia e appese il soprabito all’attaccapanni. Poi chiuse la porta. — Allora, voi siete…?

— Martha Hansen.

— Naturalmente. Vi aspettavo. Sedete, prego.

— È per il mio passaporto — disse lei, sedendo e posando in grembo la borsetta.

— Se potessi vederlo…

Lei glielo porse e rimase a guardare l’uomo che voltava le pagine aggrottando la fronte per lo sforzo di interpretare alcuni dei visti macchiati e dei timbri posti dalla dogana. Poi Baxter annotò qualcosa sopra un blocco giallo.

— A quanto sembra, vi piace viaggiare, signora.

— È per via di mio marito: è pilota su aerei di linea. I biglietti sono praticamente gratis, così giriamo parecchio.

— Siete una donna fortunata. — Baxter chiuse il passaporto e guardò Martha inarcando le sopracciglia al di sopra della montatura degli occhiali. — Ma… vostro marito non è forse Nils Hansen, il pilota danese? Quello di cui abbiamo letto nei giornali?

— Sì. C’è qualcosa che non va, nel passaporto?

— No, niente affatto. Voi siete davvero fortunata, con un marito simile! Quel ciondolo che portate al collo, viene dalla Luna? È quello di cui parlavano i giornali?

— Sì. Volete vederlo? — Si sfilò la catena e gliela porse. Era un comune pezzo di roccia vulcanica cristallina, montata così, al naturale, in una reticella d’argento. Una pietra venuta da un altro mondo.

— Ho sentito dire che vi hanno offerto una cifra con molti zeri, per questa. È meglio che stiate attenta. — Le rese il ciondolo e soggiunse: — Volevo semplicemente controllare il passaporto. Ci sono state alcune complicazioni con un altro che ha quasi lo stesso numero del vostro. Dobbiamo accertarci, sapete. Spero che non vi sia seccato troppo.

— No, certo.

— Perdonate, ma sapete come succede. Cose del genere non capiterebbero mai, a casa nostra. Invece un americano che vive all’estero… Ci vogliono sempre una quantità di documenti. — Batté il passaporto due o tre volte sulla carta assorbente, ma non accennò affatto a renderlo.

— La mia patria è qui, ora — disse lei, schermendosi.

— Naturalmente. Dopo tutto vostro marito è danese, anche se voi restate sempre cittadina americana.

Le sorrise, poi guardò la pioggia, fuori dalla finestra. Lei contrasse le mani sulla borsetta e non rispose. Quando l’uomo si voltò, Martha si accorse che aveva un sorriso vuoto, per nulla cordiale, che non diceva nulla: se ne stava lì, con quei grossi occhiali che gli davano un’aria da gufo intellettuale.

— Dovete essere una fedele cittadina americana — continuò Baxter — se non avete mai pensato di rinunciare alla vostra cittadinanza, pur essendo sposata… da sette anni, vero?… a un cittadino di un paese straniero. Non vi sembra?

— Io… io non ho mai dato molta importanza a queste cose — rispose Martha, con un filo di voce. Intanto pensava… Perché non gli dico di badare ai fatti suoi, prendo il passaporto e me ne vado di qui? Forse perché quello le aveva detto forte ciò che lei aveva sempre segretamente saputo.

— Non c’è di che vergognarsi. — Il sorriso riaffiorò. — La fedeltà verso il proprio paese sarà forse fuori moda, ma ha ancora qualcosa di bello. Non lasciate che nessuno vi convinca del contrario. Non c’è niente di male nell’amare il proprio marito come lo amate voi è nell’essere sua moglie, pur mantenendo la cittadinanza americana che Dio vi ha dato. Nessuno potrà mai strapparvela, non rinunciateci mai! — E sottolineò il suo punto di vista severamente, battendo il passaporto contro la scrivania.

Martha non sapeva che cosa rispondere e rimase zitta. L’altro annuì, come se il silenzio di lei equivalesse a un consenso.

— Ho letto sui giornali che è stato praticamente vostro marito a condurre la nave a propulsione Daleth sulla Luna. Dev’essere un uomo coraggioso.

Martha non poté fare a meno di annuire.

— Ora tutto il mondo guarda alla Danimarca, in testa nella gara spaziale. È un po’… buffo che questa piccola nazione abbia superato gli Stati Uniti. Con tutti i miliardi che abbiamo speso e gli uomini che sono morti! Molti americani pensano che non è giusto: in fin dei conti è stata l’America a liberare la Danimarca dai tedeschi, e sono il denaro, gli uomini e le attrezzature americane che mantengono forte la NATO e difendono questo paese dall’invasione russa! Forse quei nostri concittadini non hanno tutti i torti. La gara spaziale è un’impresa gigantesca e la piccola Danimarca non può affrontarla da sola; non siete d’accordo?

— A dire la verità non saprei… Suppongo che possano farlo…

— Ah, sì? — Il sorriso era sparito. — La propulsione Daleth è qualcosa di più di una propulsione spaziale. È una forza d’importanza mondiale. E la Russia potrebbe allungare un braccio di alcuni chilometri e impadronirsene tranquillamente. Voi non volete che ciò accada, vero?

— Ma no!

— Bene. Voi siete americana. Una buona americana. Quando l’America avrà la propulsione Daleth, ci sarà la pace nel mondo. Ora vi dirò una cosa in confidenza, non ripetetela a nessuno. I danesi non la pensano allo stesso modo. Alcune fazioni di sinistra del governo di qui (dopotutto sono socialisti!) ci nascondono i dati riguardanti la propulsione Daleth. E possiamo facilmente immaginare perché, non vi pare?

— No — disse lei, schermendosi. — La Danimarca non è come dite voi. Il governo non ha affatto simpatia per i russi. Non è il caso di preoccuparsi.

— Siete un po’ ingenua, come la maggior parte della gente, quando si tratta del comunismo internazionale. Penetra dappertutto. Strapperà la propulsione Daleth al mondo libero, se prima non ci mettiamo le mani noi. E voi potete aiutarci, Martha.

— Posso parlarne a mio marito — replicò lei, in fretta, sentendosi invadere da un sentimento di paura. — Non che serva a molto. Lui, le sue decisioni le prende da sé. E poi dubito che sia in grado di influenzare qualcuno… — Si interruppe, vedendo Baxter che scuoteva negativamente la testa.

— Non intendevo questo. Voi conoscete tutte le persone coinvolte in questa faccenda. Le andate a trovare. Avete perfino visitato l’Istituto Atomico…

— E questo, chi ve l’ha detto?

— … dunque ne sapete assai più su ciò che sta accadendo di chiunque altro che non sia ufficialmente legato al progetto. Ci sono alcune cose che vorrei chiedervi…

— No — disse lei, senza fiatò, balzando in piedi. — Non posso fare quello che mi domandate. Non sarebbe onesto! Datemi il mio passaporto, per favore. Ora devo andarmene.

Senza sorridere, Baxter lasciò cadere il documento in un cassetto che chiuse a chiave. — Devo trattenerlo. È una pura formalità. Per controllare il numero. Tornate da me la settimana prossima. L’impiegata vi darà un appuntamento. — La precedette alla porta e posò la mano sulla maniglia. — Siamo in guerra, Martha, in tutto il mondo. E tutti noi siamo come soldati al fronte. Ad alcuni si chiede più che ad altri, ma in guerra succede appunto così. Voi siete americana, Martha… non dovete scordarvelo mai, in nessun momento. Non potete dimenticare la vostra patria e i doveri che avete verso di essa.

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