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La hostess dovette toccargli il braccio con discrezione per attrarre la sua attenzione.

— Signore, prego, la cintura. Tra pochi minuti si atterra.

— Sì, certo — disse Arnie. Solo ora si accorgeva che le scritte con l’invito ad allacciare la cintura di sicurezza e a non fumare erano accese.

Il tempo era trascorso con rapidità incredibile, per lui. Ricordava vagamente che gli era stato servito il pranzo, anche se non rammentava più che cosa avesse mangiato. Dopo il decollo dall’aeroporto di Lydda, era sprofondato in nuovi calcoli, prendendo l’avvio da quell’ultimo esperimento d’importanza vitale. E il tempo era volato.

Con maestosa lentezza, il grosso reattore 707 si inclinò su un’ala in una superba virata, e la luna si spostò come un faro nel cielo. Le nubi sottostanti si illuminarono, formando un paesaggio solido e tuttavia irreale. L’aereo perse quota, volò per un poco sopra lo strato di nuvole, poi ci si tuffò dentro. Le gocce di pioggia rigavano l’esterno dei finestrini formando rigagnoli capricciosi. La Danimarca umida e scura aspettava, là sotto. Arnie vide che il suo taccuino, aperto a una pagina piena di equazioni buttate giù frettolosamente, era posato sul tavolino davanti a lui. Lo infilò nel taschino della giacca e ripiegò il piano di legno. Alcuni punti luminosi apparvero all’improvviso attraverso la pioggia e si scorsero le acque scure dell’Øresund. Un attimo dopo, apparve la pista e l’aereo atterrò nell’aeroporto di Kastrup.

Arnie attese pazientemente che tutti gli altri passeggeri fossero scesi. Erano per lo più danesi di ritorno dalle vacanze nei paesi del sole, con facce rosse, raggianti e così tonde che sembravano sul punto di scoppiare. Stringevano in mano borse di paglia o altri ricordi orientali, come cammelli di legno, piastre di ottone, tappetini, e tutti avevano l’immancabile fiaschetta di liquore che gli addetti alla dogana lasciavano passare senza soprattassa. Arnie scese per ultimo. La porta dell’abitacolo del pilota era aperta, e quando lui ci passò davanti vide uno sgabuzzino scuro, stipato di quadranti scintillanti e di interruttori. Il comandante, un tipo alto e biondo, dalla mascella imponente, gli sorrise. Capitano Nils Hansen stava scritto sul distintivo, sopra le ali d’oro.

— Spero che abbiate fatto buon viaggio — disse l’ufficiale in inglese, la lingua internazionale delle linee aeree.

— Davvero ottimo, grazie. — Arnie aveva un distintissimo accento da public school britannica, del tutto contrastante con il suo aspetto esteriore. Ma aveva trascorso gli anni della guerra a Winchester, in una scuola inglese, e la sua pronuncia ne era stata segnata per sempre.

Gli altri passeggeri se ne stavano ordinatamente in coda davanti agli sportelli della dogana, passaporto in mano. Arnie fu lì lì per raggiungerli, poi si ricordò che lui aveva un biglietto per Belfast e che gli mancava il visto danese. Imboccò un corridoio dalle pareti di vetro, si diresse verso la sala d’aspetto, dove sedette sopra uno dei sedili di cuoio nero con cromature, tenendo la valigetta tra le gambe. Con uno sguardo fisso nel vuoto, pensò a cosa gli convenisse fare. Dopo pochi minuti si scosse e sbatté le palpebre: aveva preso una decisione. Si guardò intorno. C’era un poliziotto che camminava su e giù per la sala, imponente nella sua divisa dagli stivaloni di cuoio e dal largo berretto. Arnie gli si avvicinò, e i suoi occhi vennero a trovarsi quasi allo stesso livello del distintivo d’argento sulla spalla dell’altro.

— Desidero vedere il capo della sezione locale del servizio di sicurezza, se non vi spiace.

L’agente lo guardò dall’alto in basso, con aria professionale.

— Se volete dire a me di che si tratta…

Dette kommer kun mig og den vaght avende officer ved. Så må jeg tale med han?

L’inaspettato flusso di parole nella sua lingua sorprese l’agente.

— Siete danese? — domandò.

— Non importa la mia nazionalità — continuò Arnie, sempre nella stessa lingua — posso dirvi soltanto che ciò riguarda la sicurezza nazionale e che la cosa più saggia che possiate fare è di mettermi in contatto con la persona responsabile di queste cose.

Il poliziotto cominciò a cedere. L’ometto parlava con tanta naturalezza che non si poteva fare a meno di credergli.

— Allora venite con me — disse. E, in silenzio, fece strada lungo una stretta balconata che correva in alto sopra la sala principale dell’aeroporto, tenendo d’occhio lo straniero perché non tenr tasse di sparire nell’umida libertà della notte di Kastrup.

— Prego, accomodatevi — disse il capo dei servizi di sicurezza, quando l’agente gli ebbe spiegato la situazione. Era rimasto seduto dietro la sua scrivania, mentre ascoltava, e i suoi occhi avevano fissato Arnie con insistenza, quasi volesse imprimersi bene nella mente il suo aspetto attraverso le lenti rotonde di un paio di occhiali montati in acciaio.

Løitnant Jørgensen — si presentò, quando la porta si fu richiusa e si trovarono soli.

— Arnie Klein.

Må jeg se Deres pas?

Arnie gli allungò il passaporto e l’altro lo guardò, stupito, vedendo che non era danese.

— Siete israeliano, allora! Sentendovi parlare, avevo creduto… — Arnie non rispose e l’altro sfogliò rapidamente il documento, posandolo poi aperto sulla scrivania.

— Mi sembra tutto regolare, professore. Che posso fare per voi?

— Voglio fermarmi in questo paese. Ora.

— Questo è impossibile. Siete qui di passaggio. Non avete il visto. Vi consiglio di arrivare a destinazione e di rivolgervi al console danese di Belfast. Vi rilascerà il visto in un giorno, due al massimo.

— Voglio fermarmi in Danimarca subito. Per questo ho chiesto di parlare con voi perché siate tanto cortese da sistemare la cosa. Sono nato a Copenaghen e sono cresciuto a una quindicina di chilometri da qui. Non dovrebbero esserci difficoltà.

— Sono certo che non ce ne saranno. — L’uomo gli tese il passaporto. — Ma qui, ora, non si può fare proprio niente. A Belfast…

— Sembra che non abbiate capito. — La voce di Arnie era tranquilla come l’espressione del suo viso, ma le parole erano cariche di significato. — Devo assolutamente fermarmi nel paese ora, stanotte. Dovete trovare un sistema. Chiamate i vostri superiori. C’è la faccenda della duplice nazionalità. Sono danese quanto voi.

— Può darsi. — C’era una sfumatura di esasperazione nella voce dell’altro, adesso. — Io però non sono anche cittadino israeliano e voi sì. Temo proprio che dovrete salire sul prossimo aereo…

Le sue parole rimbalzarono nel silenzio profondo: Arnie non le ascoltava. Aveva posato sulle ginocchia la sua valigetta e l’aveva aperta. Poi aveva estratto una rubrica per indirizzi che stava sfogliando attentamente.

— Non vorrei sembrare eccessivo, ma posso affermare che la mia presenza qui ha un’importanza nazionale. Volete, per favore, chiamare questo numero e chiedere del professor Ove Rude Rasmussen? Ne avete sentito parlare?

— Naturalmente. È un Premio Nobel. Ma non si può disturbarlo a quest’ora…

— Siamo vecchi amici, non se ne avrà a male. E ci sono ragioni abbastanza serie da giustificare la, telefonata.

Era passata l’una del mattino e Rasmussen, sentendo lo squillo del telefono, grugnì come un orso disturbato durante l’ibernazione.

— Chi è? Cosa diavolo significa… Sa for Satan!… Sei proprio tu, Arnie. Da dove diavolo telefoni? Da Kastrup? — Poi ascoltò pazientemente, mentre l’altro gli esponeva la situazione.

— Allora, vuoi aiutarmi? — domandò Arnie.

— Ma sicuro! Anche se non so che cosa si possa fare. Aspettami lì. Mi infilo i pantaloni e sono da te.

Passarono tre quarti d’ora. Jørgensen incominciava a sentirsi a disagio in quel silenzio, con lo sguardo vuoto di Arnie fisso al calendario appeso alla parete. Si mise, dunque, con attenzione esagerata, ad aprire un nuovo pacchetto di tabacco; poi si accinse ad accendere la pipa. Se anche Arnie gli fece caso, non lo diede certo a vedere: aveva ben altro a cui pensare. Quando qualcuno bussò alla porta, Jørgensen quasi si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.

— Arnie… sei proprio tu!

Rasmussen era come nelle foto pubblicate dai giornali: un tipo magro, col viso incorniciato da una barba ricciuta, e senza baffi. I due uomini si strinsero vigorosamente la mano e ci mancò poco che non cadessero l’uno nelle braccia dell’altro, mentre le rispettive facce si illuminavano di un cordiale sorriso.

— Adesso dimmi che cosa diavolo fai qui e perché mi hai tirato giù dal letto a un’ora così impossibile, in una notte così schifosa!

— Devo parlarti da solo.

— D’accordo. — Rasmussen si guardò intorno, e accorgendosi solo allora della presenza di Jørgensen, domando: — Dove possiamo trovare un luogo sicuro per parlare?

— Potete restare in questo ufficio, se volete. Vi posso garantire che è sicurissimo.

Entrambi accettarono, senza accorgersi della sfumatura di ironia che faceva capolino in quelle parole.

Sbattuto fuori dal proprio ufficio!… Che cosa stava accadendo? Jørgensen rimase lì per ben dieci minuti ad aspettare, in corridoio, fumando rabbiosamente la pipa e premendoci dentro il tabacco con il pollice calloso. Poi la porta si spalancò. Rasmussen comparve sulla soglia, col colletto della camicia slacciato e uno sguardo eccitato negli occhi. — Entrate! Entrate! — E quasi trascinò l’altro dentro la stanza, impaziente che la porta venisse subito richiusa.

— Dobbiamo vedere immediatamente il primo ministro! — E prima che Jørgensen, allibito, potesse rispondergli, aggiunse: — No, no! Non è il caso. A quest’ora della notte… — Cominciò a passeggiare concitato su e giù, con le mani dietro la schiena, intrecciando e sciogliendo di volta in volta le dita contratte. — Basterà farlo domani. Prima di tutto, Arnie, dobbiamo tirarti fuori di qui e portarti a casa mia. — Si fermò e fissò il responsabile locale del servizio di sicurezza.

— Chi è il vostro superiore?

— L’ispettore Anders Krarup, ma…

— Non lo conosco, non servirebbe a niente. Aspettate: il vostro dipartimento, il ministro…

— Andresen.

— Già, Svend Andresen. Te lo ricordi, Arnie?

Klein ci pensò su, poi scosse la testa.

— Il piccolo Anders! Ora deve essere notevolmente cresciuto! Era nella classe dopo la nostra, quando andavamo alla Krebs’ Skole… Quello che cadde in una buca nel ghiaccio, sul Sortedamsø.

— Non finii quel trimestre. Fu allora che andai in Inghilterra.

— Già, quei bastardi dei nazisti! Ma lui certo si ricorda di te e mi crederà sulla parola se gli dico che si tratta di una cosa importante. Tra un’ora potrai uscire di qui. Un bicchiere di snaps, e subito a nanna!

Ci volle ben più di un’ora e fu necessaria la visita del ministro Andresen, dall’aria non proprio soddisfatta, con relativo segretario svegliato in fretta e furia, prima che la faccenda fosse sistemata. Il piccolo ufficio si riempì di pezzi grossi, dell’odore della lana bagnata e del fumo dei sigari, prima che l’ultimo documento fosse debitamente timbrato e firmato… Solo allora Jørgensen rimase finalmente solo; era stanco e perplesso per gli avvenimenti accaduti durante la notte, e in testa gli rintronava ancora l’ordine che il ministro gli aveva mormorato all’orecchio dopo averlo tirato un attimo in disparte.

— Dimenticate tutto quanto è successo — aveva detto, deciso — è l’unica cosa che dovete fare. Non avete mai sentito parlare del professor Arnie Klein e, per quanto ne sapete voi, non è mai entrato nel nostro paese. Direte così a «chiunque» vi domandi qualcosa.

E chi avrebbe dovuto domandarglielo? E poi, perché tanta agitazione?

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