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Il ministro degli affari esteri sfogliò gli appunti presi durante il colloquio col primo ministro, e trovò finalmente quello che desiderava.

— Rileggete l’ultima frase, per favore — disse.

— Il primo ministro apprezza la vostra cortesissima comunicazione e… — La segretaria voltò la pagina del blocco su cui stava stenografando, e aspettò con la matita alzata.

— …E incarica me di ringraziarvi per i voti da voi espressi. Egli considera estremamente cortese l’offerta di metterci a parte di tutte le vostre progredite tecnologie riguardanti l’ingegneria spaziale e la missilistica, nonché la proposta di servirci della vostra estesa rete di stazioni di controllo intorno al globo. Tuttavia, poiché noi potremmo contribuire poco o nulla alla realizzazione dei programmi di missilistica, egli ritiene poco corretto stringere qualsiasi accordo, per il momento… Basta così. I soliti saluti e la conclusione. Vi spiace rileggere tutto?

Fece compiere alla poltroncina un mezzo giro, e guardò fuori dalla finestra mentre la segretaria leggeva. Era buio, e nelle strade era ormai cessato da un pezzo l’affollamento delle ore di punta. Le sette, troppo tardi per la cena. Si sarebbe dovuto fermare a prendere qualcosa, prima di arrivare a casa. Annuì mentre le parole rotolavano nel vuoto, una dopo l’altra, con la loro pomposa risonanza. Tutto bene. Grazie tante, ma niente grazie. I sovietici sarebbero stati felici di rinunciare a tutti i miliardi spesi inutilmente nei missili, pur di poter dare un’occhiata alla propulsione Daleth. Ma non l’avrebbero avuta vinta. E neanche gli americani, nonostante avessero in apparenza maggiori probabilità: legami di fraternità, derivanti dalla comune appartenenza alla NATO e l’obbligo di mettere al corrente dei segreti della difesa gli altri membri dell’organizzazione. Era stato uno spettacolo vedere l’ambasciatore americano farsi sempre più rosso, mentre il primo ministro contava sulle dita dieci importanti piani difensivi statunitensi di cui i danesi non erano stati messi a parte…

— Perfetto — disse il ministro, quando la ragazza ebbe finito.

— Devo batterla a macchina, adesso, signore?

— No, perbacco! Fatelo domattina, per prima cosa: che la trovi sulla scrivania quando arrivo. E ora andatevene a casa, prima che la vostra famiglia dimentichi che faccia avete.

— Grazie, signore. Buona sera.

— Buona sera.

La ragazza uscì e se ne sentirono i tacchi ticchettare nel silenzio dell’edificio vuoto. La porta sbatté. Il ministro sbadigliò, si stiracchiò, poi cominciò ad ammucchiare carte nella sua valigetta. La chiuse accuratamente, e, prima di infilarsi il cappotto, telefonò che gli mandassero l’auto. Infine lanciò un’occhiata agli armadietti dell’archivio per assicurarsi che fossero ben chiusi e diede un’altra mandata alla cassaforte. Tutto a posto. Si calcò il cappello in testa, prese la valigetta e uscì. Era stata una giornata faticosa, ed era stanco. Si avviò con passo pesante, misurato.

Il rumore di quei passi lenti filtrò attraverso la porta, e Horst Schmidt si mosse piano, nel buio. Sentiva le ginocchia irrigidite e doloranti, e gli sembrava di avere il fuoco nelle gambe, per essere rimasto lì in piedi immobile tanto tempo. Diventava un po’ troppo vecchio per quel genere di lavoro. Ma era ben retribuito: avrebbe sicuramente tratto un ottimo guadagno da quella notte di fatiche. Alzò il braccio e fissò il quadrante luminoso del suo orologio: le 19,15. Dovevano essersene andati tutti, ormai. Da mezz’ora a quella parte aveva sentito passare soltanto due persone. Forse avrebbe dovuto aspettare ancora un poco, ma non ce la faceva più. Le gambe! Più di tre ore ad attendere, in piedi, in quel dannato sgabuzzino… Prese la sua borsa e cercò a tentoni la serratura. Poi socchiuse la porta cautamente e la luce improvvisa lo abbagliò. Il corridoio era vuoto.

Quei danesi! Nessuna precauzione, nessuna! Richiuse l’uscio e si avviò, rapido e silenzioso, sulle sue suole di gomma, verso l’ufficio del ministro degli affari esteri. La porta non era chiusa a chiave! Quasi un invito a entrare… Si era presentato al portiere dell’ingresso principale con un nome trovato nell’elenco telefonico e un immaginario appuntamento. Non gli era stato chiesto neppure un documento, benché lui ne avesse uno pronto: era passato semplicemente col suo nome falso. I danesi! E ora anche l’ufficio privato del ministro era aperto: anzi non aveva neppure una serratura all’interno. Schmidt entrò, aprì la borsa e ne estrasse un cuneo di legno che infilò tra il battente e lo stipite della porta.

Poi prese due sottili fogli di plastica opaca, li svolse e li applicò sull’uscio e sulla finestra, assicurandoli con un nastro adesivo. Solo allora accese la potente torcia elettrica. Precedenza assoluta all’archivio. Conteneva senza dubbio molti documenti interessanti. Soprattutto gli interessava la propulsione Daleth; ma c’erano anche altre cose che gli sarebbe piaciuto sapere, informazioni che avrebbe poi trasmesso ai suoi «principali» col contagocce, per assicurarsi un’entrata costante. Tirò fuori gli arnesi e scelse un piccolo utensile di acciaio con un’estremità tagliente come un rasoio. Con un solo giro di quello aprì l’armadietto dell’archivio come se fosse una scatola di sardine. Poi scartabellò rapido e preciso tra le varie cartellette. Sul tavolo accanto a lui si formò una piccola pila di fogli.

Per la cassaforte sarebbe stato un po’ più difficile, ma non molto. Era vecchissima. La osservò per alcuni momenti, pensando al modo migliore di aprirla.

Il trapano, più ingombrante del normale a causa del silenziatore applicatogli, era un apparecchio preciso e potente, con le punte di diamante. Schmidt buttò una manciata di creta sulla serratura e introdusse la punta: la creta avrebbe assorbito tutto il rumore. Infatti, quando mise il trapano in funzione, sentì solo un leggerissimo gemito e una vibrazione impercettibile. E bastarono pochi momenti per aprire un foro nella parete d’acciaio.

Ora restava la parte più rischiosa dell’impresa, ma Schmidt sapeva come proteggersi. Ci teneva alla sua pelle! Con meticolosità teutonica rimise tutti gli arnesi nella borsa, poi si sfilò i guanti sottilissimi e li posò in cima alla cassaforte. Quindi, con infinita cautela, tirò uno spago che gli girava intorno al collo, ed estrasse di sotto la camicia la minuscola bottiglia che gli stava appesa. Il tappo di gomma era inserito con forza e dovette usare i denti per strapparlo. Sempre con la massima delicatezza versò il contenuto dentro il piccolo foro circondato dalla creta, una goccia dopo l’altra, perché il liquido potesse meglio penetrare dentro il meccanismo della serratura. Quando la boccetta fu vuota a metà si fermò, la tappò di nuovo e la portò in fondo alla stanza. La ripulì per togliere le impronte digitali dal vetro, poi la posò per terra sul fazzoletto ripiegato, in un angolo. Il fazzoletto era stato acquistato a un distributore automatico nelle prime ore della giornata.

Sospirò, si rilassò un attimo e si alzò. Aveva preparato da sé il liquido e sapeva che si trattava di ottima nitroglicerina; ma era comunque roba di cui non ci si poteva fidare e non era simpatico portarsela in giro. Si infilò di nuovo i guanti.

Nell’ufficio c’era un tappeto, ma era fissato al pavimento e sarebbe stato troppo difficile tentare di staccarlo. Però gli scaffali erano pieni di libri: grossi volumi, rapporti annuali, libroni pesanti. Proprio quel che ci voleva. Con rapidità, e senza il minimo rumore, ammucchiò i libri a piramide contro lo sportello e ai lati della cassaforte, lasciando però una breccia davanti alla serratura. Poi, per ultima cosa, introdusse nella serratura stessa il minuscolo tubo metallico di un detonatore e srotolò il filo attraverso la stanza. Sigillò infine l’apertura con il più grosso dei volumi.

Langsam, langsam… — borbottò Schmidt, mentre si accosciava dietro la scrivania. Nell’involucro della sua torcia elettrica era stata incassata una piccola presa, e la spina a due poli applicata all’estremità del filo ci entrava benissimo. Lui la inserì.

L’esplosione si manifestò con un colpo sordo che fece tremare il pavimento. Le pile di libri cominciarono a ondeggiare e Schmidt si precipitò a sostenerle. Riuscì a frenare il più, ma i Rapporti annuali sulla pesca 1948-1949 finirono a terra con un tonfo. Dalla serratura maciullata si levava un filo di fumo. Velocemente, ma con attenzione, Schmidt cominciò a togliere i volumi per aprire lo sportello della cassaforte… Ad un tratto si irrigidì, sentendo un rumore di passi pesanti nell’ufficio esterno. I passi si avvicinarono, si fermarono dietro l’uscio e la maniglia girò.

— Chi è là? Perché qui è chiuso a chiave?

Schmidt posò a terra ciò che teneva in mano, spense la torcia e si avvicinò. Il nastro adesivo si staccò senza rumore e il foglio di plastica cadde a terra frusciando. Schmidt attese che la maniglia si abbassasse di nuovo, poi allungò un braccio e tolse il cuneo di legno.

La porta si spalancò all’improvviso e un guardiano notturno di dimensioni imponenti entrò, inciampando, con una rivoltella in pugno. Ma prima ancora che potesse puntare l’arma, si udirono due colpi soffocati, come di tosse. L’uomo avanzò ancora di qualche passo e cadde lungo disteso sul pavimento.

Schmidt premette contro il dorso dell’uomo, all’altezza del cuore, la canna della rivoltella col silenziatore e tirò il grilletto una terza volta. Il corpo si contrasse, convulso, poi giacque immobile.

Dopo essersi assicurato che l’ufficio esterno e il corridoio fossero deserti, Schmidt richiuse la porta e si rimise al lavoro, cantarellando allegramente. Lo sportello della cassaforte si aprì e lui frugò all’interno, ignorando il morto che era steso sul pavimento al suo fianco.

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