Seduto al buio sul ponte di comando, nella sua poltroncina, Nils Hansen cercava di immaginare se stesso che azionava i comandi della Galatea. Abitualmente non era dotato di molta fantasia, ma all’occorrenza sapeva raffigurarsi il veicolo che avrebbe dovuto pilotare e ne prevedeva il probabile comportamento… Aveva collaudato quasi tutti i nuovi reattori acquistati dalla SAS e gli apparecchi sperimentali delle Forze Aeree. Prima di salire su un aereo, ne studiava attentamente la pianta e le caratteristiche costruttive, entrava in un simulatore di volo e parlava a lungo coi tecnici. Cercava di conoscere nei minimi particolari il veicolo che gli veniva affidato, di apprendere tutto il possibile prima di trovarsi a tu per tu con lui, nel cielo. Non si stancava mai, non aveva fretta. Gli altri trovavano esasperante la sua pignoleria, ma Nils li lasciava dire… Una volta staccato da terra, avrebbe potuto contare solo su se stesso. Più ne sapeva, più probabilità aveva di fare un volo fortunato e di tornarsene vivo.
Ora le sue facoltà erano tese al massimo. Quel veicolo era così incredibilmente grande, i principii su cui si basava così nuovi… Tuttavia aveva già pilotato il Blaeksprutten, e quell’esperienza gli era preziosa. Ricordandosi delle difficoltà incontrate, aveva collaborato con i tecnici nella progettazione dei comandi e della strumentazione di bordo. Allungò una mano e sfiorò lievemente la leva, la stessa leva standard di un Boeing 707. Si sentì quasi a suo agio. Quella era collegata attraverso il computer alla propulsione Daleth e sarebbe stata usata per le manovre di precisione come il decollo e l’atterraggio. E poi l’altimetro, l’indicatore della velocità rispetto all’aria, quello della velocità effettiva, e molti altri dispositivi… I suoi occhi andavano dall’uno all’altro strumento senza mai sbagliare, nonostante l’oscurità.
Un grosso oblò di vetro, inserito nella parete d’acciaio davanti a lui, permetteva di vedere buona parte del cantiere e del porto. Anche se erano passate le due del mattino ed Helsingør dormiva da un pezzo, la zona intorno al cantiere era piena di movimento. Le auto della polizia incrociavano lentamente lungo la banchina e scrutavano coi loro fari nelle piccole strade laterali. Un plotone di soldati si muoveva in formazione sparsa tra gli edifici. Alcuni riflettori supplementari erano stati montati sopra le normali lampade stradali, e l’intera zona era illuminata a giorno. La motosilurante Hejren se ne stava ancorata trasversalmente nella parte più vicina del porto, con le torrette pronte a sparare.
La porta si aprì, lasciando passare il ronzìo dei motori, ed entrò il radiotelegrafista, che si diresse al suo posto. Dietro di lui veniva Skou, che saltellava appoggiandosi a una stampella. Rimase un attimo ritto accanto a Nils, lanciando un’occhiata all’imponente spiegamento di forze visibile all’esterno, poi, con una specie di grugnito di approvazione, si lasciò cadere nella poltroncina del secondo pilota.
— Lo sanno che siamo qui — disse — ma non sapranno altro. Dunque, a che punto è questa vecchia carcassa?
— Controlli su controlli… Ho fatto del mio meglio, e tecnici e ispettori hanno esaminato minuziosamente ogni parte dell’attrezzatura. Ecco qui i rapporti firmati. — Gli allungò una grossa cartelletta piena di fogli e aggiunse: — Niente di nuovo su quei figuri della settimana scorsa?
— Niente nel modo più assoluto. Equipaggiamento da sub acquistato qui a Copenaghen. Nessun segno, nessun documento. Le pistole erano tedesche, della seconda guerra mondiale. Speravamo di trovare una traccia esaminando le impronte digitali, ma ci siamo sbagliati. Ho controllato personalmente. Due esseri invisibili spuntati dal nulla.
— Allora, non saprete mai da che paese venivano?
— In fondo, non mi importa. Dopo quel putiferio, tutto il mondo sa che qui sta accadendo qualcosa. Ma che cosa, con precisione, nessuno lo sa, e io ho tenuto lontano tutti quanto basta per impedir loro di saperne di più. — Si protese per leggere il quadrante luminoso dell’orologio. — Non manca molto alla partenza. Tutto pronto?
— Tutti ai loro posti, pronti a partire quando riceveranno l’ordine. Tranne Henning Wilhelmsen. Se n’è andato a dormire, in attesa di essere chiamato.
— Meglio svegliarlo adesso.
Nils prese il ricevitore del telefono e formò il numero di Henning, che rispose subito.
— Comandante Wilhelmsen, qui.
— Ponte di comando. Per favore, presentatevi ora.
— Immediatamente.
— Là — disse Skou, indicando la strada in fondo al porto, dove erano apparsi mezza dozzina di soldati in motocicletta. — Funziona tutto come un orologio, e anche meglio! Guardate! Si trovava al castello Fredensborg, a venti minuti di distanza da qui.
Dietro le moto venivano due camion, carichi di militari, che facevano da battistrada a una Rolls Royce nera, lunghissima e lucentissima. Seguivano altri soldati. Come se quell’apparizione fosse un segnale, ed effettivamente lo era, altri camion carichi di truppe uscirono dalla caserma del castello Kronborg, dove stavano pronti in attesa. Quando il convoglio ebbe raggiunto l’ingresso del cantiere, un solido cordone di truppe lo circondò.
— E le luci di bordo? — domandò Nils.
— Potete farle accendere. Ora tutta la città sa con certezza che sta accadendo qualcosa.
Nils girò l’interruttore del quadro di comando, che si illuminò di una luce fredda. Skou si stropicciò le mani e sorrise. — Tutto come un orologio! E notate che io non do ordini a nessuno. Tutto è stato previsto. I «turisti-spie» presenti in città ora staranno cercando di scoprire che cosa succede, ma non possono avvicinarsi. Tra un po’ cercheranno d’inviare messaggi e di partire, e ci riusciranno ancor meno. A quest’ora i buoni danesi sono a letto, e non si lasciano disturbare. Ma tutte le strade sono bloccate, i treni non partono, i telefoni non funzionano. Perfino le corsie delle biciclette sono chiuse. Ogni strada e ogni sentiero, anche quelli che attraversano i boschi, sono sorvegliati.
— E non avete liberato dei falchi, per acchiappare eventuali piccioni viaggiatori? — domandò Nils, con aria innocente.
— No! Perbacco, dovevo forse farlo? — Skou sembrava preoccupato e si morse il labbro. Poi scorse il sorriso di Nils. — State solo scherzando! Non dovreste… Sono un povero vecchio e chissà… il mio orologio interno potrebbe anche fermarsi per una scossa improvvisa!
— Voi ci metterete sottoterra tutti quanti — dichiarò Henning Wilhelmsen, arrivando sul ponte. Indossava la sua uniforme migliore. — Eccomi, signore — disse salutando Nils.
— Già, naturalmente… — fece il comandante, cercando a tentoni il proprio berretto sotto il pannello. — Sedetevi al vostro posto e iniziamo il controllo prelancio.
Finalmente trovò il copricapo e se lo calcò in testa. Si sentiva a disagio, con quello. Allora se lo tolse e guardò l’emblema ricamato sulla parte anteriore: il nuovo simbolo Daleth in campo stellato. Poi, con un rapido movimento, ficcò di nuovo il berretto sotto il quadro dei comandi.
— Scopritevi — ordinò con fermezza. — Nessuno deve portare il berretto, sul ponte.
Skou si fermò sulla porta. — E così nacque la prima grande tradizione delle Forze Spaziali… — osservò, ghignando.
— E non voglio civili sul ponte di comando!!! — gridò Nils, mentre la figura zoppicante si ritirava.
Terminato il controllo, Henning attivò il sistema di comunicazione interna, e la sua voce rimbombò in ogni compartimento della nave, ordinando all’equipaggio di prendere i rispettivi posti. Poi Nils guardò di nuovo fuori dell’oblò, e la sua attenzione fu attratta da un improvviso movimento. Un montacarichi tappezzato alla bell’e meglio di bandiere stava alzandosi da una piattaforma di legno prefabbricata. Si fermò alla curva della prua e venne assicurato in quella posizione: allora alcuni uomini, che trascinavano dei cavi, si arrampicarono su per la scala fino alla parte posteriore del montacarichi. Tutto si svolgeva con la massima regolarità. Il telefono squillò ed Henning rispose.
— I microfoni sono a posto — disse a Nils.
— Bene. Collegateli al sistema di comunicazione interna. Ma prima date il segnale di all’erta a tutti.
L’equipaggio attendeva, ogni uomo al proprio posto. I componenti furono chiamati, uno per uno, mentre Nils guardava la folla dei funzionari che si facevano avanti. Era comparsa anche una banda militare, che suonava vigorosamente, e un sottile filo di musica giungeva attraverso lo scafo sigillato. Poi, presso la piattaforma, la folla si divise e una donna alta e bruna salì per prima la scala.
— La principessa ereditaria Margrethe — disse Nils. — Meglio che ci colleghiamo anche noi.
In un attimo la piccola piattaforma si riempì, e il sistema di comunicazione interna diffuse in tutta la nave un discorso ufficiale. Il discorso fu di una brevità sorprendente: probabilmente era stato Skou a ordinarlo per ragioni di sicurezza. La banda riattaccò e Sua Altezza Reale venne avanti. Un membro dell’equipaggio calò dal ponte della nave una gomena con una bottiglia di champagne appesa all’estremità. La voce della principessa era limpida, le parole semplici.
— Io ti battezzo Galatea.
Il brusco schianto della bottiglia che si spezzava contro lo scafo si udì nitidamente. A differenza dai soliti battesimi, Galatea non fu varata all’istante. I funzionari si ritirarono prima in un punto prestabilito e la piattaforma rimase libera. Soltanto allora venne dato l’ordine di varare. I cunei furono tolti, e un brivido improvviso percorse le strutture possenti.
— A tutti i compartimenti! — disse Nils al microfono. — Controllare che le attrezzature libere siano assicurate, come da istruzioni date. E ora tutti facciano attenzione, perché presto avvertiremo una forte scossa.
Avanzavano sempre più in fretta verso l’acqua scura. Un tremito, che ricordava più il fremito del decollo che non un impatto, fece vibrare la nave quando questa venne a contatto con l’acqua. La sua corsa fu rallentata e infine fermata dalla resistenza delle catene; poi ci fu un notevole rollìo. I rimorchiatori e le scialuppe della manutenzione le si fecero attorno.
— Fatto! — esclamò Nils, staccando le mani dal bordo del pannello dei comandi, a cui si era tenuto ben stretto. — Sempre così emozionante, un varo?
— Macché! — rispose Henning. — Le navi, in genere, sono solo finite a metà quando vengono varate. Mai sentito di una che sia già pronta a salpare, e per di più, con l’equipaggio a bordo. Davvero sconcertante.
— Tempi eccezionali, circostanze eccezionali — sentenziò Nils, calmo, ora che la tensione si era scaricata. — Prendete voi il comando. Fino a quando saremo in mare, l’avrete voi. Però non mandatela a fondo come fareste con uno dei vostri sottomarini!
— Si naviga in superficie quasi sempre! — rispose Henning, orgoglioso delle sue abilità marinare. — Inseriscimi nel circuito di comando — ordinò al radiotelegrafista.
Mentre Henning si assicurava che i supporti fossero stati tolti dai rimorchiatori e che questi ultimi si trovassero nella posizione giusta, Nils controllò tutti i compartimenti. Non si erano avuti danni, l’unità non imbarcava acqua ed era pronta a partire.
Avrebbero potuto usare i loro mezzi, ma era stato deciso che si facessero rimorchiare fuori del porto. Nessuno sapeva come si sarebbe comportata quella nave tanto singolare, ed era meglio mettere in funzione le macchine solo quando sarebbero stati nelle acque libere del Sound. Dopo un breve scambio di acuti fischi, i rimorchiatori partirono. Mentre si muovevano lentamente, seguendo la motosilurante che li precedeva, Nils poté vedere distintamente per la prima volta la scena che si presentava alle loro spalle.
— Un varo segreto… — commentò Henning, indicando la folla che gremiva la banchina. Tutti applaudivano, agitando le mani in segno di saluto, e le chiazze colorate delle bandiere danesi spiccavano ovunque.
— In città sapevano tutti che qui stava accadendo qualcosa. E, una volta in acqua, mica si poteva impedire che venissero a vederci.
I rimorchiatori disegnarono un lungo arco e puntarono verso l’entrata del porto. Il molo e la barriera frangiflutti erano neri di gente, e altra ancora stava accorrendo. Molti erano in pigiama, sotto il cappotto, e mostravano un pittoresco assortimento di berretti di pelliccia, impermeabili e altri capi di emergenza. Nils resisté a fatica all’impulso di rispondere al loro saluto. Finalmente furono fuori, nelle acque dell’Øresund: le prime onde si fransero contro i ponti inferiori, lavando gli stivali degli uomini che tenevano tese le gomene.
Quando furono ben lontani dalla riva, i rimorchiatori fischiarono il loro addio e fecero dietrofront.
— Mollate — disse Henning. — Ponti liberi e boccaporti chiusi.
— Possiamo procedere, allora — disse Nils.
Al posto del secondo pilota erano sistemati dei comandi separati che servivano solo per la navigazione sulla superficie del mare. Due grandi motori elettrici erano montati su cuscinetti assicurati allo scafo della nave. E solo cavi elettrici penetravano lo scafo resistente alla pressione, assicurando così la continuità della tenuta stagna. Ciascun motore muoveva una grande elica a sei pale. Non c’era timone: i cambiamenti di direzione venivano ottenuti variando la velocità relativa delle eliche, che potevano perfino girare in sensi opposti per le rapide virate. Le leve comando spinta e le manovre di sterzo erano controllate solo dal posto del secondo pilota, e la precisione e scioltezza delle manovre erano garantite dal calcolatore, che sovrintendeva all’intera operazione.
Henning spinse in avanti entrambe le leve e Galatea si animò. Non più legata alla riva, non più a rimorchio, era una nave autonoma. Le onde si frangevano contro la prua e spruzzavano il ponte mentre la velocità aumentava. Le luci di Helsingør cominciarono a sparire. Uno schizzo di schiuma colpì l’oblò.
— A che velocità filiamo? — domandò Nils.
— Sei nodi. Stupendo. Lo scafo ha tutte le belle caratteristiche marinare di una salsiera!
— Questa sarà la sua prima ed ultima crociera sull’oceano, dunque calmatevi. — Poi eseguì un rapido calcolo. — Rallentate a cinque, così arriveremo in porto all’alba.
— Bene, signore.
Il primo viaggio stava andando più liscio di quanto si fossero aspettati. Era stata riscontrata solo una piccola infiltrazione d’acqua da uno dei boccaporti, causata da una guarnizione di dimensioni sbagliate, che avrebbero potuto sostituire con una di ricambio appena arrivati. Nella semioscurità del ponte, Nils toccò ferro: c’era da sperare che durasse sempre così.
— Volete un caffè, capitano? — domandò Henning. — Ne ho fatto fare un poco e l’ho messo nei thermos prima che chiudessero la cucina.
— Buona idea Fatelo portare. Alcuni minuti dopo, un marinaio alto, con basette sportive e due baffi imponenti, arrivò col caffè, salutando cordialmente.
— Chi diavolo siete voi? — domandò Nils. Non l’aveva mai visto prima.
— È uno dei mozzi in più che mi avete ordinato di ingaggiare — spiegò Henning. — Abbiamo dovuto cercarli e chiedere informazioni, così sono saliti a bordo solo questo pomeriggio. Jens chiedeva da mesi di essere accettato sulla Galatea. Dice che ha già esperienza di propulsione Daleth.
— Cosa?
— Signorsì. Aiutai a saldare la prima unità sperimentale. Per poco non spezzò la schiena alla nave… Il capitano Hougaard sta ancora cercando qualcuno da denunciare.
— Lieto di avervi a bordo, Jens — disse Nils, provando un certo imbarazzo nell’usare termini nautici, anche se nessuno ci faceva caso.
Il lento viaggio continuava. Ci avrebbero messo di più a percorrere trenta chilometri via mare da Helsingør a Copenaghen, che non le migliaia di chilometri che li separavano dalla Luna. Ma non c’erano alternative. Fino a che la propulsione Daleth non fosse stata installata, la Galatea era soltanto una barcaccia elettrica che andava come una lumaca.
A oriente l’orizzonte mostrava già le strisce d’oro dell’aurora, quando arrivarono all’ingresso del porto franco di Copenaghen, dov’erano in attesa due rimorchiatori che agganciarono la nave, e tornarono indietro, trascinandola delicatamente dentro il Frihavn, verso lo scalo di attesa di Vestbassin.
— Puntualissimo — disse Nils, indicando il convoglio che si fermava in quel momento sulla banchina. — Devono averci seguito continuamente. Skou mi ha detto che c’era poco meno di una divisione di soldati, dislocata qui. Lungo la strada che porta all’Istituto non c’è un metro che non sia sorvegliato. Vorrei che fosse già tutto finito. — Stringeva i pugni, di quando in quando, e quello era l’unico segno esterno di tensione.
— Non può andar storto niente. Troppe precauzioni, comunque…
— Comunque tutte le nostre uova sono nello stesso paniere. Ecco la nostra propulsione! — Indicò la forma coperta di plastica che veniva scaricata da un autocarro aperto, presso una gru. — E certo i professori sono lì anche loro. Tutte in un solo cesto… Ma non preoccupatevi: sembra proprio che ci sia l’intero esercito danese. Solo una bomba atomica potrebbe aver ragione di un simile spiegamento di forze!
— E chi mi dice che non ricorrano a quella? — Henning era bianco come un panno lavato. — Ce ne sono molte nel mondo, no? Chi può impedire a un paese, che non riesce a mettere le mani sulla propulsione, di fare in modo che non se ne serva più nessuno? Equilibrio delle forze…
— Chiudete il becco! Avete troppa fantasia. — Involontariamente, la voce di Nils aveva preso un’asprezza inaspettata. Tutt’e due alzarono gli occhi e trasalirono leggermente quando una formazione di reattori, lucenti nel sole che si stava levando, passarono rombando sopra la loro testa.
— Nostri! — disse Nils, sorridendo.
— Vorrei che si sbrigassero — rispose Henning, per nulla rasserenato.
Era necessario un lavoro di precisione per issare la gigantesca attrezzatura della propulsione Daleth a bordo e montarla; così, nonostante tutti i preparativi precedenti, l’operazione procedeva con lentezza esasperante. Mentre Galatea veniva solidamente ormeggiata alla banchina e si trafficava per aprire il grande boccaporto sul ponte di poppa, l’immensa gru se ne stava china su di esso col lungo collo metallico, pronta a sollevare il portello al momento opportuno. Quel boccaporto sarebbe servito una sola volta, poi l’avrebbero sigillato con una saldatura. Finalmente la grande lastra d’acciaio fu sollevata in aria, girò lentamente e venne deposta a riva. Nell’attimo in cui l’apertura rimase libera, l’altra gru si protese stringendo l’oscillante forma tubolare dell’attrezzatura Daleth. Con movimenti precisi, questa scomparve subito dentro il boccaporto.
Squillò il telefono, e Nils staccò il ricevitore. Ascoltò, annuendo. — Va bene. Nella mia cabina, lo ricevo là. — Poi riappese, ignorando lo sguardo interrogativo di Henning. — Prendete voi il mio posto. Torno subito — disse.
Un ufficiale nell’uniforme della Guardia del Corpo Reale era là ad attenderlo. L’uomo salutò e gli porse una grossa busta color crema, sigillata con ceralacca rossa. Nils riconobbe lo stemma, impresso nella ceralacca.
— Devo attendere la risposta — disse l’ufficiale.
Nils annuì e aprì la busta. Lesse il breve messaggio, poi andò alla scrivania. In un cassetto c’era la carta da lettere intestata col nome della nave, messa lì da qualche solerte ufficiale e che fino a quel momento era passata inosservata. Ne prese un foglio, scrisse poche parole. Chiuse il tutto in una busta e la consegnò all’ufficiale.
— Suppongo che non sia necessario l’indirizzo, vero? — domandò.
— No, signore. — L’uomo sorrise. — Permettete che da parte mia, da parte di tutti, vi faccia i miei migliori auguri. Non avete idea di che cosa provi il Paese, oggi.
— Credo di cominciare a capirlo. — E si salutarono con una stretta di mano.
Di ritorno sul ponte, Nils pensò alla lettera che se ne stava al sicuro nella sua cassaforte.
— Naturalmente, non mi direte nulla, vero? — domandò Henning.
— E perché dovrei? — Ammiccò, poi chiamò a sé il radiotelegrafista, l’unica persona che stava sul ponte in quel momento. — Neergaard, prendetevi un po’ di riposo — disse. — Tornate fra quindici minuti.
Ci fu silenzio fino a che la porta non si fu richiusa.
— Veniva dal Re — disse allora Nils. — La cerimonia pubblica di questo pomeriggio non è che una commedia. Una finta. Stanno per annunciarla e diranno che noi attraccheremo presso il castello Amalienborg… ma non ci andremo affatto. Appena pronti, usciamo di qui e partiamo. Ci augura buona fortuna. Spiacente di non poter venire. Appena fuori del porto, la prima tappa sarà…
— La Luna! — disse Henning, guardando i saldatori intenti al lavoro in coperta.