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— Rimandiamo alle sedici il prossimo collegamento — disse il colonnello Nartov, girando l’interruttore della radio. Si era tolto la tuta spaziale e indossava solo un paio di calzoncini con il fondo strappato. I baffi scuri gli erano cresciuti tanto da sembrare quasi morbidi, quando li accarezzava. E la pelle gli prudeva. Se avesse avuto a disposizione acqua sufficiente per lavarsi a dovere! Aveva caldo, si sentiva tutto appiccicoso e il piccolo abitacolo puzzava come la tana di un orso.

Shavkun dormiva a bocca aperta, respirando rumorosamente. Il capitano Zlotnikov stava trafficando con le manopole del ricevitore, per captare il programma speciale che veniva trasmesso per loro giorno e notte. Avevano energia più che sufficiente, grazie ai pannelli solari. Scariche… un’esplosione di musica… poi il suono gentile di una balalaika che eseguiva una vecchia aria popolare.

Zlotnikov si sdraiò, mani sotto la nuca, e l’accompagnò canterellando piano. Nartov alzò gli occhi per guardare il globo bianco e azzurro che spiccava nel cielo nero e sentì il desiderio di fumare una sigaretta. Shavkun grugnì nel sonno facendo strani rumori con la bocca.

— Scacchi? — domandò Nartov. E Zlotnikov posò la copia sciupata delle Opere complete di V.I. Lenin stampate su carta velina, che aveva sfogliato fino a quel momento. Era l’unico libro a bordo: avevano pensato di leggerne dei brani quando avrebbero piantato la bandiera sovietica sul suolo lunare, e benché in altre circostanze il libro si fosse dimostrato ricco di ispirazioni, nella situazione attuale era di ben poco aiuto. Meglio gli scacchi. La piccola scacchiera tascabile era il pezzo più importante dell’equipaggiamento, a bordo della Vostok IV.

— Sono in testa io — dichiarò Nartov, porgendogliela. — A voi i bianchi.

Zlotnikov annuì e fece una mossa prudente: l’avversario era un giocatore agguerrito e non voleva correre rischi. Fuori, il sole, che riversava i suoi raggi sul Mare della Tranquillità, sembrava assolutamente immobile nel cielo nero, anche se in realtà si spostava di continuo verso l’orizzonte. Nonostante la protezione degli occhiali scuri, il capitano socchiuse gli occhi per il riflesso abbagliante, mentre cercava istintivamente qualcosa che si muovesse, qualche cambiamento in quell’oceano di roccia e sabbia color madreperla, o grigio-verde, senza vita.

— Tocca a voi.

Zlotnikov guardò di nuovo la scacchiera e spostò il cavallo. — Un luogo deserto, senz’aria… Chi mai avrebbe pensato che potesse fare tanto caldo? — disse.

— Chiunque avesse immaginato che ci saremmo trattenuti qui così a lungo, ve l’ho già detto! La capsula è stata trattata a dovere, ma qualche radiazione la penetra ugualmente. Non ha una tenuta del cento per cento. Per questo ci scaldiamo. Avremmo dovuto restare qui meno di un giorno e la cosa non era considerata importante.

— Sono più di undici giorni. Attento alla vostra regina!

Il colonnello si asciugò il sudore dalla fronte, col dorso della mano. Poi guardò il paesaggio immobile e tornò a fissare la scacchiera. Shavkun grugnì e aprì gli occhi.

— Fa troppo caldo, per dormire — brontolò.

— Però sembra che non ne abbiate risentito nelle ultime due ore — osservò Zlotnikov. E con un’altra mossa cercò di sottrarsi all’attacco deciso dell’avversario.

— Tenete la lingua a posto, capitano — disse Shavkun, irritato da quel sonno pesante nell’atmosfera soffocante.

— Sono un Eroe del Popolo Sovietico — rispose Zlotnikov, per niente impressionato dal rimprovero. Il grado aveva ben poca importanza ormai.

Shavkun guardò con disgusto i compagni chini sulla scacchiera. Lui era un giocatore di second’ordinc. Gli altri due lo battevano così facilmente che aveva deciso di non cimentarsi più. E questo gli lasciava troppo tempo per pensare.

— Quanto può durare l’ossigeno?

Nartov si strinse nelle spalle, senza neppure alzare gli occhi. — Due giorni, forse tre. Lo sapremo con certezza quando dovremo aprire l’ultimo cilindro.

— E poi?

— Allora decideremo il da farsi — rispose, irritato. Il gioco era riuscito a fargli dimenticare per qualche istante la loro situazione irrimediabile e non gli andava di esserci riportato di peso. — Ne abbiamo già parlato. La morte per asfissia può essere penosa. Ci sono modi assai più semplici di andarsene. Prenderemo una decisione al momento opportuno.

Shavkun si lasciò scivolare dalla cuccetta e si appoggiò all’oblò, che presentava solo una leggera inclinazione. Erano riusciti a raddrizzare il veicolo scavando sotto gli altri due supporti, ma niente poteva sostituire il combustibile perduto. E la Terra era là, così vicina… Prese la sua macchina fotografica e guardò nel pentaprisma socchiudendo gli occhi, servendosi delle lenti telescopiche più potenti che avevano in dotazione.

— Quella tempesta è finita. Tutto il Baltico è libero. Mi sembra perfino di vedere Leningrado. È sereno, veramente sereno, là, e il sole brilla…

— Piantatela — ordinò il colonnello Nartov, bruscamente.

Shavkun ubbidì.

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