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— Insomma, non voglio riceverli — disse Arnie, in piedi accanto all’alta finestra che dava sul parco attiguo all’università. Le querce cominciavano già a cambiare colore: l’autunno arriva presto in Danimarca. Tuttavia lo scenario di foglie d’oro e tronchi scuri stagliati contro il pallido cielo nordico era piacevolmente animato: batuffolini di nuvole bianche si muovevano con grazia dignitosa sopra i tetti di tegole rosse della città, e gli studenti si avviavano frettolosi lungo i sentieri verso le aule.

— Sarebbe tutto più facile, se tu accettassi — disse Ove Rasmussen, seduto alla grande scrivania, nel suo studio di professore, con tutti i suoi diplomi e i suoi attestati di merito incorniciati e appesi alla parete come insegne araldiche. Poi, abbandonandosi contro lo schienale della profonda sedia rivestita di cuoio, si voltò a guardare l’amico ritto accanto alla finestra.

— È davvero tanto importante? — domandò Arnie girandosi, le mani sprofondate nelle tasche del camice bianco da laboratorio. Sulla manica si notavano macchie di unto e sul polsino spiccava un foro orlato di bruno, prodotto dalla scintilla di un saldatore di rame.

— Temo proprio di sì. I tuoi soci israeliani sono impazienti di sapere che cosa ti è successo. Hanno ricostruito i tuoi spostamenti con l’aiuto di un tassista. Hanno scoperto che sei partito per Belfast con un volo della SAS, ma che non sei mai arrivato là. E poiché l’unica fermata intermedia era qui, a Copenaghen, è stato impossibile nascondere la tua attuale residenza, anche se, come mi è stato detto, il personale dell’aeroporto li ha tenuti a bada per un bel pezzo.

— Quel Jørgensen avrebbe fatto meglio a guadagnarsi lo stipendio che si mette in tasca…

— È proprio quello che ha tentato di fare. È stato tanto caparbio che per poco non è scoppiato un incidente internazionale, prima che il ministro degli interni ammettesse che eri qui. Ora insistono per parlare con te.

— E perché, poi? Sono un libero cittadino e posso andare dove mi pare.

— E tu diglielo! Si sono lasciati sfuggire oscuri accenni a un rapimento…

— Cosa? Credono che i danesi siano arabi, o qualcosa del genere?

Ove scoppiò a ridere, contorcendosi sulla sedia, mentre Arnie si avvicinava, furente, e si fermava davanti alla scrivania.

— No, niente di simile — rispose. — Sanno, per via ufficiosa, che tu sei venuto qui spontaneamente e che nessuno ti ha torto un capello. Ma sono curiosi di sapere perché lo hai fatto, e decisi a non andarsene senza avere avuto una risposta. Proprio ora c’è una commissione ufficiale al Royal Hotel. Dicono che rilasceranno dichiarazioni alla stampa, se non potranno vederti.

— Questo non deve succedere — mormorò Arnie, preoccupato.

— È quello che pensiamo anche noi. Ecco perché ti si prega di ricevere gli israeliani e di confermare che tu stai benone e che possono tornarsene a casa col prossimo volo. Nient’altro.

— Non ho alcuna intenzione di aggiungere altro! E chi hanno mandato?

— Quattro persone, ma credo che tre siano soltanto comparse. Mi sono intrattenuto con loro quasi tutta la mattina, e ho potuto constatare che l’unico che avesse una certa autorità era il generale Gev…

— Buon Dio! Proprio lui!

— Lo conosci?

— Anche troppo bene. E lui conosce me. Preferirei parlare con chiunque altro.

— Temo proprio che non ti sarà possibile. Gev è lì fuori, che aspetta di vederti. Ha dichiarato che, se non riuscirà a parlare con te, si rivolgerà immediatamente alla stampa.

— E gli puoi credere. Ha imparato a combattere nel deserto. La miglior difesa è l’attacco! È meglio accontentarli e farla finita. Ma non lasciarmi solo con lui più di quindici minuti. Sarebbe capace di convincermi a seguirlo.

— Ne dubito. — Ove si alzò e indicò la sua sedia. — Siediti lì, e metti la scrivania fra voi due. Dà sempre una certa impressione di forza. E poi, lui dovrà sedersi sulla sedia di quando ero studente, che è dura come la pietra.

— Se anche fosse un cactus, quello non farebbe una piega — rispose Arnie, depresso. — Tu non lo conosci come lo conosco io.

La porta si richiuse, e ci fu silenzio. Di quando in quando, il richiamo gioioso di qualche studente penetrava attutito attraverso i doppi vetri della finestra. Nell’interno della stanza si poteva udire distintamente il tic-tac dell’orologio di Bornholm. Arnie fissava senza vederle le proprie mani posate sulla scrivania davanti a sé, e si domandava che cosa avrebbe risposto a Gev. Doveva sbottonarsi il meno possibile.

— Una bella distanza da Tel Aviv — disse all’improvviso una voce, in un ebraico gutturale. Arnie alzò lo sguardo sbattendo le palpebre, e vide che Gev era già entrato e aveva richiuso la porta. Il generale indossava abiti borghesi, ma li portava con la rigidezza di un’uniforme militare. Il suo viso era abbronzato, solcato dalle rughe e scuro come il legno di noce: la lunga cicatrice che gli attraversava la guancia partendo dalla fronte sollevava l’angolo della bocca in un perpetuo mezzo sorriso.

— Entrate, Avri, entrate. Accomodatevi.

Gev ignorò l’invito e attraversò la stanza a lunghi passi, come per una parata militare; poi si fermò davanti ad Arnie, torreggiandogli sopra, come se il professore fosse un subalterno sorpreso con la divisa in disordine.

— Sono venuto per riportarvi a casa, Arnie. Siete uno dei nostri maggiori scienziati e il paese ha bisogno di voi.

Nessuna incertezza, nessun appello ai sentimenti di Klein, ai suoi parenti o amici. Il generale Gev aveva impartito un ordine, nello stesso tono con cui aveva comandato ai carri armati, ai reattori, ai soldati di lanciarsi all’assalto. Doveva essere ubbidito. Per poco Arnie non si alzò dalla sedia e lo seguì, tanto era imperioso quel comando; ma ormai aveva preso la sua decisione, e non ci sarebbe tornato sopra mai più.

— Mi spiace Avri, ma qui sono e qui ho intenzione di restare.

Gev se ne stava eretto, con lo sguardo fiammeggiante e le braccia penzoloni lungo i fianchi; ma le dita erano contratte come se stessero per protendersi, afferrare Arnie materialmente e tirarlo in piedi. Poi, con immediata decisione, si voltò, sedette sulla sedia che l’aspettava e accavallò le gambe. Il suo assalto frontale era stato respinto; voltò il fianco e si accinse ad attaccare un settore più vulnerabile. Senza mai staccare lo sguardo dal professore, prese di tasca un portasigarette d’oro tanto grande da apparire volgare, e lo aprì con uno scatto. Dentro era raffigurata, in smalto, la bandiera della Repubblica Araba Unita, con le due stelle verdi ricavate da smeraldi. Un foro di proiettile attraversava, senza slabbrature, l’astuccio.

— C’è stata un’esplosione nel vostro laboratorio — disse Gev. — Eravamo molto preoccupati. Dapprima abbiamo pensato che foste morto, poi ferito, poi… che vi avessero rapito. I vostri amici sono stati molto in pena…

— Non era nelle mie intenzioni.

— …e non solo gli amici, anche il governo. Voi siete israeliano e lavoravate per Israele. Manca una cartelletta. Il frutto del vostro lavoro è stato sottratto al vostro paese.

Gev accese una sigaretta e aspirò profondamente, proteggendone l’estremità accesa con le mani unite a coppa, col gesto caratteristico dei militari. Il suo sguardo non abbandonava mai la faccia di Arnie, e il viso era impassibile come una maschera; gli occhi però, erano accusatori, penetranti. Arnie allargò le mani in un gesto goffo, poi le strinse di nuovo, sul piano della scrivania.

— Non è stato sottratto. Si tratta di roba mia, e io me la sono portata dietro quando sono partito. Quando sono partito di mia spontanea volontà per venire qui! Sono spiacente che voi… abbiate una cattiva opinione di me. Ma ho fatto quello che dovevo fare.

— Di che appunti si trattava? — La domanda risuonò fredda e dura, penetrando in profondità.

— Erano… il mio lavoro. — Arnie si sentiva aggirato, sconfitto e non poteva rifugiarsi nel silenzio.

— Suvvia, Arnie. Non è una risposta esauriente. Voi siete un fisico, e il vostro lavoro è attinente alla fisica. Non possedevate esplosivi, eppure siete riuscito a far saltare in aria un’attrezzatura del valore di parecchie migliaia di sterline. Che cosa avete inventato?

Il silenzio si protrasse, e il professore non poté far altro che fissare desolato le proprie mani contratte, con le nocche che impallidivano sempre più. La parole di Gev incalzavano, spietate.

— Perché questo silenzio? Avete paura? Non avete nulla da temere da parte di Israele, che è la vostra patria. I vostri amici, il vostro lavoro, la vostra vita sono là. Avete sepolto là vostra moglie. Diteci che cosa non va, e vi aiuteremo. Venite da noi, e vi aiuteremo.

Le parole di Arnie caddero come pietre fredde nel silenzio pesante.

— Io… non posso.

— Dovete. Non avete possibilità di scelta. Siete un israeliano e il frutto del vostro lavoro è israeliano. Siamo circondati da un mare di nemici… e ogni uomo, ogni pezzo di materiale, ha un’importanza vitale per la nostra esistenza. Avete scoperto qualcosa di possente, qualcosa che ci aiuterà a sopravvivere. Volete sottrarcelo e vederci perire tutti? Città e sinagoghe rase al suolo, trasformate in deserto? È questo che volete?

— Sapete che non è vero! Gev, lasciatemi in pace, uscite di qui e tornatevene…

— No, non lo farò! Non vi lascio in pace. Sono la voce della coscienza. Tornate a casa. Vi accoglieremo con gioia. Aiutate noi, ora, come noi vi abbiamo aiutato!

— No!!! È proprio questo che non posso fare! — Le parole gli uscirono faticosamente dalla bocca, in un ansito di pena. Poi Arnie continuò rapidamente, come se la diga che arginava i suoi sentimenti avesse ceduto e non potesse più fermarli.

— Ho scoperto qualcosa… ma non vi dirò come, né perché, né che cosa… Una forza. Chiamatela una forza, qualcosa che forse è, o che potrebbe diventare, più potente di tutto ciò che oggi conosciamo; e che, data la sua natura, potrà essere impiegata in bene o in male, se riuscirò a dominarla. E credo che questo mi sarà possibile. Voglio che sia usata per il bene…

— Dunque Israele sarebbe il male! Come osate insinuarlo?

— No, ascoltatemi fino in fondo. Non ho detto questo. Voglio dire soltanto che Israele… Nessuno sta dalla sua parte! Pensate al petrolio. Gli arabi hanno il petrolio. Russi e americani lo vogliono e sono pronti a tutto pur di ottenerlo. Nessuno si preoccupa di Israele, tranne gli arabi, che vorrebbero vederla distrutta, e le grandi potenze mondiali, che desiderano trovare il modo di estrarsi senza far rumore quella spina nel fianco. Il petrolio! Scoppierà la guerra, accadrà qualcosa, e se voi aveste… «quella»… quella cosa di cui stiamo parlando, la usereste per distruggere. Magari con le lagrime agli occhi, ma la usereste… E sarebbe un male terribile!

— Allora — mormorò il generale in un soffio — per il vostro orgoglio, per la vostra ambizione personale, voi ci sottraete questa forza e starete a vedere il vostro paese perire? Nel vostro supremo egocentrismo vi ritenete più qualificato a prendere decisioni politiche che non i rappresentanti eletti dal popolo? Vi ponete sopra un piedestallo. Siete unico e vi ritenete in grado di decidere cose importanti meglio di tutti gli altri comuni mortali. Certo dovete credere nella tirannia assoluta, nella vostra tirannia. La vostra arroganza, vi ha trasformato in un piccolo Hitler…

— Tacete! — gridò Arnie, rauco, alzandosi a metà dalla sedia. Cadde il silenzio. Poi lo scienziato tornò a sedersi, lentamente, con la faccia in fiamme e le tempie che gli martellavano come una mitragliatrice. Dovette fare un grande sforzo su se stesso per parlare con calma.

— E va bene. Avete detto alcune cose giuste. Se intendete affermare che io non credo più nella democrazia, ditelo pure. È proprio così, almeno in questo settore. Ho preso da solo una decisione, e la responsabilità è tutta mia e mia soltanto. Forse si tratta di una scusa, ma preferisco considerare ciò che ho fatto un atto di umanità…

— Anche l’eutanasia è un atto umanitario — replicò Gev, con voce incolore.

— Certo, avete ragione. Non ho proprio attenuanti. Ho agito di mia spontanea volontà e assumo ogni responsabilità del mio operato.

— Anche se Israele verrà distrutto per la vostra imprudenza?

Arnie aprì la bocca per rispondere, ma non uscirono parole. Che cosa c’era da dire? Gev l’aveva accerchiato da ogni parte: la ritirata era impossibile; le difese, distrutte. Che altro poteva fare, se non arrendersi? Gli restava soltanto la convinzione di aver agito bene, guardando al futuro. Una convinzione, però, che aveva il terrore di analizzare meglio, per paura di scoprirla falsa. Il silenzio si faceva sempre più fondo, e un’immensa tristezza avvolse Arnie, che si abbandonò sulla sedia.

— Faccio ciò che devo fare — disse, finalmente, con voce rauca per l’emozione. — Non tornerò. Ho lasciato Israele volontariamente, come volontariamente ci ero andato. Non avete nessun potere su di me, nessuno. Gev…

Il generale si alzò, e guardò la testa china del professore. Le parole salirono lentamente alle labbra, e quando furono pronunciate c’era in esse l’eco di tremila anni di persecuzioni, di morte, di lutti, di una grande, infinita tristezza.

— Voi, un ebreo, potete fare questo?

Non c’era alcuna risposta da dare, e Arnie rimase in silenzio. Ma Gev era tanto soldato da capire quando la sconfitta si profilava inevitabile, anche se non riusciva a scorgerne le cause. Voltò le spalle e non disse nulla. Che altro avrebbe potuto fare, se non voltare le spalle e andarsene? Aprì la porta spingendola con la punta delle dita e non la toccò di nuovo per richiuderla o sbatterla: uscì senza esitazioni, eretto, a passo di marcia. Un uomo che aveva perso una battaglia, ma che non avrebbe mai perso una guerra senza morire.


Ove rientrò e gironzolò per la stanza, riordinando i mucchi di riviste, prendendo un libro solo per rimetterlo subito a posto senza averlo neppure aperto, e si comportò così per alcuni minuti, senza parlare. Quando finalmente parlò, si limitò a dire: — Senti, è una giornata splendida. C’è il sole, e la visibilità è ottima per chilometri e chilometri. Le gonne delle ragazze in bicicletta si gonfiano come palloni. Io ne ho abbastanza di questi spuntini indecenti da latteria e non me la sento di affrontare un altro panino imbottito… andiamo al Langelinie Pavillonen e pranziamo là. Guarderemo passare le navi. Che ne dici?

C’era uno sguardo spento negli occhi di Arnie, quando questi alzò la testa. Non era un tipo abituato a sopportare emozioni violente, non aveva difesa e non sapeva come affrontare ciò che ora sentiva. Il dolore dipinto sul suo viso era così vivo, che Ove dovette voltarsi e ricominciare a trafficare con le riviste appena messe in ordine.

— Sì, se vuoi, possiamo pranzare fuori. — La voce di Arnie era vuota di un’emozione che i suoi lineamenti non riuscivano però a nascondere.

I due uomini uscirono, percorsero in auto, senza parlare, Nørre Alle e attraversarono il parco. Era proprio come aveva detto Ove… Le ragazze pedalavano sulle loro alte biciclette nere e accendevano lampi di colore nella massa monotona delle giacche maschili. Passavano accanto all’auto, sulle banchine riservate alle biciclette ai lati dell’ampia strada, e sciamavano poi in file ordinate agli incroci. Le lunghe gambe pedalavano, le gonne si sollevavano liberamente, ed era davvero un bel pomeriggio… Ma Arnie portava in sé il ricordo della sua grande infelicità. Ove pilotò abilmente la piccola Sprite nel flusso di veicoli e percorse Øserbrogade fino alla banchina. Poi approfittò con prontezza di una breccia nel traffico della Langelinie e si fermò sul retro del ristorante Pavillonen. Era presto, e i due amici riuscirono ad ottenere un tavolino presso la grande vetrata che prendeva tutta una parete. Ove chiamò il cameriere e ordinò il pranzo prima ancora di sedersi. Pochi attimi dopo apparvero una bottiglia di akvavit, in un blocco di ghiaccio, e un paio di birre gelate.

— Ecco qui — disse Ove, mentre il cameriere riempiva due grossi calici di snaps. — Scommetto che non ne hai gustata molta, di questa, a Te! Aviv.

Skal — dissero insieme, come d’uso. E scolarono i bicchieri. Poi Arnie, mentre sorseggiava la birra, guardò la nave traghetto bianca e nera che faceva servizio per la Svezia, e che in quel momento passava di lì, imponente. Gli autobus aspettavano pazientemente, in fila, mentre i turisti salivano sulle rocce per la rituale visita alla statua della Sirenetta, con la macchina fotografica pronta in mano. Dietro ad essi, le bianche vele di piccoli panfili provenienti dalla darsena tagliavano l’azzurro freddo del Sound. Il mare! Non ci si può allontanare dal mare più di sessantaquattro chilometri, in Danimarca; è la nazione marinara, per eccellenza. I bianchi triangoli delle vele sembravano avviliti da un grande transatlantico ancorato a Langeliniekaj, tutto palpitante di bandiere da segnalazione e vessilli, che gli davano un’aria scanzonata. All’improvviso, un pennacchio di fumo uscì dal fumaiolo anteriore. Un momento dopo si udì distintamente il gemito lontano della sirena.

— Una nave — disse Arnie. Ora che ripensava al suo lavoro, sembrava che ogni traccia di ciò che aveva sofferto fosse scomparsa. — Ci occorre una nave. Quando vorremo provare un… — Esitò, e tutti e due si guardarono attorno senza girare la testa, come cospiratori. Quindi Klein aggiunse, a voce bassissima: — Un apparecchio più grande. Il primo è troppo piccolo, serve solo a dimostrare una teoria. Ma un apparecchio di dimensioni maggiori dovrà essere sperimentato su vasta scala, per poter appurare se ci troviamo di fronte a qualcosa di più di una banale dimostrazione da laboratorio, capace solo di far saltare in aria l’attrezzatura.

— Funzionerà. Ne sono certo.

Arnie torse la bocca e allungò la mano per prendere la bottiglia.

— Beviamo ancora qualcosa — disse.

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