11

Le acque grigie del Baltico mugghiavano contro i fianchi della Vitus Bering, frangendosi in tappeti di schiuma che venivano rapidamente lasciati indietro; un gabbiano volava battendo le ali lentamente, nell’ottimistica attesa che qualche rifiuto venisse gettato in mare. Arnie se ne stava appoggiato al parapetto e gustava l’aria tagliente del mattino, dopo una notte trascorsa nell’atmosfera stantia della cabina; il cielo, che mostrava ancora una striscia rossa ad est dove il sole si alzava sopra l’orizzonte, era quasi completamente senza nubi e la sua cupola azzurra riposava sulla superficie mossa del mare. Ad un tratto una porta si aprì, e Nils uscì sul ponte, sbadigliando e stiracchiandosi. Si guardò intorno, sbirciando con occhio clinico da sotto la visiera del berretto dell’uniforme delle forze aeree, che aveva sostituito quello della SAS, e sentenziò: — Mi sembra il tempo adatto per volare, professor Klein.

— Chiamatemi Arnie, per favore, capitano Hansen. Come compagni di volo in questo viaggio importante, credo che dovremmo mettere da parte le formalità.

— E voi chiamatemi Nils, allora. Naturalmente, avete ragione. Perbacco, se è importante! Comincio ad accorgermene solo ora. Anche se tutto è stato accuratamente progettato, quando penso che dopo la prima colazione partiremo per la Luna e che dovremmo essere di ritorno prima di pranzo… È difficile crederci. Venite, mangiamoci qualcosa prima che gli altri facciano fuori tutto.

Ce n’era più che a sufficienza, di cibo. Nils sparse la farina d’avena cruda sopra i cornflakes e innaffiò tutto col latte, secondo l’uso scandinavo. C’erano anche uova sode, quattro tipi di pane, un piatto di formaggio, prosciutto e salame. E, per chi disponesse di un appetito ancora più robusto, c’erano tre tipi di aringhe. Arnie, abituato alla leggera colazione di Israele, prese solo del pane nero con un po’ di burro e una tazza di caffè. Guardava affascinato il gigantesco pilota, che assaggiava tutto e poi si serviva una seconda volta. Infine arrivò Ove, che si versò il caffè e li raggiunse.

— Noi tre costituiremo l’equipaggio — disse. — È deciso. Sono rimasto alzato metà della notte per convincere l’ammiraglio Sander-Lange, che finalmente ha compreso il mio punto di vista.

— E quale sarebbe? — domandò Nils, con la bocca piena di aringa e rugbrød imburrato. — Sono pilota e dovete scegliermi per forza: ma che ci stanno a fare due fisici importanti come voi a bordo?

— Ci sono due dispositivi completamente separati — rispose Ove, con la prontezza acquisita discutendo per metà della notte. — La propulsione Daleth e il generatore a fusione. Entrambi richiedono l’attenzione costante di un esperto, e si dà il caso che noi due siamo le sole persone adatte a quel compito; due «tecnici specializzati», che hanno una funzione molto importante. Se il Blaeksprutten è in grado di volare, soltanto noi possiamo indurlo a farlo. A questo punto non si può tornare indietro. Il nostro rischio è davvero minimo, paragonato alla morte certa di quei cosmonauti sulla Luna. Ed è anche questione d’onore, ora. Sappiamo di potercela fare e dobbiamo tentare.

— Onore danese — disse Nils con gravità. Poi scoppiò a ridere. — Questo lascerà i russi di stucco! Quanti abitanti ci sono nel loro paese? Duecentoventisei o duecentoventisette milioni, troppi per contarli tutti. E quanti, in Danimarca?

— Poco più di cinque milioni.

— Esatto, molto meno che nella sola Mosca. Dunque i russi organizzano le parate, lanciano i razzi, fanno i loro bravi discorsi… e infine ia pentola si rovescia e tutto il sugo esce fuori. Ed ecco che noi arriviamo a raccogliere i cocci!

Gli ufficiali della nave, seduti al tavolo accanto, che erano rimasti in silenzio mentre Nils alzava la voce pieno di entusiasmo, esplosero in un applauso, ridendo forte. Quell’impresa stuzzicava il senso dell’umorismo danese. La Danimarca era un paese piccolo, ma immensamente orgoglioso, con una storia lunga e affascinante, che durava un migliaio d’anni. E, come tutti i paesi del Baltico, temeva la presenza dell’Unione Sovietica che se ne stava al di là di quel piccolo mare poco profondo. Certo quel tentativo di salvataggio sarebbe stato ricordato per molto tempo.

Ove guardò l’orologio e si alzò.

— Mancano meno di due ore al nostro primo conto alla rovescia. Vediamo se possiamo farcela.

Terminarono rapidamente di mangiare e salirono sul ponte. Il sottomarino era già fuori dal compartimento e galleggiava sull’acqua, mentre i tecnici compivano gli ultimi controlli a bordo.

— Dopo tutte queste trasformazioni, quel veicolo dovrebbe cambiare nome — disse Nils. — Den Flyvende Blaeksprutte, magari… La Seppia Volante. Suona davvero bene.

Henning Wilhelmsen risalì sulla nave, scavalcando il parapetto, e si unì agli altri. Poiché conosceva bene il sottomarino, aveva diretto i lavori di modifica e l’impianto delle nuove installazioni.

— Non so che cosa sia diventato ora… Un’astronave, forse. Certo non ha più niente a che fare con quello che era in origine. Niente apparato motore, nessuna trasmissione. Ho dovuto togliere il motore per far posto a quel grosso bidone pieno di fili. E ho perfino praticato dei fori nello scafo resistente alla pressione! — Quest’ultimo delitto era paragonabile alla fine del mondo, per l’equipaggio di un sottomarino.

— Su con la vita! Voi avete fatto il vostro dovere. L’avete trasformato da umile larva in una farfalla dei cieli.

— Molto poetico. — Henning non si rasserenò. — Per adesso, ha più della falena notturna che di una farfalla. Abbiatene cura.

— Di questo potete esserne sicuro — dichiarò Nils, con convinzione. — La mia pelle mi preme assai e la Seppia Volante è l’unico mezzo di trasporto a disposizione. Tutto finito?

— Tutto a posto. Ora avete un altimetro aneroide e un radioaltimetro. Serbatoi di ossigeno extra, impianto per la rigenerazione dell’aria e un’antenna esterna più grande: tutto quello che avevate chiesto, e anche di più. Vi abbiamo perfino preparato il pranzo a bordo e l’ammiraglio ha offerto una bottiglia di snaps. Pronto per la partenza. — Allungò una mano e strinse quella del pilota. — Buona fortuna.

— Arrivederci a stasera.

Ci fu un gran numero di strette di mano, poi furono date le istruzioni dell’ultimo minuto. Un forte applauso accompagnò gli uomini mentre salivano a bordo e chiudevano il portello. Sulla torretta di comando era stata dipinta una bandiera danese che brillava nel primo sole del mattino.

— Tenuta stagna perfetta — disse Nils, dando un giro in più all’ingranaggio che sigillava il boccaporto del ponte di plancia.

— E il boccaporto in cima alla torretta di comando? — domandò Ove.

— Chiuso, ma non sigillato, come avete detto voi. L’aria uscirà dalla torretta molto prima che noi si arrivi là.

— Bene. È quanto di più simile a una camera stagna siamo riusciti a mettere insieme in così breve tempo. Ora sappiamo tutti con esattezza che cosa fare e come farlo?

— Io, sì — brontolò Nils — ma sento la mancanza di una lista di controllo.

— Neanche i fratelli Wright l’avevano. La lasceremo a quelli che verranno dopo di noi. Arnie, possiamo ricapitolare ancora una volta?

— Sì, certo. Il conto inizierà soltanto fra dieci minuti. — Fece un passo avanti e guardò fuori dall’oblò. — La nave si sta allontanando per darci molto spazio. — Poi indicò i comandi che stavano di fronte a Nils, quasi tutti montati di recente sul pannello. — Nils, voi sarete il pilota. Ho sistemato qui i comandi che vi serviranno a modificare la rotta. Li avete già provati, dunque sapete come funzionano. Dovremo lavorare insieme durante i decolli e gli atterraggi, perché saranno effettuati per mezzo della propulsione Daleth, che farò funzionare io. Ove rappresenta la nostra sala macchine, e si preoccuperà di farci avere una fornitura costante di corrente. Le batterie ci sono ancora, cariche, ma le terremo in serbo per i casi di emergenza, che spero ardentemente non si verificheranno. Effettuerò un decollo verticale e usciremo dall’atmosfera. Voi, Nils, ci metterete, e ci manterrete, sulla rotta giusta. Io controllerò l’accelerazione. Se il computer dell’università collegato col radar funzionerà a dovere, dovrebbero saperci dire quando invertire la spinta. Se non ce lo diranno loro, dovremo servirci del cronometro e fare del nostro meglio da soli.

— Una cosa non capisco — disse Nils, spingendo indietro il berretto sulla nuca e indicando il periscopio. — Questo è un vecchio periscopio subacqueo, modificato in modo da farlo guardare in alto invece che di fronte. Dentro c’è un reticolo. Io dovrei tenere una stella al centro del reticolo; vorreste farmi credere che per navigare non è necessario altro? Non avremmo bisogno anche di un «navigatore»?

— Di un astronavigatore, per essere precisi.

— Va bene, un astronavigatore. Insomma qualcuno che possa calcolare la rotta.

— Qualcuno in cui possiate avere un po’ più di fiducia che nel periscopio, volete dire? — disse Ove, ridendo. E aprì la porta del compartimento macchine.

— Esattamente. Sto pensando a tutte le correzioni di rotta, a tutti i calcoli che americani e sovietici hanno dovuto fare per arrivare sulla Luna. Basterà davvero quell’aggeggio?

— Noi abbiamo alle spalle quei calcoli, rendetevene conto. Ma li applichiamo con semplicità assai maggiore, a causa della breve durata del nostro viaggio. A parte il tempo richiesto per attraversare l’atmosfera a una velocità iniziale più bassa, il nostro volo avrà la durata di quattro ore esatte. Tenendo presente questo, sono state scelte come punto di riferimento alcune stelle ben visibili ed eseguiti altri calcoli. Se partiremo al momento giusto, orientandoci sempre sulla stella-guida, ci dirigeremo verso il punto dell’orbita lunare che si troverà in quella data posizione al termine delle quattro ore. E giunti puntualmente all’appuntamento, potremo effettuare la discesa. Dopo aver individuato la capsula sovietica, naturalmente.

— E tutto si svolgerà con tanta facilità? — fece Nils, non troppo convinto.

— Perché no? — rispose Ove, cacciando fuori la testa dal compartimento macchine e ripulendosi le mani con uno straccio. — Il generatore è in funzione e l’energia erogata è del tutto soddisfacente. — Indicò la grande fotografia della Luna, incollata sulla paratia di fronte, e aggiunse: — Santo cielo! Tutti sappiamo com’è fatta la Luna, tutti l’abbiamo guardata attraverso un telescopio! E siamo in grado di localizzare il Mare della Tranquillità. Arriveremo là, nel posto esatto, e, se non avvisteremo subito i sovietici, ci serviremo del radiogoniometro per localizzarli.

— E in che punto del Mare della Tranquillità li cercheremo? Ci fidiamo di questa? — Nils indicò la foto confusa della Luna che era stata ritagliata dalla Pravda. C’era una stella rossa stampata a nord del «mare», dove erano scesi i cosmonauti. — La Pravda dice che sono lì. E noi ci orientiamo basandoci sulla foto di un giornale?

— Proprio così, a meno che abbiate voi da proporci qualcosa di meglio — rispose Arnie garbatamente. — E non dimenticate che il nostro radiogoniometro è un modello standard per piccole imbarcazioni, acquistato in un normale negozio di forniture nautiche. Vi preoccupa anche questo? Nils aggrottò la fronte, poi scoppiò a ridere. — È tutto così pazzesco, che per forza l’impresa deve riuscire! — Si abbottonò la giacca. — Blaeksprutten, al salvataggio! — gridò.

— È tutto assai più sicuro di quel che sembra — disse Ove. — In primo luogo, questo sottomarino è una nave spaziale a tenuta stagna, sperimentata, collaudata, autonoma; è stata costruita, sì, per un diverso tipo di spazio, ma lavora bene nel vuoto quanto nell’acqua. E poi la propulsione Daleth è degna di fiducia e ci porterà sulla Luna in poche ore. Inoltre il radar e il calcolatore, sulla Terra, calcoleranno per noi la rotta che dovremo seguire. Sono state prese tutte le precauzioni possibili perché il viaggio sia sicuro. In seguito si faranno altre spedizioni e gli strumenti verranno perfezionati, ma ora abbiamo tutto ciò che ci serve per andare e tornare con sicurezza. Dunque non preoccupatevi.

— E chi si preoccupa? — disse Nils. — Io sudo e impallidisco sempre, a quest’ora del giorno. Si parte?

— Ancora qualche minuto — disse Arnie, guardando il cronometro elettronico che gli stava davanti. — Ora decolleremo e prenderemo quota.

Le sue dita sfiorarono i comandi e i corpi cominciarono a premere sui sedili. Le onde si allontanarono. Sul ponte della Vitus Bering si vedevano minuscole figure salutare entusiasticamente con la mano. Poi le figure si rimpicciolirono sempre più e scomparvero alla vista, mentre il Blaeksprutten si levava sempre più veloce nel cielo.

La cosa più strana in quel viaggio, era la mancanza assoluta di imprevisti. Una volta usciti dall’atmosfera, accelerarono a un «G» costante. E un’accelerazione simile non dava sensazioni diverse da quelle date dalla gravità sulla superficie terrestre. Dietro a loro, come un giocattolo o un’immagine proiettata sopra un enorme schermo, la Terra si rimpiccioliva sempre più. E niente rumore assordante di razzi, rombo di motori, sballottamenti, vuoti d’aria… Poiché il sommergibile era a tenuta stagna perfetta, non si verificava neppure quel minimo abbassamento di pressione atmosferica che si produce sempre su un aereo di linea. Le attrezzature funzionavano alla perfezione e, una volta uscito dall’involucro atmosferico della Terra, il veicolo aumentò la velocità.

— Siamo in rotta… O almeno, stiamo puntando in direzione della stella-guida — disse Nils. — Ora potremmo metterci in collegamento con Copenaghen e vedere se ci seguono. Sarebbe simpatico sapere se proseguiamo nella direzione giusta. — Accese la ricetrasmittente sulla frequenza prestabilita e chiamò, usando il codice convenuto.

Kylling chiama Halvabe. Mi sentite? Passo. — Girò l’interruttore. — Vorrei sapere chi è l’ubriaco che ha inventato questi nomi — borbottò tra sè. Il sottomarino era il pollo, e l’altra stazione il lemure, ma quei nomi, in gergo, significavano anche bottiglia da un quarto e bottiglia da mezzo litro di acquavite.

— Vi sentiamo forte e chiaramente, Kylling. Siete in rotta, anche se la vostra accelerazione supera leggermente l’optimum. Consigliamo una riduzione del cinque per cento.

— Ricevuto. Eseguiremo. Ci seguite?

— Affermativo.

— Manderete il segnale di inversione?

— Affermativo.

— Passo e chiudo. — Staccò l’energia. — Sentito? Le cose non potrebbero andar meglio.

— Ho ridotto l’accelerazione del cinque per cento — disse Arnie. — Sì, tutto fila alla perfezione.

— Qualcuno vuol bere una birra? — domandò Ove. — Ne hanno caricato un’intera cassa, là dietro. — Passò una lattina a Nils, ma Arnie rifiutò.

— Sbrigatevi — disse. — Non siamo lontani dal momento dell’inversione e non posso garantire che non si verifichi un po’ di confusione. Potrei ridurre a zero la spinta, prima di voltare la nave, ma così verremmo a trovarci in caduta libera per un poco, e preferirei evitarlo, se possibile. A parte le nostre preferenze individuali, le attrezzature non sono state progettate per una manovra del genere. Cercherò invece di far ruotare la nave di centootto gradi, mantenendo la spinta in pieno. Dopo di che, cominceremo a decelerare.

— Giusto — disse Nils, guardando attraverso il periscopio e facendo una correzione precisa — ma… la nostra rotta? Dovremo forse servirci di quel tubo del gas sul ponte? Quello che ha gettato Henning nella disperazione per aver dovuto praticare un foro nello scafo resistente alla pressione?

— Esatto. C’è un sistema ad obiettivo grandangolare, con un congegno di mira ottico inserito dentro.

— Del tipo usato sugli aerei da combattimento per sparare?

— Proprio così. Terrete in centro la stella come prima. Non vedo difficoltà.

— Neanch’io. — Nils si guardò intorno nel sottomarino trasformato e scosse la testa. — Qualcuno può prendere il mio posto per un attimo? Devo andare là in fondo. La birra, sapete…

L’inversione fu compiuta senza inconvenienti, e gli astronauti non si sarebbero neppure accorti di stare girando se non avessero visto la luce del sole strisciare lungo il ponte e su per la paratia. Alcuni oggetti si spostarono rumorosamente, e una matita cadde sul pavimento.

Il tempo scorreva veloce. Il sole ardeva e i tre parlarono un poco delle tempeste solari e delle radiazioni di Van Alien. Queste non costituivano un serio pericolo poiché lo scafo del sottomarino era una solida barriera metallica, infinitamente più spessa delle pareti dei razzi fino ad allora lanciati.

— Avete pensato a come potremo comunicare con i cosmonauti? — domandò Ove. Se ne stava sulla soglia del compartimento macchine, da dove poteva sorvegliare il generatore a fusione e contemporaneamente parlare con i compagni.

— Sono tutti piloti — disse Nils — dunque conoscono certo l’inglese.

Ove non era d’accordo. — Se hanno volato fuori dal territorio nazionale — disse. — Dentro i confini dello stato, la Flotta Aerea dell’Unione Sovietica usa il russo. Soltanto nei voli internazionali è necessaria la conoscenza dell’inglese per il controllo radio. Ho trascorso sei mesi all’università di Mosca, e così sono in grado di farmi capire. Però speravo che voi sapeste parlare meglio di me.

— Io parlo solo ebraico, inglese, yiddish o tedesco — disse Arnie.

— Io soltanto inglese, svedese e francese — dichiarò Nils. — Credo proprio che tocchi a voi, Ove.

Come la maggior parte degli europei con istruzione a livello universitario, Arnie e compagni erano convinti che tutti dovessero conoscere almeno un’altra lingua oltre alla propria. Gli scandinavi ne parlavano facilmente anche due o tre. E sembrava impossibile che i russi non facessero altrettanto.

Il calcolatore seguiva il loro volo, e quando le quattro ore furono quasi completamente trascorse, i viaggiatori vennero informati da Terra che potevano azionare il radioaltimetro perché si stavano avvicinando al punto in cui avrebbe potuto funzionare. La sua portata massima era di centocinquanta chilometri.

— Ricevo un segnale a frange — disse Nils, emozionato. — La Luna è laggiù. — Dopo l’inversione non avevano più visto il satellite, che stava sotto la loro chiglia.

— Avvisatemi quando saremo a circa cento chilometri dalla superficie — disse Arnie. — Inclinerò la nave, così potremo sbirciare attraverso gli oblò laterali.

La tensione aumentava, ora, mentre il sottomarino spaziale si abbassava rapidamente verso la Luna, ancora invisibile sotto lo scafo.

— L’altimetro si svolge piuttosto rapidamente. — Il pilota, abituato a dominarsi, parlava in tono calmo, non rivelando la tensione che lo lacerava.

— Porto la decelerazione a due «G» — disse Arnie. — Tenetevi.

Provarono una strana sensazione, come se all’improvviso stessero diventando più pesanti: gli arti li trascinavano verso il basso, e il mento premeva sul petto. Le poltroncine scricchiolarono e il respiro degli uomini diventò faticoso. Nils allungò le mani verso i comandi e gli sembrò di avere dei pesi attaccati alle braccia. Pesava oltre centottanta chili, ora. — Ridurre la velocità di discesa — disse. — Ci avviciniamo ai cento chilometri. Ridurre la velocità di discesa fin quasi a zero.

— Resteremo fermi a questa quota, mentre cercheremo la zona che ci interessa — disse Arnie. Sentiva il proprio cuore battere forte, pompando faticosamente il sangue nella gravità raddoppiata. Ma quando ebbe regolato i comandi la sensazione di peso sparì, e sembrò a tutti di fluttuare liberamente. Il Blaeksprutten se ne stava immobile: erano entrati nel campo di attrazione gravitazionale della Luna, corrispondente a un sesto di quello terrestre. — Ora giriamo! — disse.

Gli oggetti liberi rotolarono sul pavimento e andarono a sbattere rumorosamente contro la parete, mentre la nave si inclinava; gli uomini si aggrapparono ai braccioli delle poltroncine. Una luce bianca entrò attraverso l’oblò.

Ih, du Almaegtige! — mormorò Nils. La Luna era lì. E riempiva tutto il cielo. A neanche centottanta chilometri sotto di loro. Butterata, segnata, morta e senz’aria… un altro mondo!

— Allora ce l’abbiamo fatta — esclamò Ove. — Fatta! — gridò, sempre più eccitato. — Per Diana, abbiamo attraversato lo spazio con questa carcassa e raggiunto la Luna! — Si slacciò la cintura e si levò in piedi, barcollando, sforzandosi di camminare nella bassa gravità. Scivolò, fu lì lì per cadere, e andò a sbattere contro la paratia mentre cercava di guardar fuori dall’oblò.

— Diamine, guardate! Copernico, il Mare delle Tempeste! Dove diavolo è il Mare della Tranquillità? A est, in quella direzione.

Si riparò con la mano gli occhi dalla luce riflessa, e aggiunse: — Ancora non lo vediamo, ma dev’essere là. Oltre la curva dell’orizzonte.

Silenzioso come una foglia che cade, il Blaeksprutten ritornò in posizione orizzontale, poi ruotò lungo un asse invisibile. Gli uomini dovettero appoggiarsi all’indietro per trovare l’equilibrio, mentre la prua si abbassava e la Luna riappariva, stavolta proprio di fronte.

— È un angolo sufficiente perché possiate «navigare»? — domandò Arnie.

— Sì. Da un aereo di linea la visibilità è peggiore.

— Allora mantengo la nave in questa posizione e a questa altezza, e passo a voi i comandi per gli spostamenti in avanti e di lato.

— Si parte… — canterellò Nils allegramente, mentre afferrava la leva di comando.


I tre cosmonauti scattarono sull’attenti, come meglio potevano, nello spazio ristretto del piccolo modulo. Le ultime note dell’Internazionale si spensero e l’altoparlante della radio si riempì di scariche.

— Riposo — ordinò Nartov. E gli altri due si lasciarono cadere sulle rispettive cuccette, mentre lui afferrava il microfono e lo metteva in funzione. — A nome dei miei compagni cosmonauti, vi ringrazio. Loro sono qui, dietro di me, e sono d’accordo con me nel raccomandare a voi, compagni cittadini dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, di non rammaricarvi. Questa è una vittoria per noi tutti: per il presidente del partito, per i membri del Presidium, per i lavoratori delle fabbriche dove sono state costruite le parti del razzo e della capsula montate poi da…

L’attenzione di Zlotnikov cominciò a vagabondare: non era mai stato amante dei discorsi, lui. Durante i ventotto anni trascorsi sulla Terra aveva dovuto ascoltarne per ore e ore. E adesso… anche sulla Luna! Erano un male inevitabile, come la neve d’inverno e la siccità d’estate. Che ti andasse o meno, non si poteva far niente. Meglio prendersela con filosofia, facendo appello al famoso fatalismo slavo. Era uno dei migliori piloti da combattimento, e uno dei pochi cosmonauti; e, per mantenersi a quella altezza, valeva ben la pena di fare qualsiasi sacrificio. I discorsi erano ancora il minore dei mali. Neppure la morte gli sembrava un prezzo troppo alto da pagare. Non aveva rimpianti; il gioco valeva la candela. Però avrebbe desiderato di potersene andare con qualche discorso in meno. La voce del colonnello ronzava, monotona, e lui guardò verso l’oblò, ma si affrettò a staccarne lo sguardo, perché almeno una parvenza di cortesia era indispensabile. Tuttavia il colonnello gli voltava le spalle, e col pugno destro chiuso segnava il tempo al forte ritmo delle proprie parole. Doveva essere un buon discorso. Perlomeno, al colonnello piaceva. Zlotnikov si girò ancora verso l’oblò… Un punto luminoso che si muoveva piano, in alto, attrasse bruscamente la sua attenzione. Una meteora? Che si spostava così lentamente?

— … e quanti morirono in battaglia per conservare la libertà alla nostra grande terra? L’Armata Rossa non esitò mai ad abbracciare la morte per un bene migliore, per la pace, la libertà, la vittoria. I cosmonauti sovietici dovrebbero forse ritirarsi davanti alle loro responsabilità, ignorare le realtà di… — Il colonnello si scosse rabbiosamente di dosso la mano indiscreta che gli stava battendo sulla spalla e continuò: — …le realtà del volo spaziale, della complessità…

— Colonnello!

— …La complessità del programma, le grandi macchine, le responsabilità… — Disturbarlo nel bel mezzo del suo discorso… Ma era impazzito, quel bastardo? — …a tutti i lavoratori sovietici che hanno reso possibile…

Il colonnello si girò di scatto, per zittire con uno sguardo di fuoco Zlotnikov. Ma lo sguardo seguì invece il dito di questi, puntato verso l’oblò e si spinse oltre il vetro spesso, attraverso il paesaggio senz’aria e tormentato dai crateri, fino al piccolo sottomarino che stava lentamente scendendo nel cielo pieno di stelle.

Il colonnello tossì, spalancò la bocca, si schiarì la gola e fissò con una specie di orrore il microfono che stringeva in mano. — Termineremo questo collegamento più tardi — disse bruscamente, girando l’interruttore. — Che cosa diavolo è quello? — tuonò.

Per ovvie ragioni, nessuno degli altri due rispose. Apparivano scossi, e se ne stavano lì, senza parlare. Si udivano soltanto il sibilo estremo dell’aria impoverita che usciva dalla griglia e, alla radio, il mormorio della musica lontana che qualcuno, laggiù sulla Terra, aveva ordinato alla banda di suonare per riempire l’imprevisto silenzio dei cosmonauti.

Lentamente il sottomarino si abbassò fino a una cinquantina di metri dalla capsula, e restò sospeso un po’ sopra il terreno ghiaioso, prima di posarsi definitivamente.

Aveva alcuni fili di alghe marine, completamente secche, impastate sulla chiglia, e sottili strisce di ruggine a poppa.

— Danesi? — mormorò Shavkun, indicando la bandiera dipinta sulla torretta di comando. — È danese, no? — Zlotnikov annuì, in silenzio. Poi si accorse che la sua mascella pendeva, inerte, e si affrettò a richiudere la bocca. La radio frusciò, sibilò e al di sopra della musica si udì una voce forte che parlava in pessimo russo.

— Hello, Vostok IV, mi sentite? Qui, Blaeksprutten. Siamo atterrati vicino a voi. Mi sentite? Passo.

Nartov fissò il microfono che stringeva in mano e fece l’atto di girare l’interruttore. Poi si trattenne, scosse la testa come per schiarirsi le idee e allungò una mano verso i comandi della radio. Solo dopo aver ridotto al minimo l’erogazione di energia, aprì il trasmettitore. Per un senso istintivo di difesa, preferiva che Mosca non ascoltasse il dialogo.

— Qui Vostok IV. Colonnello Nartov. Chi parla? Chi siete? Che cosa fate qui… — Il colonnello si interruppe bruscamente, sentendo che stava per mettersi a balbettare.

A bordo del Blaeksprutten, Ove ascoltò e annuì. — Contatto stabilito — disse agli altri. — Meglio sistemare quella tenda mentre io li invito a venire quassù. — Accese di nuovo la radio. — Govoreetye ve po Angleeskee? — domandò.

— Sì, parlo inglese.

— Benissimo colonnello — disse Ove, passando con un certo sollievo a quella lingua. — Ho il piacere di comunicarvi che siamo venuti qui per riportarvi sulla Terra. Nella vostra trasmissione di pochi minuti fa avete affermato che state tutti bene. È vero?

— Certo, ma…

— Benissimo. Se volete infilarvi le tute spaziali…

— Sì, ma dovete dirmi…

— Prima la cosa più importante, colonnello, per favore. Pensate di potervi infilare la tuta spaziale e venire qui per un minuto? Verrei io, ma sfortunatamente non abbiamo scafandri. Spero che non vi spiaccia.

— Vengo immediatamente. — Il messaggio terminò in un tono deciso.

— Non si può dire che il colonnello avesse l’aria felice del tipo che sta per essere salvato — commentò Nils, infilando una corda negli anelli di una grossa incerata distesa sul ponte. Era grigia e sciupata dalle intemperie, con un forte odore di pesce che le aleggiava attorno, forse perché era stata riposta vicino a campioni di fauna sottomarina, nella stiva della Vitus Bering.

— Felice lo sarà senz’altro — replicò Ove, aiutando gli altri a sollevare la pesante incerata. — Ma credo che gli ci vorrà un po’ per abituarsi all’idea. Era nel bel mezzo di una specie di discorso di addio, quando lo abbiamo interrotto.

Infilarono le funi anche negli anelli fissati al soffitto e sollevarono la tela, formando così una barriera grinzosa che tagliava a metà la piccola cabina nascondendo alla vista l’unità Daleth e il generatore a fusione.

— Meglio non assicurare questo lembo — disse Ove. — Devo passare di lì per arrivare al compartimento macchine.

— Non mi sembra un riparo molto efficace — dichiarò Nils.

— Basterà — replicò Arnie. — Questi uomini sono degli ufficiali e si presume che siano anche gentiluomini… E noi stiamo salvandogli la vita. Non credo che ci procureranno fastidi.

— Penso proprio di no… — Nils guardò attraverso l’oblò. — Ehi, il loro boccaporto sta aprendosi… e arriva qualcuno. Probabilmente il colonnello.

Nartov aveva indossato la tuta spaziale con movimenti meccanici, ignorando le ipotesi eccitate degli altri due cosmonauti, poi si era levato in piedi, lasciando che loro gli controllassero e sigillassero lo scafandro. Ora, mentre percorreva a balzi gli ultimi metri sulla superficie della Luna, si stava completamente riprendendo: ciò che accadeva era senza dubbio reale. Non stavano più per morire. Lui avrebbe rivisto Mosca, sua moglie, la famiglia… Se quello strano veicolo era arrivato fin sulla Luna, poteva sicuramente tornare alla Terra. I particolari gli sarebbero stati spiegati in seguito; ora doveva preoccuparsi soprattutto di salvare la vita ai suoi uomini. Avanzò a testa alta verso il sottomarino, mentre la polvere e i sassolini sollevati dai suoi grossi stivali ricadevano immediatamente sulla superficie priva di atmosfera.

Lassù, dietro l’oblò rotondo, si scorgeva un uomo: portava un berretto a visiera, e indicava col dito verso il basso facendogli anche dei cenni col capo. Chi diavolo poteva essere?

Quando il colonnello si avvicinò, notò una scatola con un pesante coperchio, che era stata saldata frettolosamente allo scafo. Sopra stava scritto TENEØOH, in neri caratteri cirillici. Svitò la grossa vite che fermava il coperchio, aprì e prese il telefono che stava dentro. Premette con forza il microfono contro il casco, in modo che le vibrazioni della sua voce vi passassero attraverso; riusciva anche a capire l’uomo che stava all’altra estremità.

— Mi sentite, colonnello?

— Sì. — Il cavo era piuttosto lungo, e facendo un passo indietro Nartov, poté vedere l’interlocutore, dietro l’oblò.

— Bene. Sono il capitano Nils Hansen, delle Forze Aeree Danesi, nonché pilota senior della SAS. Vi presenterò gli altri quando salirete a bordo. Siete in grado di raggiungere quel ponte?

Il colonnello guardò in su, socchiudendo gli occhi per difendersi dal riflesso. — Ora no, ma possiamo assicurare una fune, lavorando tutti insieme. O qualcosa del genere. La gravità è minima.

— Non dovrebbe essere difficile. Una volta sul ponte, vedrete un boccaporto non sigillato in cima alla torretta di comando. La torretta è grande appena quanto basta a contenere tre uomini, e dovrete entrare tutti in una volta, poiché non è una vera e propria camera stagna. Entrate e sigillate il boccaporto alla sommità meglio che potete. Poi picchiate tre colpi sul ponte. Lasceremo entrare l’aria. Ce la fate?

— Sì, certo.

— Potete portare con voi tutto l’ossigeno che vi è rimasto? Non vorremmo restarne a corto durante il viaggio di ritorno. Dovremmo averne a sufficienza, ma se ce n’è altro, è meglio.

— Lo faremo. Ci resta un solo cilindro, aperto da poco.

— Un’ultima cosa, prima che ve ne andiate. Abbiamo a bordo… un’attrezzatura segreta, nascosta dietro una semplice tenda. Vorremmo pregarvi di non avvicinarvi a essa.

— Avete la mia parola — disse il colonnello, ergendosi orgogliosamente. — E i miei ufficiali vi daranno la loro. — Guardò l’uomo dalla faccia lunga che gli sorrideva attraverso l’oblò e, per la prima volta, la grandezza di quel salvataggio in extremis lo colpì. — Vorrei ringraziarvi a nome di noi tutti, per averci salvati.

— Noi siamo lieti di trovarci qui. E lietissimi di avervi aiutato. Ora…

— Torneremo tra pochi minuti.

Quando fu vicino alla capsula, il colonnello vide due facce che lo fissavano attraverso l’oblò, una accanto all’altra e schiacciate contro il vetro, come quelle di bambini davanti alla vetrina di una pasticceria. Fu sul punto di sorridere, ma si trattenne.

— Indossate le tute — disse, quando ebbe attraversato la camera stagna. — Ce ne andiamo a casa. Quei danesi ci portano con loro. — Poi accese la radio e afferrò il microfono, per porre fine alle domande incoerenti dei compagni. La banda lontana ora suonava un’altra marcia, che si affievolì e si spense quando partì la sua chiamata.

— Sì, Vostok IV. Vi sentiamo. C’è qualche difficoltà? Il vostro ultimo messaggio è stato interrotto. Passo.

Il colonnello aggrottò la fronte, poi abbassò l’interruttore.

— Qui colonnello Nartov. Questo è il messaggio finale. Stacco e chiudo la comunicazione, ora.

— Colonnello, sappiamo che cosa provate. Tutta la Russia è con voi in spirito. Ma il generale desidera…

— Dite al generale che mi metterò in contatto con lui più tardi. Non via radio. — Inspirò profondamente, tenendo sempre il dito sopra l’interruttore. — Ho il suo numero del Cremlino. Lo chiamerò dalla Danimarca. — Spense e staccò l’energia. Avrebbe dovuto dire di più? Che cosa avrebbe potuto dire? Altri paesi erano in ascolto…

— Al diavolo! — esclamò bruscamente. Poi si rivolse ai suoi due compagni, allibiti. — Maggiore, prendete i giornali di bordo, i film, le registrazioni, i campioni e metteteli dentro una scatola. Zlotnikov, chiudete il cilindro dell’ossigeno e scaricatelo dalla capsula perché lo portiamo con noi. Per ora respireremo con la riserva delle tute. Nessuna domanda? — Nessuno rispose e lui chiuse seccamente il finestrino del casco.


— Eccoli che arrivano — gridò Nils, alcuni minuti dopo. — L’ultimo è appena sceso e hanno chiuso la camera stagna. Sono carichi come muli e uno di loro ha perfino una macchina fotografica. Ehi, sta fotografandoci!

— Lasciateli fare — disse Ove. — Non potranno capire niente dalle foto. Dovremmo procurarci qualche campione lunare anche noi. Prima che salgano a bordo, mettetevi ancora in comunicazione telefonica col colonnello e ditegli che vogliamo qualche pezzo di roccia, e un po’ di polvere da portare a casa.

— Campioni raccolti dalla prima spedizione lunare danese. Ottima idea, dato che noi non possiamo uscire. Come va?

— Bene — disse Ove, aprendo una bottiglia di akvavit e posandola accanto ai piccoli bicchieri, sul tavolo delle mappe. — Avremmo dovuto pensare alla vodka, ma ci scommetto che si accontenteranno anche di questa. — Aprì una delle scatole di smørrebrød preparate quel mattino, e ne estrasse le tartine. — L’aringa è ancora fresca. E c’è anche del paté di fegato.

— Quello me lo mangio io, se non si sbrigano — disse Nils, adocchiando il cibo con avidità. — Ecco che vengono.

E salutò allegramente con la mano le tre figure cariche che avanzavano a fatica sulla superficie lunare.

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