14

C’era un non so che di definitivo che deprimeva Nils, in quell’atto di vuotare il suo armadietto. Il numero 121, all’aeroporto di Kastrup, era sempre stato suo e di nessun altro. Quando avevano ingrandito quell’ala e messo i nuovi armadietti, lui, in qualità di pilota senior, aveva avuto il diritto di scelta. E ora, invece, stava ritirando la sua roba. Nessuno gliel’aveva ordinato, ma quando si era fermato per prendere la tuta che ci aveva riposto, si era accorto di non avere più il diritto di tenerselo. Onestamente, doveva permettere a qualcun altro di usufruirne. Detto fatto, pigiò nella borsa da viaggio tutte le cianfrusaglie più disparate accumulate là dentro in tanti anni e chiuse la cerniera lampo. Al diavolo! Si sbatté la porta alle spalle e uscì.

Nel corridoio, si accorse all’improvviso che qualcuno gridava il suo nome e guardò intorno.

— Inger!

— E chi altri vuoi che sia, grosso scimmione? Hai volato troppo senza di me. Non è ora di noleggiare una brava hostess per i tuoi viaggi sulla Luna?

La ragazza avanzò verso di lui col suo passo flessuoso. Era davvero una buona hostess, una pubblicità ambulante per la SAS. Gonna corta, giacchettino aderente, berretto posato con un’inclinazione sbarazzina sopra i capelli biondo cenere… proprio il tipo sognato dal viaggiatore stanco! Alta quasi quanto Nils, sembrava uscita da un film svedese. E, guarda caso, era anche la hostess migliore e più esperta delle linee aeree.

La ragazza afferrò le mani di Nils e le strinse fra le sue, facendoglisi vicina.

— Non è vero, eh? — domandò — che non voli più?

— Non volo più con la SAS, almeno per ora. Ho altri incarichi.

— Lo so: roba grossa, segretissima. La propulsione Daleth. Ne parlano tutti i giornali. Ma non riesco a credere che noi due non voleremo più insieme!

Mentre diceva questo, gli si fece ancora più vicina e Nils sentì il tepore di lei contro il fianco. Poi la ragazza si ritrasse: era troppo abile per mostrare qualcosa di più, in pubblico.

— Lo vorrei tanto! — sbottò Nils. E tutti e due risero forte per l’impeto improvviso della sua voce.

— La prima volta che vai all’estero, fammelo sapere. — Inger guardò l’orologio e gli lasciò andare la mano. — Devo scappare, ora. L’aereo parte tra un’ora.

Salutò con un gesto e sparì. Lui si allontanò nella direzione opposta, portando con sé il ricordo della ragazza. In quanti paesi era successo? In sedici, o giù di lì. La prima volta che lei aveva fatto parte del suo equipaggio erano finiti a letto insieme, come per una decisione reciproca, istintiva.

Era successo a New York, d’estate. Oltre il vetro della finestra d’albergo si stendeva un inferno fuligginoso. Ma la tapparella era abbassata, e loro due si erano abbandonati l’uno all’altra senza riserve. Nessun senso di colpa; solo una piacevole accettazione del passato e del futuro. Lui difficilmente pensava a Inger quando lei non era presente, né era geloso degli altri. Ma quando si incontravano, erano un cuore solo.

E dopo una notte particolarmente divertente, trascorsa sopra un morbido materasso di Karachi, si erano messi a contare le città dove avevano fatto all’amore. Senza fiato dal ridere, Nils aveva comprato un album di foto di bassorilievi erotici tolti dai templi e avevano anche cercato di scimmiottare qualche scena, ma ridevano troppo per concludere qualcosa. Poi erano rimasti lì, a discutere sul numero delle città in cui avevano sostato. Da allora in poi ne avevano sempre tenuto nota. Nils approfittava dei suoi diritti di anzianità per scegliere tra i diversi voli, in modo che potessero trovarsi insieme e aggiungere nuovi nomi all’elenco sempre più lungo. Ma Copenaghen, no… E neppure in Scandinavia. Mai a casa. C’era un intero mondo, fuori, che potevano godersi insieme. Là era diverso. Un accordo implicito, di cui entrambi sapevano ma di cui non parlavano mai.

Nils spalancò la porta del terminal principale e si schiarì la gola. Una voce femminile annunciava all’altoparlante in una dozzina di lingue i voli in partenza. Danese e inglese, più la lingua del paese dove l’aereo era diretto: francese per il volo con destinazione Parigi, greco per quello con destinazione Atene e perfino giapponese per il volo di Tokio. Nils si fece strada tra la folla fino alla più vicina tabella degli arrivi e delle partenze. C’era un aereo di collegamento che partiva presto per Malmö sull’altra sponda del Sound, in Svezia, e che faceva al caso suo. Skou trovava sempre nuovi modi per eludere ogni eventuale tentativo di seguirli, e questo era il suo ultimo espediente. Ottimo, bisognava ammetterlo.

Nils rimase nella sala d’attesa principale fino a due minuti prima della partenza. Poi attraversò la sezione amministrativa dell’edificio, dove i passeggeri non potevano entrare. Ciò avrebbe stroncato definitivamente le manovre di eventuali pedinatori. Alcune persone lo salutarono e infine si ritrovò fuori, sulla pista di decollo, proprio mentre gli ultimissimi viaggiatori stavano salendo sull’aereo per Malmö. Salì dietro a tutti, e lo sportello si chiuse alle sue spalle. La hostess lo conosceva, e quindi non dovette neppure mostrarle il passaporto: così andò a sedersi sul sedile dell’ufficiale di rotta e si fece una chiacchierata coi piloti durante il brevissimo tragitto. Quando atterrarono, la ragazza lo fece uscire per primo e lui andò direttamente al parcheggio. Là c’era ad attenderlo Skou, al volante di una Humber nuova, intento a leggere un giornale sportivo.

— Che cosa è successo a quella gamie raslekasse che guidate abitualmente? — domandò Nils, sistemandosi accanto a lui.

— Quel vecchio macinino rumoroso! Ha sul gobbo migliaia di chilometri. È finito in un’officina per qualche riparazione di poco conto.

— Hanno tenuto buono il volante per costruirci sotto un’auto nuova?

Skou arricciò il naso con aria di disprezzo e uscì dall’aeroporto, dirigendosi a nord.

Una volta fuori dalla città, la strada costiera saliva e scendeva serpeggiando tra i paesetti, rivelando a sinistra rapidi scorci del Sound, che faceva capolino fra gli alberi. Skou era concentrato nella guida e Nils aveva ben poco da dire. Pensava a Inger, e i ricordi riaffioravano uno dopo l’altro. Lui di solito viveva i vari momenti della sua esistenza così, come venivano, facendo progetti futuri solo per lo stretto necessario e dimenticando il passato come qualcosa di ormai lontano e inalterabile. Sentiva la mancanza del volo, questo era indubbio, e si rendeva conto che quello era stato l’elemento principale della sua vita, intorno al quale aveva ruotato ogni altra cosa. Non pilotava un aereo da… quando? Da prima del viaggio sulla Luna. Gli sembrava di essere sepolto da anni negli uffici di quel lurido cantiere. La breve gita da Kastrup lo aveva semplicemente stuzzicato… Un passeggero!

— Ehi! — sbottò all’improvviso. — Fatemi guidare un po’, Skou. Intanto vi guardate il panorama.

— Ma questa è un’auto del governo!

— E io sono uno schiavo del governo. Su! Altrimenti vi denuncio ai vostri superiori per ubriachezza nelle ore di servizio.

— Ho bevuto una birra a pranzo… Una birra svedese a bassissima gradazione alcolica, per essere precisi. Dovrei denunciare io voi, per ricatto ed estorsione.

Comunque frenò e i due si scambiarono il posto. Skou non fece commenti quando l’altro premette con forza il pedale dell’acceleratore, facendo salire bruscamente di giri il motore.

C’era pochissimo traffico e la visibilità era buona; il sole prossimo al tramonto cercava di farsi strada tra le nubi. La Humber si comportava come una macchina sportiva e Nils era un pilota eccellente, che andava forte, ma senza correre rischi.

Era quasi buio quando arrivarono a Hälsingborg. Attraversarono sobbalzando i binari della ferrovia per raggiungere più in fretta il terminal della nave traghetto, imboccarono un vicolo e furono i primi a salire con l’auto a bordo, fermandosi proprio dietro il cancello pieghevole, sulla prua. Skou si mise in coda per comprare durante la breve traversata un pacchetto di sigarette senza il sovrapprezzo della dogana, ma Nils rimase nell’auto. La corsa in macchina, per quanto breve, gli aveva fatto bene. Guardò le luci del castello e del porto di Helsingør che si avvicinavano e pensò che i lavori sulla Galatea erano quasi terminati.

Il guardiano che stava all’entrata del cantiere navale riconobbe Skou e li lasciò entrare senza difficoltà.

— Come vanno le misure di sicurezza? — domandò Nils.

— La segretezza è la maggiore misura di sicurezza. Finora le spie non hanno messo in relazione con il segretissimo progetto Daleth l’hovercraft a cui si è fatto tanta pubblicità. Perciò le guardie dislocate qua e là sono travestite. Ne avete visto una anche voi, che vendeva panini con salsicce sull’altro lato della strada.

— Perbacco! E si tiene i guadagni?

— Ma no! Riceve già un salario.

Parcheggiarono nel solito punto dietro gli edici, E Nils si appartò nell’ufficio per infilarsi la tuta. Il cantiere era silenzioso: si udiva rumore solo intorno alla Galatea, dove si lavorava senza interruzione, ventiquattro ore su ventiquattro. Erano state accese le lampade ad arco per illuminare lo scafo ancora arrugginito e incompleto, ma quello era uno stratagemma: la sabbiatura e la verniciatura venivano rimandate all’ultimo momento.

Dentro… era un’altra cosa. Salirono la scaletta ed entrarono attraverso la camera stagna di coperta. Quando la porta esterna fu chiusa, si accesero le luci, illuminando un corridoio bianco, con pavimento di linoleum e pannelli di teak alle pareti. L’illuminazione era indiretta, discreta. Fotografie della Luna incorniciate stavano appese alle pareti.

— Davvero lussuosa — disse Nils. — L’ultima volta che ci sono stato, il corridoio era ancora d’acciaio dipinto di rosso.

— Non si discosta molto dal piano originale — disse Ove Rasmussen, entrando non visto. — L’interno andava bene così. Naturalmente sono stati fatti dei cambiamenti, ma in quasi tutte le cabine e le parti che non hanno una funzione specifica riguardo alla nuova propulsione, le trasformazioni sono state minime. Hanno fatto sparire le foto dei castelli e delle casette dal tetto di paglia, e ci hanno messo invece quelle della Luna mandate dai sovietici in segno di gratitudine. Venite con me, ho una lieta sorpresa per voi.

Percorsero un corridoio con un lungo tappeto e due file di porte ai lati. Ove indicò l’ultima porta e disse: — Prima voi, Nils. — Sopra c’era una targhetta di ottone con la scritta Capitano. Nils spalancò l’uscio.

Era una cabina grande, adibita in parte a ufficio e in gran parte a soggiorno, con una camera da letto che si apriva sul fondo. Il tappeto blu era tempestato di piccole stelle lucenti e sulla scrivania ultramoderna, di palissandro con parti cromate, erano montati un pannello di strumenti e una fila di citofoni.

— Un po’ diverso dagli aerei dalla SAS — disse Ove, sorridendo all’espressione incantata di Nils. — E anche da quelli delle Forze Aeree. E là c’è la foto della vostra prima nave, secondo una classica tradizione marinara.

Sopra la cuccetta stava una grande fotografia a colori del piccolo sottomarino Blaeksprutten, posato sulla pianura lunare. La Terra spiccava chiaramente sullo sfondo.

— Un altro dono dei russi? — domandò Nils.

— Un dono personale del maggiore Shavkun. Ha scattato la fotografia prima della partenza, ricordate? Guardate, l’hanno firmata tutti e tre.

— Una mano di vernice all’esterno, e Galatea è pronta a salpare, no? E come va il settore della propulsione?

— Il generatore a fusione è a bordo, ed è stato provato. Mancano ancora alcune cose di poca importanza. E la propulsione Daleth, naturalmente. È stata costruita e sperimentata nel laboratorio dell’istituto. Verrà installata per ultima.

— Proprio per ultima — sottolineò Skou. — Vogliamo evitare al massimo di mettere in tentazione le nostre spie. Comunque l’università è sorvegliata da un buon numero di militari; immagino quindi che dovrebbero rivolgere là la loro attenzione. — Sorrise. — Tutti gli alberghi sono pieni, e abbiamo un notevole afflusso di valute straniere. È una nuova industria turistica.

— E voi siete nel paradiso della sicurezza! — osservò Nils. — Ora capisco perché guidate una Humber nuova. Dov’è Arnie Klein?

— Vive a bordo da due giorni — disse Ove. — Da quando sono state completate le prove al banco della propulsione Daleth. Lavora al mio generatore a fusione e vi assicuro che ha già apportato almeno cinque miglioramenti brevettabili.

— Andiamo da basso. Voglio vedere la mia sala macchine. — Nils si guardò attorno un’ultima volta con ammirazione, prima di decidersi a richiudere la porta. — Ci vuole un po’ ad abituarsi a tutto questo. Sta diventando un compito assai più imponente di quanto pensassi.

— Non spaventatevi — disse Ove. — Per ora è una nave, ma subito dopo il decollo sarà una macchina volante. Una specie di super settecentoquarantasette che avete già pilotato. Dovete convenire che è assai più facile per voi che non per un capitano della marina imparare a far volare una nave.

— Che cosa succede?

Skou si era fermato di botto, con le narici dilatate per l’ira.

— La guardia! Dovrebbe trovarsi lì, davanti alla sala macchine. Ventiquattro ore su ventiquattro. — Si mise a correre pesantemente, zoppicando un poco, e si lanciò contro la porta. Era chiusa.

— Chiusa dall’interno — disse Nils. — C’è un’altra chiave, da qualche parte?

Skou non perse tempo a cercare una chiave. Estrasse una piccola pistola da una fondina nascosta nella cintura dei pantaloni e la puntò contro la serratura. Si udì un’esplosione e l’atma gli sobbalzò in mano. Dalla toppa uscì una nuvoletta di fumo, gonfiandosi tutta, e la porta si aprì. Ma solo di pochi centimetri, perché qualcosa, dietro, la bloccava. Comunque dalla fessura si scorsero i pantaloni azzurri della guardia caduta sul pavimento, contro il battente. Quando spinsero più forte, il corpo si spostò, inerte.

— Professor Klein! — chiamò Skou, passando con un balzo sopra l’uomo disteso. Si udirono altri tre rapidi spari, e lui continuò ad avanzare, gettandosi a terra. Teneva puntata la pistola, ma non rispose al fuoco. — State indietro! — gridò agli altri due, poi si levò in piedi.

Ove esitò, ma Nils si lanciò in avanti, rotolando sopra la guardia. Si rialzò giusto in tempo per cogliere il guizzo di un movimento, mentre la grande camera stagna della sala macchine si chiudeva e si precipitò contro la porta, ma questa non si mosse.

— Chiusa dall’altra parte. Dov’è Arnie?

— Con loro. L’ho visto. Due uomini lo portavano via. Erano armati. — Skou aveva estratto la sua radio portatile, ma da quella non provenivano che scariche.

— La radio non può funzionare qui dentro — gli ricordò Ove, chinandosi sulla guardia. — Siamo circondati da metallo. Correte in coperta! Quest’uomo è solo svenuto, l’hanno colpito con qualcosa.

Skou e Nils gli passarono davanti, rapidi come il baleno. Poiché per la guardia non poteva far nulla in quel momento, Ove balzò in piedi e seguì gli altri due.

Entrambe le porte della camera stagna erano aperte, e Skou, sul ponte scoperto, gridava qualcosa nella sua radio. I risultati furono immediati; perché anche quel caso di emergenza era stato previsto.

Tutte le luci del cantiere si accesero contemporaneamente, compresi i riflettori montati sui muri e le lampade ad arco installate sulle gru e sulle navi in costruzione. Era chiaro come in pieno giorno. Le sirene ulularono nel porto e i fari sferzavano l’acqua nera, mentre due lance della polizia bloccavano anche quello sbocco. Nils gattaiolò giù per la scala, a pochi metri dal suolo balzò a terra e partì a razzo, girando intorno allo scafo in direzione della poppa, dove c’era la camera stagna. La porta esterna era aperta, e lui intravide rapidamente due figure. Subito afferrò per il braccio un poliziotto che arrivava ansando.

— Avete una radio? Bene. Chiamate Skou. Ditegli che si sono diretti verso l’acqua. Probabilmente hanno una barca. Non sparate! Sono in due e si trascinano via il professor Klein. Non possiamo rischiare di ferirlo. — Il poliziotto annuì, si attaccò alla radio e Nils continuò a correre.

Nel cantiere era scoppiato il finimondo. Gli operai scappavano a nascondersi, mentre le auto della polizia entravano a velocità pazza dai cancelli, a sirene spiegate.

Skou trasmise a tutti il messaggio di Nils, con voce rotta, senza smettere di correre. Davanti a lui, alcuni agenti convergevano verso la banchina e l’invasatura, dove l’intelaiatura di una nave in costruzione si protendeva rugginosa verso il cielo.

Ad un tratto, una fiammata rossa partì da dietro una pila di lamiere. Un agente sì piegò su se stesso, premendosi le mani sull’addome, e crollò. Gli altri due si misero al riparo, puntando le rivoltelle.

— Non sparate! — ordinò Skou, avanzando solo. — Illuminate quel punto lassù.

Qualcuno spostò una pesante lampada ad arco nella direzione indicata dal faro di un’auto della polizia. La sua luce brillava, bianca come quella del giorno. Skou corse avanti, zoppicando, sempre solo.

Allora si vide un uomo tutto vestito di nero balzare in piedi, riparandosi gli occhi con la mano, e puntare una pistola a canna lunga. Sparò una, due volte, e un proiettile andò a conficcarsi vicinissimo a Skou, mentre l’altro gli sfiorava la giacca. Il capo dei servizi di sicurezza si fermò; alzò la propria rivoltella, poi l’abbassò lentamente per prendere di mira il bersaglio. Era calmissimo, come se stesse esercitandosi al tiro a segno. Lo sconosciuto sparò di nuovo, ma dall’arma di Skou partì un colpo quasi nel medesimo istante.

L’uomo barcollò, girò su se stesso e cadde sulle lamiere d’acciaio, mentre la pistola gli sfuggiva di mano.

Skou fece cenno a due agenti di esaminare il corpo, e riprese a correre. Un cordone di guardie e poliziotti avanzava dietro di lui, e una motolancia della polizia si avvicinò alla riva, col motore rombante e il faro che frugava nelle ombre profonde dello scalo di costruzione.

— Eccoli là! — gridò qualcuno mentre il faro smetteva di cercare e si fermava in un punto preciso. Anche Skou si fermò e bloccò gli altri con un segnale convenuto. Davanti a lui, le lastre piene di bulloni della chiglia formavano una specie di palcoscenico. La scena era bene illuminata e il dramma che vi si recitava parlava di vita e di morte. Un uomo completamente vestito di un nero luccicante dalla testa ai piedi, si inginocchiò dietro la forma abbandonata di Arnie Klein. Con un braccio lo sosteneva, facendosene scudo, e nell’altra mano stringeva una pistola con la canna appoggiata alla tempia del professore. Le sirene, terminato il loro compito, tacquero. Ormai l’allarme era dato. Cadde un silenzio improvviso e pesante. La voce dell’uomo risuonò alta e aspra, scandendo chiaramente le parole.

— Non avvicinatevi… o lo uccido!

Si era espresso in un inglese dal forte accento straniero, ma comprensibile. Nessuno degli spettatori si mosse, e l’uomo cominciò a trascinare la figura inerte di Arnie lungo la chiglia, verso il bordo dell’acqua.

In quel momento Nils Hansen sbucò dalle tenebre alle spalle dello sconosciuto e protese una mano poderosa che immobilizzò il polso dell’altro, torcendolo, cosicché la canna della rivoltella si rivolse in alto, verso il cielo, lontano dalla tempia di Arnie. L’uomo vestito di nero urlò per il dolore e per la sorpresa, e dalla pistola partì un proiettile che andò a perdersi nel buio.

Con la mano libera, Nils strappò Arnie alla stretta del rapitore e si chinò lentamente per stenderlo sulla lastra d’acciaio sottostante.

Lo sconosciuto si divincolò inutilmente, poi cominciò a tempestare di pugni Nils che ignorò quella gragnuola fino a che non si fu raddrizzato di nuovo. Soltanto allora allungò l’altra mano, strappò l’arma al prigioniero e la lanciò lontano. Poi colpì lo sconosciuto con un poderoso ceffone. L’uomo girò su se stesso e rimase lì, penzoloni, sostenuto solo dal solido braccio del pilota.

— Voglio parlargli! — gridò Skou precipitandosi verso di loro.

Nils ora teneva il prigioniero con tutte e due le mani, scuotendolo come una grossa bambola, e protendendolo verso Skou. L’uomo indossava uno scafandro da subacqueo, e un paio di baffi sottili come una linea di matita correvano lungo il labbro superiore. Sopra una guancia spiccava, rossa, l’impronta di cinque grosse dita.

Per un istante il rapitore si divincolò nella stretta spietata di Nils, guardando il poliziotto che si avvicinava. Poi desisté, accorgendosi forse che non c’era scampo. Ogni resistenza cessò. Improvvisamente portò una mano alla bocca e spezzò con i denti l’unghia del pollice in un gesto apparentemente infantile.

— Fermatelo! — urlò Skou, cercando di fare ancora più in fretta.

Troppo tardi. Un’espressione di pena passò sulla faccia dello sconosciuto. Gli occhi si dilatarono, la bocca si spalancò in un grido senza suono. L’uomo si contorse tra le braccia di Nils, il suo dorso si inarcò sempre più, terribilmente, fino a che il suo corpo si abbandonò inerte.

— Lasciatelo andare — disse Skou, sollevandogli una palpebra. — È morto. Veleno sotto l’unghia.

— Anche l’altro è morto — disse un agente. — L’avete colpito…

— So dove l’ho colpito.

Nils si chinò sopra Arnie, che cominciava ad agitarsi, muovendo la testa, ma ancora con gli occhi chiusi. Aveva una grossa contusione dietro l’orecchio.

— Mi sembra in buono stato — disse il pilota, alzando gli occhi. Poi vide sui pantaloni e sulla scarpa di Skou del sangue che gocciolava fin sulla lastra di metallo. — Ma voi siete ferito!

— È la solita gamba — rispose Skou. — La gamba bersaglio, che colpiscono sempre. Non è niente. Portate subito il professore all’ospedale. Che baraonda! Non riesco a capire come ci abbiano scoperto. Sarà tutto più difficile, d’ora in poi.

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