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— Ma non sono ancora tutti a bordo? — domandò Arnie, guardando la banchina dal punto d’osservazione del ponte di comando. Due uomini uscirono dall’edificio della dogana; camminavano curvi, tenendo fermo con una mano il cappello floscio che il vento del Baltico minacciava di far volar via. Dietro a loro venivano i facchini con le valigie.

— Non ancora, ma dovremmo essere a buon punto — rispose Nils. — Ora m’informo dal commissario di bordo. — Formò il numero dell’ufficio che stava nel corridoio d’ingresso, e il piccolo schermo del telefono si illuminò con l’immagine a colori della persona desiderata.

— Signore?

— A che punto siamo?

Il commissario consultò i suoi elenchi, spuntando i nomi con una matita. — Mancano ancora sei passeggeri — disse. — Poi siamo al completo.

— Grazie. — Riappese. — Non c’è male. Tenuto conto che a quei disgraziati fanno proprio di tutto, tranne una radiografia e l’esame delle otturazioni dei denti. Suppongo che riceverò una quantità di lamentele. I capitani delle navi compaiono in mezzo ai passeggeri solo il secondo giorno dalla partenza. Credo che farò anch’io così.

— Col nuovo sistema di calcolatori penso che non dobbiate preoccuparvi se il decollo non avverrà all’ora esatta.

— Per questo, non importa. — Nils diede un colpetto affettuoso con la mano all’armadietto grigio accanto al posto del pilota. — Dico a questo dispositivo quando voglio partire, e lui mi rimanda la risposta prima ancora che io abbia finito di battere. Mentre siamo attraccati, è in collegamento diretto via terra con Mosca. Dopo il decollo, sarà il nostro computer a parlare con il loro e verranno eseguiti costanti controlli di rotta e di velocità.

Osservarono un altro ritardatario che attraversava di corsa la banchina.

— Gli americani si sono scocciati perché ci siamo serviti del computer sovietico? — chiese Arnie.

— Credo di sì, ma non potevano protestare perché non avevamo collegamenti diretti con loro. Comunque, usiamo soltanto tute spaziali statunitensi, e così pareggiamo il conto. L’abbiamo fatto di proposito, ne sono certo. Come stava Ove, quando l’avete salutato?

Arnie si strinse nelle spalle. — Ancora a letto. Tossiva come una foca, e aveva la febbre. L’ho salutato sulla porta, perché non mi ha lasciato entrare. Ci ha fatto un mucchio di auguri. L’influenza l’ha colpito ai bronchi.

— Sono contento che siate potuto venire voi al suo posto, anche se mi spiace di avervi disturbato… Quando tutti i dispositivi saranno a punto, non avremo più bisogno di fisici in sala macchine.

— Per me va bene. Anzi, è un diversivo. La ricerca e l’insegnamento mi sembreranno molto monotoni, dopo alcuni di questi voli. Ricordate quello sulla Luna, col Blaeksprutten…?

— E la cassetta del telefono saldata sullo scafo! Perbacco, quelli erano bei tempi! Guardate un po’ dove siamo già arrivati. — E indicò con un gesto della mano il ponte spazioso e gli uomini in uniforme impeccabile: il radiotelegrafista che parlava col controllo a terra, il navigatore, il secondo pilota, l’ufficiale addetto al computer, l’operatore addetto alla strumentazione. Una vista esaltante. Il telefono suonò e lui rispose.

— Tutti i passeggeri a bordo, capitano.

— Bene. Prepararsi al decollo, che avverrà fra dieci minuti.

Arnie era in sala macchine al momento del decollo, ma, per essere sinceri, trovò ben poco da fare. I tecnici erano rispettosi, ma conoscevano bene il loro lavoro. La propulsione Daleth era stata completamente automatizzata e veniva controllata dal computer, tanto che le attenzioni dell’uomo erano ormai superflue. E lo stesso poteva dirsi del generatore a fusione.

Quando ebbe fame, Arnie si fece mandare giù il cibo. Era stato invitato al primo banchetto di bordo, ma aveva fatto il possibile per non andarci, perché detestava quel genere di cose. Era contentissimo di avere fatto un favore a Ove prendendo il suo posto, ma non si poteva dire che fosse entusiasta di quel viaggio. Il laboratorio della Månebasen, le nuove ricerche appena iniziate e le lezioni tecniche sulla propulsione Daleth che teneva ai tecnici, lo interessavano assai di più.

E poi c’erano i passeggeri… Ne aveva un lungo elenco, e in coscienza doveva ammettere che quella era la vera ragione per cui se ne stava lì dentro rinchiuso. Non aveva trovato amici o colleghi, tra gli scienziati: erano quasi tutti studiosi di secondo piano, provenienti da ogni parte del mondo. Be’, forse dire di «secondo piano» non era molto cortese, ma si trattava comunque solo di assistenti di professori famosi. Sembrava che le università non avessero voluto rischiare i loro uomini più preziosi in quell’esperimento così poco ortodosso. Be’, non importava. Anche i giovani potevano prendere appunti; e i dati, le cifre non cui sarebbero tornati avrebbero indotto i capi a fare fuoco e fiamme per ottenere un posto nella prossima missione. L’importante era cominciare.

Quanto agli uomini politici, Arnie non sapeva niente su di loro. Erano pochissimi i nomi che non gli tornassero completamente nuovi. Però lui non si interessava certo di politica. Probabilmente quelle erano controfigure mandate avanti a misurare la temperatura dell’acqua in quella prima escursione; i pezzi grossi si sarebbero tuffati in seguito.

Ne conosceva uno, tuttavia… Ed era soprattutto per causa sua che se ne stava alla larga dalla sezione riservata ai passeggeri. Ma… a che sarebbe servito? Se il generale Avri Gev era a bordo, avrebbe dovuto incontrarlo, prima o poi. Arnie lanciò un’occhiata all’orologio. E perché non adesso? Ormai gli ospiti sarebbero stati pieni di ottimo cibo e di liquori. E forse… avrebbe sorpreso Avri di buon umore! No, questo era impossibile, lo sapeva. Però ci avrebbero impiegato due giorni ad arrivare su Marte… e lui non poteva starsene lì rinchiuso tutto quel tempo.

Controllò il lavoro dei tecnici. Tutto andava bene per il momento, e se fossero sorte difficoltà lo avrebbero chiamato. Poi andò nella sua cabina a prendere la giacca e si avviò verso la porta a tenuta stagna che dava nella sezione passeggeri.

— Bel volo, signore — disse il commissario di bordo, salutando. Era un vecchio soldato, un sergente, evidentemente trasferito dall’esercito, con relative decorazioni. L’uomo guardò lo schermo televisivo che Arnie gli mostrava, poi premette il pulsante che apriva il battente. C’erano porte a tenuta stagna in tutta la Holger Danske, ma quella era l’unica che poteva essere aperta da un solo lato. Arnie annuì, passò e trovò il generale Gev ad aspettarlo dietro la prima curva del corridoio.

— Speravo che usciste da solo — disse Gev. — Altrimenti vi avrei telefonato.

— Buona sera, Avri.

— Venite nella mia cabina? Ho dello scotch da farvi assaggiare.

— Non sono un gran bevitore…

— Venite ugualmente. Me l’ha dato il signor Sakana.

Arnie guardò il generale cercando di leggere qualcosa su quei lineamenti impassibili, abbronzati. Avevano parlato in inglese, e non c’era nessuno a bordo che si chiamasse Sakana. Quella era una parola ebrea che significava «pericolo».

— Be’, se proprio insistete…

Gev entrò, seguito da Arnie, poi chiuse a chiave l’uscio.

— Che cosa c’è? — domandò il professore.

— Un attimo. Prima i doveri dell’ospitalità. Accomodatevi, prego. Prendete quella sedia.

Come tutte le cabine, anche quella era lussuosa. L’oblò, con la sua copertura di metallo che si era automaticamente ritirata dopo l’attraversamento delle fasce di Van Alien, si apriva sulle stelle dello spazio. Sul pavimento c’era un tappeto fatto a mano. Le pareti erano coperte da pannelli di teak e decorate con stampe di Sikker Hansen. Il mobilio era di stile scandinavo moderno.

— E c’è la televisione a colori in tutte le cabine — disse Gev, indicando il grande schermo, dove un cannone tuonava silenziosamente in una scena di guerra tolta dal film Da Atlanta al mare. Poi prese una bottiglia dal bar.

— È molto pratica — disse Arnie. — E lo è anche il sistema di divertire con programmi registrati. Mi avete condotto qui per chiacchierare sull’arredamento dell’interno?

— Non proprio. Ecco, assaggiate questo. È vecchio di dodici anni. Mi ci sono abituato quando combattevo con gli inglesi. C’è qualcosa che non va, sulla nave. Lehaym.

— Che volete dire? — Arnie rimase lì, col bicchiere in mano, perplesso.

— Assaggiatelo. È mille volte meglio di quello schifoso slivoviz che servivate voi. Intendo dire quello che ho detto. Qualcosa non va. Ho riconosciuto almeno due membri della delegazione orientale: due duri e noti agenti, due criminali.

— Ne siete certo?

— Naturalmente. Dimenticate che sono incaricato della sicurezza interna? Ho letto tutti i rapporti dell’Interpol.

— E che ci farebbero qui? — domandò Arnie: e mandò giù un sorso troppo abbondante, cominciando a tossire.

— Piano… Gustatelo come il latte di mamma. Non so che cosa siano venuti a fare, ma posso indovinarlo. Inseguono la propulsione Daleth.

— Impossibile!

— Ah, sì? — Gev prese un’aria quasi divertita, e al tempo stesso depressa. — Posso domandarvi quali misure di sicurezza sono state prese?

Arnie non rispose, e l’altro scoppiò a ridere.

— E allora non ditemelo. Non vi critico per i vostri sospetti. Ma io, da solo, non valgo un esercito, e l’unico israeliano a bordo, oltre me, è quello shlub di un biologo. È considerato un genio, ma non certo un guerriero.

— Non eravate così cordiale, l’ultima volta che ci siamo visti.

— E c’era di che, lo sapete bene. Ma i tempi sono cambiati e Israele ha fatto di necessità virtù. Non possediamo la vostra propulsione Daleth, anche se ha un bel nome ebreo, ma i danesi si sono dimostrati assai più accomodanti di quanto ci eravamo aspettati. Riconoscono che gran parte della teoria Daleth è stata elaborata in Israele, e ci danno sempre una priorità assoluta nel settore scientifico e commerciale: avremo anche una nostra base sulla Luna. Per il momento non possiamo lamentarci. Ci interessa sempre la propulsione Dàleth, ma per ora non intendiamo far fuori nessuno, per impossessarcene. Voglio parlare col capitano Hansen.

Arnie, assorto nei suoi pensieri, si morse un labbro, e finì ciò che restava del whisky, senza neppure accorgersene. — Aspettatemi qui — disse, infine. — Gli riferirò ciò che avete visto.

— Fate in fretta, Arnie — raccomandò Gev, pacato. Parlava molto seriamente.


Nils aveva fatto un breve discorso durante il banchetto, poi si era ritirato sul ponte di comando con la scusa che aveva da fare. E ora se ne stava lì seduto, con una gamba sopra il bracciolo della sedia, contemplando le stelle. Quando Arnie gli riferì le parole di Gev, si girò di scatto.

— Impossibile!

— Può darsi. Ma io gli credo.

— Non potrebbe essere un trucco, per venire sul ponte?

— Non so. Penso di no. È un uomo d’onore… e gli credo.

— Spero che voi abbiate ragione… e che lui si sbagli. Non posso comunque ignorare le sue accuse. Lo farò venire qui, ma il commissario di bordo gli starà continuamente dietro le spalle. — E formò un numero sul telefono.

Il generale venne subito. Il sergente lo seguiva a due passi di distanza, pistola automatica in pugno. La teneva all’altezza della vita, dove non avrebbero potuto strappargliela, e sembrava pronto a servirsene.

— Posso vedere l’elenco dei passeggeri? — domandò Gev. Poi lo scorse attentamente.

— Questo e quest’altro — disse, sottolineando due nomi. — Hanno nomi diversi, in archivio, ma sono le stesse persone. Uno è ricercato per sabotaggio, l’altro è accusato di aver partecipato alla preparazione di un assalto a mano armata. Due tipacci.

— Non riesco a crederci — fece Nils. — Sono i rappresentanti ufficiali di questi paesi…

— Che fanno esattamente ciò che Madre Russia pretende da loro. Non siate ingenuo, capitano Hansen. «Satellite», significa appunto questo. Sono stati comprati e pagati appositamente, e se ne stanno lì pronti a danzare, quando qualcuno suona la melodia giusta.

Il telefono squillò, e Nils staccò distrattamente il ricevitore.

Sullo schermo apparve la faccia terrorizzata di un uomo dalla faccia rigata di sangue.

— Aiuto! — urlò l’individuo.

Poi si udì un gran fracasso, e lo schermo si spense.

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