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— Riguarda la sicurezzza — disse Skou. Aveva anche un nome di battesimo, Langkilde, ma non lo pronunciava mai, forse per qualche buona ragione. Skou insisteva, chiamatemi Skou e basta. Era come se invitasse tutti all’amicizia anticonvenzionale di una sala da biliardo grande come il mondo. Go’davs, Hansen… Go’davs, Jensen… Go’davs, Skou. Ma, nonostante insistesse nel dichiarare che lui era semplicemente Skou per tutto il genere umano, trattava gli altri con grande correttezza.

— Bisogna sempre prendere la faccenda della sicurezza nazionale molto seriamente, professor Rasmussen — dichiarò, osservando tutti i minimi particolari mentre parlava. — Voi possedete qualcosa che va tenuto al sicuro, quindi dovete avere questa sicurezza in qualsiasi momento.

— Ciò che abbiamo qui…

— Insisto perché non mi diciate nulla. Meno persone sanno, meno persone parlano. Permettetemi solo di prendere le precauzioni necessarie e continuate tranquillamente a lavorare.

— Santo cielo, ma io non sono affatto preoccupato! Abbiamo iniziato a lavorare da poco, e nessuno sa ancora niente del progetto.

— Proprio così deve essere! Preferisco entrare in scena all’inizio, o anche prima dell’inizio, per sistemare le cose debitamente. Se quelli non apprendono alcun particolare non apprendono niente.

Skou aveva l’abilità di creare strani bisticci di parole che lo facevano sembrare uno stupido, mentre non lo era affatto. Quando si levava in piedi, le mani affondate nelle tasche della giacca di tweed consunta, la sua figura pendeva con una strana inclinazione che gli dava l’aria dell’eterno ubriaco. Anche la faccia insulsa e i capelli radi, color sabbia, contribuivano a dare quell’impressione. Ma si sapeva che era falsa. Skou era un funzionario di polizia da molti anni, parlava il tedesco alla perfezione, ed era stato collaboratore e compagno di partite a carte piuttosto disprezzato degli invasori tedeschi a Helsingør, durante la guerra. Aveva anche fatto parte del movimento clandestino in quella zona, e l’instabilità del suo portamento aveva qualcosa a che fare con una schioppettata tiratagli dagli ex compagni di gioco e di gozzoviglie e con una susseguente fuga dal secondo piano di un ospedale per evitare che quelli si rifacessero vivi e lo costringessero a cantare. Ora lavorava per qualche ufficio governativo: non era mai molto esplicito su quell’argomento, ma faceva capo ai servizi di sicurezza e, di conseguenza, tutto gli era permesso. Da oltre un mese entrava e usciva dai laboratori, facendo rispettare rigidamente le norme da lui stabilite perché ciò che doveva restare segreto rimanesse tale.

— Mi sembra roba da cinematografo, signor Skou — disse Arnie. — Se ci limitassimo a mettere l’apparecchio su un autocarro e a ricoprirlo a dovere, nessuno lo noterebbe.

— Skou e basta, prego. Ciò che è irreale, ha origine dalla realtà, e il cinema, dalla vita. Non so se mi spiego… Ma forse possiamo imparare qualcosa da tutti e due. Meglio essere prudenti. È questione di sicurezza.

Inutile discutere con Skou, su quel punto. Così aspettarono, dentro l’edificio del Nils Bohr Institute, mentre il furgone postale rosso e nero si fermava fuori, sulla rampa di carico. Quando, facendo marcia indietro, il veicolo per poco non rovesciò una pila di casse piene di bottiglie di latte, si udirono delle grida. Ma infine, dopo alcuni Ferma, Hendrik! e Lidt endnu! Sà er den der!, l’apertura posteriore si fermò contro il bordo della piattaforma. Due postini, goffi nelle loro giacche rossicce, appesantiti dai traesko con le suole spesse di legno, caricarono alcune bracciate di pacchi. Che non fossero postini comuni appariva evidente dal fatto che ignorarono completamente la presenza dei tre spettatori: nessun postino danese degno di quel nome avrebbe perso l’occasione di fare una chiacchierata. Skou indicò in silenzio le casse che contenevano l’apparecchio e, ugualmente in silenzio, i falsi postini le spinsero nel furgone in attesa. Le ampie portiere furono chiuse con il grosso lucchetto; il motore rombò e il furgone uscì nella strada. Skou e i due professori rimasero a guardarlo fino a che non sparì, inghiottito dal traffico del mattino.

— I furgoni postali non sono proprio invisibili, ma sono quanto più si avvicina all’optimum — disse Skou. — Questo arriverà all’ufficio centrale di K.øbmagergade, insieme con molti altri furgoni della stessa forma e del medesimo colore e ne uscirà pochi minuti dopo, con nuovi numeri, naturalmente, per dirigersi alla banchina. Propongo, signori, di recarci là anche noi per accoglierlo all’arrivo.

Skou fece salire i due scienziati sulla sua auto, una Opel di pessimo aspetto, e si infilò in parecchi vicoli angusti, entrando e uscendo dalla corrente del traffico, finché non fu certo di non essere seguito. Parcheggiò vicino alla darsena dei panfili e andò in cerca di un telefono, mentre gli altri due proseguivano a piedi. Un vento tagliente spazzava le acque dell’Øresund, soffiando direttamente dalla Svezia e dall’Oceano Artico. Il cielo era grigio.

— C’è aria di neve — disse Ove.

— È quella, la nave? — domandò Arnie, guardando verso l’estremità del molo Langelinie, dove stava ormeggiato un solo vascello.

— Sì, la Isbjorn. Sembra molto adatta alle nostre esigenze. Dopo tutto, non sappiamo con sicurezza quale sforzo dovrà sopportare, e, per quanto vecchia, è sempre un rompighiaccio. L’ho vista per buona parte dell’inverno scorso, occupata a tener libero il canale.

Due poliziotti, massicci nei loro ampi cappotti, guardavano in direzione della Svezia e ignorarono il loro passaggio.

— Skou ha sguinzagliato i suoi cani da guardia — commentò Ove.

— Non credo che avranno molto da fare. Con un tempo simile, non ci saranno molti spettatori.

La nave torreggiava sopra di loro, con la murata nera tempestata di file di chiodi ribaditi. La passerella era abbassata, ma non si vedeva nessuno sul ponte. Salirono lentamente, mentre il piano inclinato scricchiolava sotto i loro passi.

— Un pezzo da museo — disse Ove quando ebbero raggiunto il ponte. — Ma è un po’ troppo fuligginosa.

Un nastro sottile di fumo si levò dal fumaiolo sovrastante la caldaia a carbone.

— Vecchia, ma robusta — osservò Arnie, indicando il massiccio rinforzo della prua. — I rompighiaccio della nuova generazione salgono sopra la crosta ghiacciata e la spezzano con il loro peso. Ma questo vecchio esperto usa il metodo forte, e si fa strada fracassandola. È stata una scelta intelligente. Ma dove sono finiti gli altri?

Quasi in risposta alla sua domanda, la porta della cabina del timoniere si spalancò e sulla soglia apparve un ufficiale in giacca e stivali neri, con una gran barba da pirata che gli nascondeva la parte inferiore del viso. Si avvicinò ai due con passo pesante, ed eseguì un saluto impersonale.

— Immagino che voi siate i signori che ho l’ordine di attendere. Io sono il capitano Hougaard, il comandante. — Non c’era il minimo calore nel suo tono e nei suoi modi.

I due gli strinsero la mano, imbarazzati perché Skou aveva proibito di dire il loro nome.

— Grazie per averci permesso di salire a bordo, capitano. Siete stato molto gentile a mettere a disposizione la vostra nave — azzardò Ove, in tono conciliante. Ma l’altro non era certo di umore pacifico.

— Non avevo alternative — replicò. — Mi è stato ordinato così dai superiori. I miei uomini se ne stanno sotto, come specificano gli ordini.

— Molto gentile — ripeté Ove, cercando con tutte le forze di tenere lontana l’ironia dalla voce. In quel momento si udì lo stridere dei freni, e il furgone postale si fermò sulla banchina sottostante: un’interruzione provvidenziale. — Volete essere tanto cortese da far portare quassù le casse che sono sul furgone?

Per tutta risposta, il capitano gridò qualcosa con voce tonante dentro un boccaporto, e mezza dozzina di marinai arrivarono di corsa. Gli uomini sembravano assai più interessati di Hougaard a ciò che stava accadendo, e forse erano contenti di poter rompere la monotonia quotidiana.

— Piano, con quelle! — disse Arnie, mentre portavano le scatole su per la passerella. — Non lasciatele cadere e non scuotetele troppo.

— Non potrei trattarle più delicatamente se ci fosse dentro mia madre — dichiarò un gigantesco marinaio biondo, dalle larghe basette che si perdevano in un paio di mustacchi eroici. E, mentre il capitano non guardava, il giovanotto strizzò l’occhio agli sconosciuti.

Klein e Rasmussen avevano studiato accuratamente la pianta della nave e scelto la sala macchine come il posto più adatto alle loro esigenze. L’estremità verso prua era stata separata con una parete schermata, ricavandone una stanzetta per l’elettricista, con tutto l’occorrente e un banco di lavoro. C’erano il pannello degli interruttori e il generatore, e, cosa ugualmente importante, si era in contatto con la superficie esterna dello scafo. Le casse furono portate lì e, sotto lo sguardo vigile dei due fisici, deposte delicatamente a terra. Quando tutti gli uomini se ne furono andati, il capitano fece un passo avanti.

— Mi e stato detto che il vostro lavoro deve svolgersi in assoluta riservatezza. Tuttavia, poiché bisogna accendere una delle caldaie, un meccanico dovrà restare qui fuori…

— Benissimo — lo interruppe Arnie.

— … e quando verrà effettuato il cambio della guardia, sostituirò l’uomo personalmente. Se desiderate mettervi in contatto con me, sarò nella mia cabina.

— Va bene. E grazie per la collaborazione, capitano. — Lo guardarono allontanarsi. — Temo che tutto questo non gli vada troppo a genio — disse Arnie.

— Credo però che non possiamo permetterci di preoccuparcene. Sballiamo il materiale.

La sistemazione dell’attrezzatura occupò la maggior parte della giornata. C’erano quattro unità principali, apparecchi elettronici non identificabili nei loro armadietti di metallo nero, tempestati di quadranti. Alcuni grossi cavi con serrafili multipli si intersecavano, e un cavo ancora più grosso correva alla presa dell’energia. Mentre Arnie si affaccendava attorno agli apparecchi, Ove Rasmussen si infilò un paio di guanti di cotone, da operaio, e osservò lo scafo della nave incrostato di vernice e cosparso di chiodi.

— Qui va bene — disse, battendo sopra una centina sporgente. E si mise al lavoro metodicamente, con martello e scalpello, asportando gli spessi strati di vernice che coprivano l’acciaio. Quando ebbe ripulito un’area di una trentina di centimetri, mettendo a nudo il metallo lucente, ci passò sopra vigorosamente una spazzola di fil di ferro.

— Ecco fatto — annunciò poi, contento, levandosi i guanti e accendendo una sigaretta. — Perfettamente pulito. Riusciremo a stabilire il contatto, qui e con l’intero scafo.

— Speriamo. Questo è d’importanza vitale.

Una guida d’onda flessibile a sezione trasversale rettangolare sporgeva da quella che appariva l’unità finale dell’intercollegamento, e terminava in un dispositivo di ottone, di lavorazione complicata, dotato di morsetti a vite. Dopo aver passato un bel po’ di tempo a limare metallo e a imprecare contro l’intrattabilità della materia inerte, Klein e Rasmussen riuscirono finalmente ad assicurare il dispositivo di ottone all’area di metallo preparata. Arnie regolò con cura parecchi comandi e mise in funzione gli apparecchi.

— Da’ un po’ di corrente — disse. — Quanto basta per vedere se abbiamo completato i collegamenti elettrici.

Qualcuno bussò bruscamente alla porta. Ove la socchiuse appena. Fuori c’era il capitano Hougaard, con l’aria più scocciata che mai.

— Sì?

— C’è qui un soldato che desidera parlarvi. — Sembrava che non gli andasse affatto il suo compito di messaggero.

Ove aprì l’uscio quel tanto che bastava per sgattaiolare fuori, poi lo richiuse con cura. Un sergente in uniforme, tutto pimpante, teneva in mano la custodia in cuoio di un telefono da campo. Da questa partiva un cavo che spariva su per la passerella.

— Mi hanno ordinato di consegnarvi questo, signore. L’altro apparecchio è fuori, sulla banchina.

— Grazie, sergente. Mettetelo qui, che ci penso io.

La porta che dava nello scomparto riservato all’elettricista si aprì e Arnie guardò fuori.

— Potrei dirvi due parole, capitano? — chiese.

— Aspettatemi su, sul ponte — disse questi, rivolto al sergente: e rimase in silenzio fino a che l’uomo non fu scomparso su per la scala. — Che c’è?

— Ci occorre personale qualificato. Avete a bordo qualcuno capace di saldare, di fare un buon lavoro? Ci vuol troppo tempo per chiedere aiuto a terra. Si tratta di cosa che ha un interesse nazionale — aggiunse vedendo che il capitano se ne stava in silenzio.

— Sì, me ne rendo perfettamente conto. Il ministro del commercio riceverà un mio rapporto completo su ciò. Ci sarebbe Jens; era saldatore nel cantiere navale. Ve lo mando subito. — Se ne andò, sprizzando disgusto da tutti i pori.

Jens era il gigante coi baffi che aveva aiutato a scaricare gli apparecchi. Comparve portando i pesanti serbatoi di un saldatore a gas, come se fossero giocattoli, e sorridendo con aria innocente.

— Adesso diamo un’occhiata alla scatola misteriosa, eh? Niente segreti per Jens; vede tutto e non dice niente. Affari grossi, misteriosi e segreti… Esercito, marina… perfino un rappresentante dell’Istituto Nils Bohr, come il professor Rasmussen! — I due uomini guardarono il gigante, perplessi. L’altro ammiccò e lasciò andare tubi e bombole sul ponte.

— Forse sarebbe meglio mettersi in contatto… — arrischiò Arnie. Ma fu interrotto da una risata olimpica di Jens.

— Non preoccupatevi! Jens osserva tutto, e acqua in bocca. È stato nell’esercito, in Groenlandia… in cantiere, nel Sud America. E ha visto alla televisione il professore, qui, che ritirava il Premio Nobel. Signori, niente paura, sono anch’io un buon danese, anche se sono nato nello Jutland, cosa che qualche schifoso zelandese a volte mi rinfaccia. E ho perfino il Dannebrog tatuato sul petto. Volete vederlo?

Senza neanche dare la possibilità di rispondere, si aprì giacca e camicia per mostrare la bandiera rossa con la croce bianca di Danimarca che faceva capolino tra i peli del petto.

— Va bene — disse Arnie, stringendosi nelle spalle. — Suppongo che non abbiamo altra scelta. Voglio sperare che non riferirete ciò che vedrete qui…

— Se anche i miei torturatori mi strappassero tutte le unghie delle mani e dei piedi… io riderei e gli sputerei in faccia, senza dire una sola parola.

— Sì, ne sono sicuro. Venite qui. — Si tirarono in disparte, mentre il gigante trascinava dentro la sua roba. — Si tratta del collegamento con lo scafo — disse Arnie. — Non è sufficiente. Il segnale non passa. Dobbiamo saldarci la guida d’onda.

Jens annuiva mentre gli spiegavano che cosa doveva fare, e subito il suo saldatore si svegliò col rumore caratteristico. Quell’uomo sapeva il fatto suo; il capitano aveva ragione. Dopo aver rimosso la guida d’onda, spazzolò di nuovo la superficie e la pulì con un solvente. Soltanto allora riattaccò con i morsetti il dispositivo di ottone e applicò un robusto cordone di saldatura per tutta la sua lunghezza, canticchiando allegramente tra sé mentre lavorava.

— Avete delle radio molto strane, qui — commentò, lanciando una rapida occhiata alle apparecchiature. — Ma naturalmente non si tratta di radio. Fin lì ci arrivo anch’io. Mi sono interessato un po’ di radiotecnica in Indonesia. La fisica è una cosa complicata.

— Vi ha mai detto nessuno che parlate troppo? — domandò Ove.

— A volte, ma non me l’hanno mai ripetuto. — Serrò un pugno pieno di cicatrici e grosso quanto un pallone da football. Poi rise. — Parlo molto, ma dico poco. E solo agli amici. — Raccolse i suoi arnesi e si avviò alla porta. — È stato un piacere chiacchierare con voi, signori. Non mancate di chiamarmi, quando vi occorre qualcosa. — E se ne andò.

— Un tipo interessante — disse Arnie. — Credi che parlerà a qualcuno di quanto ha visto?

— Speriamo di no. Credo di no. Comunque ne parlerò a Skou, nel caso non dovesse tener la lingua a posto.

— Hai preso la sua malattia!

— Può darsi. Ma se stanotte tutto andrà secondo i nostri piani, avremo in mano qualcosa che ci conviene senz’altro tenere segreto.

— Il segnale è buono, ora — disse Arnie. Tolse la corrente, e si appoggiò alla parete, stiracchiandosi. — Per ora non possiamo fare altro. Che accadrà, poi?

Ove guardò il suo orologio. — Sono le sei, e ho fame. Hanno predisposto tutto perché noi si mangi a bordo.

— Il capitano ne sarà felice. Pesce bollito, patate bollite e bevande analcoliche, suppongo… Dovremo fare dei turni. Perché non mangi tu per primo? Io non ho molto appetito.

— Dopo la tua dettagliata descrizione, non ho più appetito neanch’io. Comunque mi offro volontario, poiché l’idea è stata mia! Non arriverà nessuno prima delle undici, e quindi avremo tutto il tempo di prepararci.

Arnie trafficò con le apparecchiature e calcolò l’intensità del campo relativa al massimo dell’energia erogata; così il tempo passò in fretta, e quando Ove chiamò, aprì la porta.

— Niente di quanto ci aspettavamo — dichiarò. — Arrosto di maiale con cavoli rossi; pranzo molto sostanzioso e di una cordialità marinara! Se tu non soffri di pregiudizi riguardo a certi alimenti dall’ultima volta che ci siamo incontrati…

— No. L’ebraismo moderno è più una forma mentale e un’eredità culturale, che una religione. Però devo riconoscere che è più facile trovare polli che maiali, a Tel Aviv. Ho una gran voglia di gustare il pranzo.

Poco prima delle undici, il telefono da campo squillò con perentorietà tutta militare. Ove rispose.

— Qui parla Skou. Gli osservatori stanno radunandosi e desiderano sapere quando comincerà l’esperimento.

— Subito. Ora vengo. — Riappese il ricevitore e si rivolse ad Arnie. — Pronto?

— Prontissimo. È meglio che ci stia tu, all’altro capo del filo, così ci manterremo in contatto. Tienimi costantemente informato.

— Sai bene che lo farò. E tutto funzionerà a meraviglia, ne sono certo.

— Speriamo. Faremmo la figura degli stupidi, se non funzionasse.

— Le prove in laboratorio…

— Non fanno testo. Ora invece stiamo collaudando. Dimmi quando devo cominciare.

Ove seguì il cavo del telefono che attraversava la nave, e quando aprì la porta esterna fu assalito da un turbine di neve finissima, portata da un vento tagliente che lo costrinse ad abbottonare la giacca e a sollevare il bavero, per ripararsi meglio. Dall’estremità della passerella vedeva il gruppo di figure scure addossate al muro posteriore della banchina. Scese, e trovò Skou ad aspettarlo.

— Se siete pronti, loro sarebbero lieti di cominciare. L’ammiraglio Sander-Lange ha settant’anni, e ci sono anche due generali non molto più giovani di lui.

— Il primo ministro?

— Ha deciso all’ultimo minuto di non venire. Ma c’è un suo rappresentante. E ci sono anche quelli dell’aeronautica. Insomma, tutte le persone comprese nell’elenco.

— Se mi portate il telefono, dirò loro due parole. Poi possiamo iniziare.

— Desidererei alcune spiegazioni — disse l’ammiraglio. Nella voce del vecchio c’era una forte eco di comando.

— Sarò lieto di darvele, signore. Ciò che ci proponiamo di fare è dimostrare l’effetto Daleth.

— Daleth? — domandò un generale.

— La quarta lettera dell’alfabeto ebraico. Il simbolo che il professor Klein ha assegnato al fattore dell’equazione che ha condotto alla scoperta.

— Quale scoperta? — fece qualcuno, perplesso.

Ove sorrise. I suoi lineamenti si intravedevano appena nella luce della lampada schermata dalla neve.

— È proprio ciò che siamo venuti qui a vedere. L’effetto Daleth è stato dimostrato in teoria e in limitati esperimenti di laboratorio. Ma questa è la prima volta che si tenta di collaudarlo su una scala più vasta, che permetta di appurare se potrà essere universalmente applicato o no. Poiché le difficoltà e le precauzioni che comporta l’allestimento di un simile esperimento sono davvero notevoli, si è deciso di richiedere la presenza degli osservatori, anche se vi è una possibilità di insuccesso.

— Che genere di insuccesso? — chiese una voce, irritata.

— Lo vedrete chiaramente tra pochi minuti… — Il telefono suonò, e Ove si interruppe. — Sì?

— Sei pronto?

— Sì. Energia al minimo, per cominciare?

— Al minimo. Via.

— Signori, siete pregati di osservare la nave — disse Ove, coprendo con una mano il microfono.

C’era ben poco da vedere. Turbini di neve sottile passavano attraverso i coni di luce delle lampade accese lungo la banchina. La passerella della Isbjorn era stata ritirata e gli uomini se ne stavano allineati sulla riva, tenendo le gomene di poppa e prua, che erano state allentate. La corrente aveva staccato la nave dal molo e si scorgeva un tratto di acqua scura. Le onde gorgogliavano e schiaffeggiavano lo scafo e il muro di pietra del molo.

— Ancora niente — disse Ove.

— Aumento l’emissione.

I presenti battevano i piedi per il freddo e si udiva un mormorio irritato.

Uno degli osservatori si voltò verso Ove, pronto a protestare, quando un gemito improvviso riempì l’aria. Sembrava venire contemporaneamente da tutte le direzioni, ed era come se tutte le strutture dello scheletro della nave vibrassero. Questo penoso effetto sonoro si esaurì rapidamente, anche se la vibrazione continuò con minore intensità, come la corda di una bassa viola celestiale che suonasse per sé sola, oltre il limite estremo del mondo.

Quando il suono morì, si udì uno scricchiolio sulla Isbjorn. Prima a poppa, poi a prua. Sul ponte si alzarono grida eccitate. La nave fu scossa da una specie di brivido, e piccole onde le si sollevarono intorno succhiandone lo scafo.

— Buon Dio! guardate! — ansimò qualcuno. — Incredibile!

Quasi fosse montata sopra un gigantesco pistone sottomarino, l’intera massa del grosso rompighiaccio si stava lentamente sollevando dall’acqua. Prirna uscì la scritta poi il fondo rosso dello scafo. Oscure macchie di cirripedi si mostravano qua e là, e più in basso, fasci di alghe dondolavano mollemente. A poppa apparve la parte inferiore del timone, e presto anche tutte le pale gocciolanti dell’elica furono fuori dall’acqua. I marinai, a riva, mollarono rapidamente le gomene che andavano tendendosi sempre più.

— Che succede? Che c’è? — gridò uno degli osservatori. Ma la sua voce fu soffocata dalle grida eccitate degli altri.

La neve ora scendeva meno fitta e veniva portata via dal vento in piccoli turbini. Le lampade della banchina illuminavano chiaramente la nave e il mare, e l’acqua grondava dal rompighiaccio con uno scroscio più forte del frangersi delle onde contro il muro di pietra.

La chiglia era ormai un metro buono sopra la superficie del canale Yderhavn.

— Arnie, vittoria! Ce l’hai fatta! — Ove afferrò il ricevitore, fissando sempre la massa di parecchie migliaia di tonnellate della nave che gli galleggiava davanti, senza alcun sostegno, nell’aria. — È almeno un metro sopra la superficie, ora. Riduci l’energia adesso, riducila…

— È quello che sto facendo… — La voce dello scienziato era tesa. — Ma si sta formando un’armonica, un’onda stazionaria…

Le parole svanirono nel gemito metallico che giunse dalla Isbjorn e la nave sembrò rabbrividire. Poi, tutt’a un tratto, la poppa sprofondò nell’acqua come se un sostegno invisibile fosse stato rimosso.

Si udì il fragore di una cascata gigantesca, che aumentò in un crescendo impressionante. Un istante dopo, impennandosi come una belva che stia per attaccare la preda, un’onda d’acqua nera si levò alta sopra il bordo della banchina, restò in bilico, un metro o due al disopra di essa, poi si abbatté, trasformandosi istantaneamente in una gorgogliante, spumeggiante marea alta fino al ginocchio, che si avventò sugli osservatori e andò a frangersi con alti spruzzi contro il muro posteriore. Buttò a terra le persone, ammucchiandole una sull’altra, per poi separarle di nuovo, e infine le lasciò in secca come pesci sulla spiaggia, ritirandosi in un ampio manto di buio.

Quando tutto fu finito, si levarono gemiti e grida.

— Qui c’è l’ammiraglio!

— Non muovetelo… Ha una gamba rotta o qualcosa di peggio!

— Liberatemi…!

— Chiamate un’ambulanza! Quest’uomo è ferito.

Si udì il tonfo pesante degli stivali sulla pietra, mentre le guardie si avvicinavano di corsa. Qualcuno parlava forte dentro una ricetrasmittente della polizia. Sulla Isbjorn si udiva un gran fracasso di lamiere, e la nave dondolava avanti e indietro. La voce del capitano si levava alta sopra le altre.

— Imbarchiamo acqua da poppa… i tappi di legno, idioti! Lasciate che metta le mani su quelli che hanno combinato questo disastro!

L’urlo assordante delle sirene della polizia, si fece più vicino e in distanza si udì anche il fischio delle autoambulanze. I fari avanzarono a tutta velocità lungo la banchina, mentre l’acqua ricadeva dalla sponda in cento piccole cascate.

Ove se ne stava lì, allibito, spiaccicato contro il muro, bagnato fino al midollo e impigliato nel cavo del telefono. Si tirò su a sedere con fatica e appoggiò la schiena contro la pietra dura, contemplando quella scena frenetica di uomini urlanti, con la nave che oscillava sullo sfondo. Era scosso dalla rapidità con cui si era verificata la catastrofe, dalla vicinanza di tutti quei feriti e, forse anche di morti. Era terribile!

Ma, al tempo stesso, si sentì invadere da un tale sentimento di esultanza, che per poco non si mise a urlare. L’esperimento era riuscito! Ce l’avevano fatta! L’effetto Daleth era proprio come Arnie aveva previsto.

C’era qualcosa di nuovo nel mondo, qualcosa che non era mai esistito prima, e da quel momento in poi la terra non sarebbe stata più la stessa. Sorrise nel buio, senza preoccuparsi del sangue che gli scorreva lungo il mento e dei quattro denti anteriori che non erano più al loro posto.


La neve continuava a cadere, incessante, stendendo un lenzuolo opaco che poi si sollevava, ogni tanto, per concedere una semplice occhiata tentatrice. L’uomo che se ne stava sull’altra sponda del canale dell’Yderhavn imprecava tra sé, di tanto in tanto, con voce gutturale. Non era riuscito a fare di meglio, con un preavviso così breve. E non bastava.

Se ne stava sul tetto di un magazzino, a circa ottocento metri dalla banchina di Langelinie. Era una zona quasi completamente deserta, quando scendeva il buio, e non gli era stato difficile evitare i pochi guardiani notturni e i poliziotti che passavano di lì. Aveva un ottimo cannocchiale, ma non riusciva a vedere niente, con un tempo simile. La neve aveva cominciato a cadere subito dopo che le auto delle personalità erano giunte sulla banchina, e non aveva smesso più.

Erano state le auto a risvegliare il suo interesse, lo spostamento, a quell’ora così tarda, di un certo numero di autorità militari che lui teneva d’occhio abitualmente. Non aveva idea di che cosa significasse. Si erano recate in quel maledetto posto nel cuore della notte, nel bel mezzo di una tempesta di neve, per starsene lì a guardare un vecchio rompighiaccio schifoso che andava a carbone. Imprecò di nuovo e sputò nel buio. Era un uomo brutto, e lo diventava ancora di più quando era sconvolto dall’ira; aveva le labbra sottili, la testa tonda, il collo taurino, i capelli grigi e sottili tagliati così corti, che sembrava rasato a zero.

Che cosa stavano combinando quegli stupidi danesi? Doveva essersi verificato un incidente. Forse, nell’attraccare, dalla nave era caduto in mare un uomo. Infatti si era sentito rumore nell’acqua. Ma non si erano prodotte esplosioni. Ora c’era una grande agitazione: ambulanze e auto della polizia arrivavano da tutte le parti. Comunque, qualsiasi cosa fosse accaduta, era tutto finito: non c’era più niente d’importante da scoprire lì, per il momento. L’uomo imprecò ancora e si alzò; le ginocchia, irrigidite dal freddo, gli dolevano.

Qualcosa era successo, senza dubbio. E avrebbe sicuramente scoperto di che cosa si trattava. Lo pagavano per questo, e il suo lavoro gli piaceva.

Le ambulanze si allontanarono rumorosamente. Ma solo un occhio molto esercitato nel buio si sarebbe potuto accorgere che ora il rompighiaccio galleggiava assai più in basso, sull’acqua.

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