CAPITOLO SESTO

Qualche volta, Andrew aveva la sensazione che la gioia di Damon fosse visibile: qualcosa che si poteva scorgere e misurare. In quei momenti, via via che i giorni si allungavano e l’inverno avanzava sulle Colline di Kilghard, Andrew non poteva fare a meno di provare un’amara invidia. Non portava rancore a Damon per la sua felicità: ma avrebbe voluto condividerla.

Anche Ellemir era raggiante. Qualche volta Andrew rabbrividiva pensando che i servitori di Armida, gli estranei, lo stesso Dom Esteban, notavano quella differenza e ne davano la colpa a lui: perché quaranta giorni dopo le nozze Ellemir appariva così felice, mentre di giorno in giorno Callista diventava più pallida e grave, più chiusa e addolorata.

Andrew non era infelice. Frustrato, sì, perché era una tortura essere così vicino a Callista — sopportare gli scherzi e le battute che toccavano, immaginava, a tutti gli sposi novelli della galassia — e essere separato da lei da una linea invisibile che non poteva varcare.

Eppure, se si fossero conosciuti normalmente, ci sarebbe stata una lunga attesa. Continuava a ripetersi che si erano sposati quando si conoscevano da meno di quaranta giorni. E così poteva stare con lei, imparare a conoscerla esteriormente come l’aveva conosciuta nella mente e nello spirito quando lei era nelle mani degli uomini-felini, imprigionata nell’oscurità delle caverne di Corresanti. Allora, quando per una ragione inspiegabile lei non era riuscita a collegarsi con nessuna mente di Darkover eccettuata la sua, i loro pensieri si erano toccati, così profondamente che neppure anni e anni di vita in comune avrebbero potuto creare un legame più stretto. Prima ancora di vederla l’aveva amata, per il suo coraggio di fronte al terrore, per ciò che avevano sopportato insieme.

Adesso stava imparando ad amarla anche per i dettagli esteriori: per la sua grazia, la voce dolce, il fascino lieve e la prontezza di spirito. Lei riusciva perfino a scherzare su quella frustrante separazione, e Andrew non ne era capace. E amava anche la gentilezza con cui trattava tutti: dal padre, invalido e spesso stizzoso, fino al più giovane e goffo dei servitori.

Una cosa cui non era preparato era il fatto di scoprirla così taciturna. Nonostante il suo spirito pronto e la vivacità con cui sapeva ribattere, Callista trovava difficile parlare delle cose che per lei erano importanti. Andrew aveva sperato che avrebbero potuto parlare insieme liberamente dei loro problemi, del suo addestramento nella Torre, del modo in cui le era stato insegnato a non reagire mai con la minima sensibilità sessuale. Ma lei taceva; e le poche volte che Andrew aveva tentato d’indurla a parlarne, Callista aveva distolto la faccia, balbettando e ammutolendo, con gli occhi pieni di lacrime.

Andrew si chiedeva se il ricordo era tanto doloroso, e si sentiva invadere nuovamente dall’indignazione per il modo barbaro in cui era stata deformata la vita di una giovane donna. Sapeva che alla fine lei si sarebbe sentita abbastanza libera da parlarne: non riusciva a pensare ad altro che potesse aiutarla a scrollarsi da dosso quella costrizione. Ma per il momento, poiché non voleva obbligarla a far nulla, neppure a parlare contro la sua volontà, attendeva.

Come Callista aveva previsto, non era facile esserle tanto vicino e tanto lontano. Dormire nella stessa stanza, sebbene non dividessero lo stesso letto; vederla assonnata e bellissima, al mattino, tra le lenzuola, vederla semisvestita, con i capelli sciolti sulle spalle… e tuttavia non osare più di un fuggevole contatto casuale. La sua frustrazione assumeva strane forme. Una volta, mentre lei era in bagno, Andrew, impacciato ma incapace di resistere, aveva preso la sua camicia da notte e se l’era portata appassionatamente alle labbra, aspirando la fragranza del suo corpo e il delicato profumo che lei usava. Si sentiva stordito e vergognoso, come se si fosse abbandonato a una perversione innominabile. Quando lei era tornata non aveva osato guardarla in faccia, comprendendo che la mente dell’uno era aperta a quella dell’altra e che Callista sapeva ciò che lui aveva fatto. Aveva evitato i suoi occhi e si era allontanato in fretta, perché non voleva affrontare il disprezzo — o la pietà — che immaginava sul volto di Callista.

Si era chiesto se lei avrebbe preferito che andasse a dormire altrove; ma quando gliel’aveva domandato, lei aveva risposto timidamente: — No, mi piace averti vicino. — Andrew aveva pensato che forse quell’intimità, anche se asessuata, era un primo passo necessario per il risveglio.

Quaranta giorni dopo le nozze, i venti e le raffiche di neve lasciarono il posto a pesanti nevicate, e Andrew si ritrovò occupatissimo a organizzare la sistemazione dei cavalli e del bestiame, a immagazzinare il foraggio in zone riparate, a ispezionare e approvvigionare i rifugi dei mandriani nelle valli più alte. Stava lontano per giorni e giorni, passando le giornate in sella e le notti in ripari all’aperto o in remote fattorie che facevano parte dell’immensa tenuta.

Allora comprese che Dom Esteban era stato saggio a insistere nel volere la festa nuziale. Sul momento, quando aveva saputo che il matrimonio sarebbe stato legale con uno o due testimoni, si era irritato col suocero perché non aveva acconsentito a celebrarlo in privato. Ma quella notte di scherzi e di battute pesanti aveva fatto di lui uno del luogo: non uno straniero venuto da chissà dove ma il genero di Dom Esteban, l’uomo alle cui nozze avevano assistito. Gli aveva risparmiato anni di sforzi per farsi accettare da loro.

Un mattino si svegliò e udì il secco frusciare della neve contro la finestra, e comprese che era arrivata la prima tempesta dell’inverno. Quel giorno non sarebbe uscito a cavallo. Rimase sdraiato ad ascoltare il vento che gemeva fra i tetti della vecchia casa, riesaminando mentalmente la sistemazione del bestiame affidato alle sue cure. Le fattrici nel pascolo sotto i picchi gemelli (c’era abbastanza mangime nei rifugi frangivento, e c’era un ruscello che — gli aveva detto il vecchio mastro stalliere — non ghiacciava mai completamente) se la sarebbero passata abbastanza bene. Avrebbe dovuto separare dal branco i giovani stalloni (forse si sarebbero azzuffati), ma ormai era troppo tardi.

C’era una luce grigia, oltre la finestra, attraverso il bianco vortice della neve. Non ci sarebbe stata l’aurora, quel giorno. Callista giaceva tranquilla nel suo lettino, dall’altra parte della stanza, e gli voltava le spalle, così che lui poteva scorgere solo le trecce sciolte sul guanciale. Callista e Ellemir erano assai diverse: Ellemir si alzava sempre all’alba, Callista non si svegliava mai prima che il sole fosse già alto. Tra poco avrebbe sentito Ellemir muoversi nell’altra metà dell’appartamento: ma era troppo presto.

Callista gridò nel sonno. Un grido di terrore. Ancora un incubo del tempo in cui era stata prigioniera degli uomini-felini? Con un balzo, Andrew le fu accanto: ma lei si levò a sedere, svegliandosi di colpo, e guardò nel vuoto, con la faccia stravolta per l’angoscia.

— Ellemir! — esclamò, trattenendo il respiro. — Devo andare da lei! — E senza rivolgere una parola o uno sguardo a Andrew scivolò fuori dal letto, afferrò una vestaglia e corse via.

Andrew la seguì con lo sguardo, sbigottito, pensando al legame tra le due gemelle. Si era accorto, vagamente, del vincolo telepatico che esisteva tra Ellemir e sua sorella: eppure anche le gemelle rispettavano l’una l’intimità dell’altra. Se il segnale di Ellemir era giunto alla mente di Callista, doveva essere davvero potente. Turbato, cominciò a vestirsi. Si stava allacciando il secondo stivale quando sentì Damon nel salotto dell’appartamento. Andò a raggiungerlo, e il volto sorridente del cognato dissipò le sue paure.

— Devi esserti preoccupato, quando Callista è corsa via a precipizio. Credo che anche Ellemir si sia spaventata, per un momento: ma era più sorpresa che altro. Molte donne non ci vanno soggette, e Ellemir è così sana: ma immagino che un uomo non s’intenda molto, di queste cose.

— Allora non è ammalata gravemente?

— Se lo è, passerà a suo tempo — disse Damon, ridendo. Poi ridivenne serio. — Naturalmente adesso è depressa, povera ragazza, ma Ferrika dice che questa fase passerà fra dieci o venti giorni, perciò l’ho lasciata alle sue cure e al conforto di Callista. Un uomo non può far molto per lei, ora.

Andrew, sapendo che Ferrika era la levatrice della tenuta, comprese immediatamente quale doveva essere la causa dell’indisposizione di Ellemir. — È lecito farti le mie congratulazioni?

— Certamente. — Il sorriso di Damon era luminoso. — Ma la consuetudine vuole che le presenti a Ellemir, piuttosto. Vogliamo scendere a dire a Dom Esteban che avrà un nipote poco dopo il solstizio d’estate?

Esteban Lanart fu felice dell’annuncio, e Dezi commentò, con un sogghigno malizioso: — Vedo che sei molto ansioso di produrre il tuo primo figlio secondo il programma. Davvero ti sei sentito obbligato a rispettare il calendario che ti ha donato Domenic?

Per un istante Andrew pensò che Damon avrebbe scagliato la coppa contro Dezi, ma quello si trattenne. — No, avevo sperato che Ellemir potesse avere un anno o due per sé, senza queste preoccupazioni. Non sono l’erede di un dominio e non avevo bisogno urgente di un figlio. Ma lei lo voleva subito, e aveva il diritto di decidere.

— È tipico di Elli, davvero — disse Dezi, sorridendo senza più malizia. — Tutti i bambini che nascono nella tenuta, lei se li prende in braccio prima che compiano dieci giorni. Andrò a congratularmi con lei, quando si sentirà meglio.

Dom Esteban chiese, quando entrò Callista: — Come sta Ellemir?

— Dorme — rispose Callista. — Ferrika le ha consigliato di stare a letto più a lungo che può, al mattino, finché si sente poco bene: ma dopo mezzogiorno scenderà.

Prese posto accanto a Andrew ma evitò i suoi occhi, e lui si chiese se l’aveva rattristata vedere Ellemir già incinta. Per la prima volta, pensò che forse Callista voleva un figlio: immaginava che molte donne ci tenessero, anche se non se ne era mai fatto un problema.


La tempesta infuriò per più di dieci giorni, con pesanti nevicate, e poi lasciò il posto al cielo sereno e a venti rabbiosi che sollevavano la neve e l’ammucchiavano. E poi ricominciò a nevicare. I lavori, nella tenuta, si fermarono. Percorrendo le gallerie sotterranee, alcuni servitori andavano a curare i cavalli da sella e le mucche; ma non si poteva fare molto di più.

Armida sembrava stranamente silenziosa, senza Ellemir che incominciava a trafficare tutte le mattine di buon’ora. Damon, che la tempesta aveva costretto all’ozio, passava molto tempo accanto a lei. Lo turbava vedere l’effervescente Ellemir che giaceva pallida ed esausta fino a mattina inoltrata e rifiutava di toccare cibo. Era preoccupato per lei, ma Ferrika rideva del suo sgomento e diceva che tutti i mariti si agitano tanto alla prima gravidanza della moglie. Ferrika era la levatrice della tenuta di Armida, e aveva la responsabilità di far venire al mondo i bambini dei villaggi circostanti. Era una responsabilità tremenda, e lei era ancora molto giovane: aveva preso il posto di sua madre soltanto da un anno. Era una donna calma, solida, rotondetta, minuta e bionda; e poiché sapeva di essere giovane per quel lavoro, portava i capelli severamente nascosti da un berretto e indossava abiti semplici e austeri, cercando di sembrare più anziana.

La servitù cincischiava, senza le mani efficienti di Ellemir al timone, anche se Callista faceva del suo meglio. Dom Esteban si lamentava perché, sebbene in cucina ci fossero una decina di donne, il pane era sempre immangiabile. Damon sospettava che in realtà sentisse la mancanza della gaia compagnia di Ellemir. Era imbronciato e stizzoso, e rendeva difficile la vita a Dezi. Callista si dedicava al padre: suonava l’arpa e gli cantava ballate, giocava a carte con lui, gli stava seduta accanto per ore e ore col ricamo sulle ginocchia, ascoltando pazientemente i suoi interminabili racconti di battaglie e campagne del passato, degli anni in cui lui comandava le Guardie.

Una mattina Damon scese tardi e trovò la sala piena di uomini, quasi tutti quelli che quando il tempo era migliore lavoravano nei campi e nei pascoli. Dom Esteban, sulla sedia a rotelle, stava al centro, e parlava con tre uomini dal pesante abito ancora coperto di neve. Qualcuno aveva tagliato i loro stivali, e Ferrika stava inginocchiata ed esaminava loro i piedi e le mani. Il suo simpatico volto rotondo aveva un’espressione profondamente turbata; quando vide avvicinarsi Damon gli parlò in tono di sollievo.

— Nobile Damon, tu eri ufficiale ospitaliero delle Guardie a Thendara: vieni a dare un’occhiata.

Allarmato da quel tono, Damon si chinò a guardare l’uomo di cui Ferrika teneva i piedi. Gettò un’esclamazione costernata. — Cosa ti è successo?

L’uomo davanti a lui, alto e scarmigliato, con i lunghi capelli ancora gelati in ciocche rigide intorno alle guance arrossate, disse, nel pesante dialetto delle montagne: — Siamo rimasti bloccati per nove giorni, Dom, nel rifugio sotto il costone nord. Ma il vento ha abbattuto una parete e non siamo più riusciti ad asciugare i vestiti e gli stivali. Eravamo alla fame, e avevamo viveri solo per tre giorni: così, quando il tempo è migliorato, abbiamo pensato di cercare di arrivare fin qui, o a un villaggio. Ma c’era stata una valanga ai piedi della collina, sotto la vetta, e abbiamo passato tre notti là fuori. Il vecchio Reino è morto assiderato, e abbiamo dovuto seppellirlo nella neve, in attesa del disgelo, ammassandogli sopra un tumulo di pietre. Darrill ha dovuto portarmi fin qui… — Indicò, stoicamente, i piedi bianchi e congelati nelle mani di Ferrika. — Non posso camminare, ma non sono malridotto come Raimon e Piedro.

Damon scosse la testa, avvilito. — Farò tutto quello che posso, ragazzo, ma non ti prometto niente. Sono tutti ridotti così male, Ferrika?

La donna scosse la testa. — Certi non hanno quasi niente. E altri, come puoi vedere, stanno peggio di lui. — Indicò un uomo dai piedi anneriti, quasi maciullati.

Erano quattordici uomini in tutto. Damon li esaminò prontamente, uno dopo l’altro, separando in fretta dagli altri quelli che presentavano solo casi di congelamento limitato, alle dita dei piedi e delle mani e alle guance. Andrew stava aiutando i servitori a portar loro bevande calde e minestre bollenti. Damon ordinò: — Non date loro vino o liquori se non quando sarò sicuro delle loro condizioni. — Separò gli uomini meno gravi e disse al vecchio Rhodri, il maggiordomo di sala: — Conducili nella sala bassa, e chiama qualche donna ad aiutarli. Lavategli bene i piedi con acqua calda e sapone e… — Si rivolse a Ferrika: — Hai estratto di fogliaspina bianca?

— Ce n’è un po’ nella distilleria, nobile Damon: lo chiederò a dama Callista.

— Ungi loro i piedi con quello, e poi fasciali. Tienili al caldo, e dagli minestra calda e tè a volontà, ma niente bevande alcoliche di nessun genere.

Andrew l’interruppe. — E appena qualcuno dei nostri potrà uscire, dovremo mandare ad avvertire le loro donne che sono sani e salvi.

Damon annuì, rendendosi conto che quella era la prima cosa che avrebbero dovuto ricordare. — Ci pensi tu, fratello, ti dispiace? Io devo curare questi poveretti. — Mentre Rhodri e gli altri servitori conducevano gli uomini meno gravi nella sala bassa, si rivolse a quelli che erano rimasti, e che avevano le mani e i piedi congelati.

— Cos’hai fatto per loro, Ferrika?

— Ancora niente, nobile Damon: aspettavo il tuo consiglio. Non ho mai visto una cosa simile, in tanti anni.

Damon annuì, incupendosi. Una gelata come quella, quando lui era un bambino e abitava presso Corresanti, aveva fatto perdere agli uomini del villaggio le dita dei piedi e delle mani, a causa del congelamento. Altri erano morti d’infezioni o di cancrena. — Tu cosa faresti?

Ferrika rispose, esitante: — Non è la cura abituale, ma io immergerei i loro piedi nell’acqua, appena un po’ più calda della temperatura del sangue. Ho già proibito agli uomini di massaggiarsi i piedi, per paura che si stacchi la pelle. Il congelamento è profondo. Saranno fortunati se non perderanno altro che quella. — Un po’ incoraggiata nel vedere che Damon non protestava, aggiunse: — E farei impacchi caldi in tutto il corpo per riattivare la circolazione.

Damon annuì: — Dove l’hai imparato? Temevo di doverti proibire di ricorrere ai vecchi rimedi popolari, che fanno più male che bene. Questa è la cura usata a Nevarsin, e ho dovuto insistere e lottare per farla adottare per le Guardie, a Thendara.

La donna rispose: — Sono stata istruita nella Casa della Corporazione delle Amazzoni ad Arilinn, nobile Damon: là preparano le levatrici per tutti i dominii, e sono esperte di cure e ferite.

Dom Esteban aggrottò la fronte. — Stupidaggini femminili! Quando ero ragazzo c’insegnavano che non bisogna scaldare un arto congelato ma massaggiarlo con la neve.

— Sì — fece l’uomo dai piedi gonfi. — Ho detto a Narron di massaggiarmi i piedi con la neve. Quando a mio nonno si erano congelati i piedi, sotto il regno di Marius Hastur…

— L’ho conosciuto, tuo nonno — l’interruppe Damon. — Ha camminato con due bastoni per tutto il resto della vita, e mi sembra che il tuo amico abbia cercato di assicurarti la stessa sorte, ragazzo mio. Fidati di me, e farò di meglio. — Si rivolse a Ferrika e disse: — Prova con gli impacchi, non solo con l’acqua calda: fogliaspina nera, molto forte. Attirerà il sangue negli arti e poi al cuore. E dagliene anche un po’ nel tè, per attivare la circolazione. — Si girò di nuovo verso l’uomo e gli disse, in tono incoraggiante: — Questa cura viene usata a Nevarsin, dove il tempo è peggiore che qui, e i monaci dicono di aver salvato uomini che altrimenti sarebbero rimasti zoppi per tutta la vita.

Tu non puoi aiutarci, nobile Damon? — implorò Raimon; e Damon, guardandogli i piedi bluastri, scosse il capo. — Non lo so, ragazzo, davvero. Farò tutto il possibile, ma è la cosa peggiore che abbia mai visto. È doloroso, ma…

— Doloroso! — Gli occhi dell’uomo si accesero di sofferenza e di furia. — Non sai dire altro, vai dom? Non significa nient’altro, per te? Non sai cosa significa per noi, soprattutto quest’anno? Non c’è una casa, a Adereis o Corresanti, che non abbia perso un uomo o anche due o tre per colpa di quei maledetti uomini-felini, e l’anno scorso il grano è rimasto a marcire nei campi senza che nessuno lo raccogliesse, e tra queste colline si è già alla fame! E adesso più di una decina di uomini robusti resteranno immobilizzati, sicuramente per mesi, e forse non potranno più camminare, e tu sai dire solo «È doloroso». — Rabbiosamente, nel pesante dialetto, imitò la voce di Damon.

— È tutto a posto per quelli come te, vai dom: voi non soffrirete la fame, qualunque cosa succeda. Ma mia moglie, i miei bambini? E la moglie di mio fratello e i suoi piccini, che ho preso in casa quando mio fratello è impazzito e si è ucciso nelle Terre Tenebrose, e quei gatti d’inferno si sono presi la sua anima? E la mia vecchia madre? E suo fratello, che ha perso un occhio e una gamba nella battaglia di Corresanti? Ci sono pochi uomini validi, nei villaggi, e anche le bambine e le vecchie lavorano nei campi: sono troppo pochi per provvedere al raccolto e badare alle bestie e perfino per abbacchiare le noci prima che la neve seppellisca tutto, e adesso metà degli uomini validi di due villaggi sono qui con le mani e i piedi congelati, forse azzoppati per tutta la vita… «Doloroso»!

Gli tremava la voce per la rabbia e la sofferenza, e Damon chiuse gli occhi sgomento. Era troppo facile, dimenticare. La guerra non finiva, dunque, quando c’era la pace? Lui sapeva uccidere i comuni nemici, o condurre contro di loro uomini armati; ma contro i nemici più grandi — la fame, le malattie, il maltempo, la perdita di uomini validi — era impotente.

— Io non posso comandare al clima, amico mio. Cosa vorresti che facessi?

— C’era un tempo (così mi raccontava mio nonno) in cui i Comyn, quelli delle Torri, le incantatrici e i maghi, sapevano usare le pietre delle stelle per guarire le ferite. Eduin — (l’uomo indicò la guardia al fianco di Dom Esteban) — ti ha visto guarire Caradoc perché non morisse dissanguato, quando la spada di un uomo-felino gli ha tagliato la gamba fino all’osso. Non puoi fare qualcosa anche per noi, vai dom?

Istintivamente, Damon strinse le dita sul sacchettino di pelle che portava al collo e che conteneva il cristallo-matrice ricevuto ad Arilinn, quando era apprendista tecnico psi. Sì, poteva fare qualcosa. Ma da quando era stato allontanato dalla Torre… Si sentì stringere la gola per la paura e la ripugnanza. Era pericoloso e terribile anche solo pensare di fare qualcosa del genere fuori dalla Torre, senza la protezione del Velo elettromagnetico che difendeva i tecnici della matrice da pensieri e minacce provenienti dall’esterno…

Eppure l’alternativa era la morte e l’invalidità per quegli uomini, sofferenze indescrivibili, fame e carestia per i villaggi.

Disse (e sapeva che la sua voce tremava): — È passato tanto tempo, non so se posso fare ancora qualcosa. Zio…?

Dom Esteban scosse la testa. — Non ho mai posseduto simili facoltà, Damon. Il poco tempo che ho trascorso là l’ho dedicato a lavorare ai collegamenti e alle comunicazioni. Avevo pensato che quasi tutte le facoltà terapeutiche fossero andate perdute nelle epoche del caos.

Anche Damon scosse il capo. — No, alcune venivano insegnate ad Arilinn ancora quando c’ero io. Ma da solo non posso far molto.

Raimon disse: — Domna Callista. Lei era una leronis…

Anche questo era vero. Damon replicò, sforzandosi di dominare la voce: — Vedrò cosa posso fare. Per il momento, l’importante è vedere fino a che punto si può ristabilire la circolazione con mezzi naturali. Ferrika — disse alla giovane donna, che era tornata portando boccette e bottiglie di unguenti ed estratti d’erbe, — per ora lascio gli uomini alle tue cure. Dama Callista è ancora di sopra con mia moglie?

— È nella distilleria, vai dom: mi ha aiutata a trovare questa roba.

La distilleria era in un piccolo corridoio dietro la cucina: una stanza stretta, col pavimento di pietra e piena di scaffali. Callista, con i capelli avvolti in uno sbiadito fazzoletto azzurro, stava dividendo mazzetti di erbe secche. Ce n’erano altri, appesi alle travi o nelle bottiglie e nei barattoli. Damon arricciò il naso nel sentire l’acuto odore aromatico, mentre Callista si voltava verso di lui.

— Ferrika mi ha detto che ci sono dei casi gravi di congelamento. Vuoi che venga a fare gli impacchi caldi?

— Puoi fare qualcosa di meglio — disse Damon, posando la mano, in un gesto involontario, sulla matrice isolata. — Dovrò operare la rigenerazione delle cellule, con i più gravi, altrimenti io e Ferrika saremo costretti ad amputare dita delle mani e dei piedi, o anche peggio. Ma non posso farlo da solo: tu devi aiutarmi.

— Sicuro — disse Callista, e si portò automaticamente le mani alla matrice che aveva al collo. Stava già rimettendo i barattoli sugli scaffali. Poi si voltò… e s?immobilizzò, sbarrando gli occhi per il panico.

— Damon, non posso! — Restò sulla soglia, tesa: in parte già pronta per l’azione, in parte agghiacciata al ricordo delle circostanze.

— Sono stata sciolta dal giuramento! Mi è proibito farlo!

Damon la guardò, sbigottito, senza capire. Avrebbe compreso se Ellemir, che non aveva mai vissuto in una Torre e ne sapeva poco più di una persona comune, avesse parlato di quella vecchia superstizione. Ma Callista era stata Custode!

Breda — le disse dolcemente, sfiorandole la manica nel tocco lievissimo in uso tra gli abitanti di Arilinn, — non ti chiedo un’azione da Custode. So che non puoi più entrare nei grandi relè e nei cerchi di energon: possono farlo solo quelle che vivono isolate e proteggono il loro potere nella clausura. Ti chiedo un semplice controllo, un lavoro che potrebbe compiere qualunque donna non vincolata dalle leggi delle Custodi. Lo chiederei a Ellemir: ma è incinta, e non sarebbe una cosa prudente. Certo tu sai di non aver perso quella facoltà: non la perderai mai.

Lei scosse il capo, ostinatamente. — Non posso, Damon. Tu sai che questo rafforzerebbe le vecchie abitudini, i vecchi… i vecchi modelli di comportamento che devo spezzare. — Restò immobile, bellissima, fiera, incollerita, e Damon maledisse tra sé i superstiziosi tabù che aveva assimilato. Come poteva credere a quelle assurdità? Disse, rabbiosamente: — Ti rendi conto di quello che c’è in gioco, Callista? Sai a quali sofferenze condanni questi uomini?

— Io non sono l’unica telepate di Armida! — ribatté Callista. — Ho sacrificato anni della mia vita, ma adesso basta! Credevo che tu, più di chiunque altro, l’avresti capito!

— Capito! — Damon si sentì invadere dalla rabbia e dalla frustrazione. — Ho capito che sei un’egoista! Hai intenzione di passare il resto della vita contando i buchi delle tovaglie e preparando le spezie per il pane d’erbe? Tu, che eri Callista di Arilinn?

— No! — Lei rabbrividì come se l’avesse percossa. Il suo volto era contratto dalla sofferenza. — Cosa stai cercando di farmi, Damon? Ho compiuto la mia scelta, e non potrei tornare indietro neppure se lo volessi! La mia scelta è fatta, per il meglio o per il peggio! Tu credi… — La voce le si spezzò: gli voltò le spalle perché non la vedesse piangere. — Tu credi che non mi sia chiesta, tante e tante volte, cos’ho fatto? — Si nascose la faccia tra le mani, con un gemito disperato. Non poteva più parlare, non poteva neppure alzare la testa, scossa dall’angoscia terribile che la dilaniava. Damon percepì la sofferenza che minacciava di sopraffarla, e che lei teneva a freno con uno sforzo disperato:

Tu e Ellemir avete la vostra felicità, e lei porta già in grembo tuo figlio. Ma io e Andrew, io e Andrew… Non sono mai stata capace neppure di baciarlo, di giacere tra le sue braccia, di conoscere il suo amore…

Damon si voltò, ciecamente, e uscì dalla distilleria, seguito dai singulti di Callista. La distanza non faceva nessuna differenza: la sua angoscia era con lui, dentro di lui. Se ne sentiva straziato, lottava per rafforzare le barriere, per escludere la disperata consapevolezza della sofferenza di lei. Damon era un Ridenow, ed era empatico, e le emozioni di Callista lo colpivano così profondamente che per qualche istante, accecato dal dolore di lei, avanzò brancolando nel corridoio, senza sapere dov’era e dove stava andando.

Beata Cassilda, pensò, sapevo che Callista era infelice, ma non avevo idea che fosse così… I tabù che circondano una Custode sono troppo forti, e lei è cresciuta sentendo parlare continuamente delle punizioni terribili per la Custode che infrange il voto… Non posso, non posso chiederle niente che prolunghi la sua sofferenza anche di un giorno soltanto…

Dopo un po’ riuscì a interrompere il contatto, a ritrarsi in se stesso — o forse Callista aveva ristabilito l’autodominio — e a sperare, contro ogni logica, che l’angoscia di lei non avesse raggiunto Ellemir. Poi cominciò a chiedersi quali alternative aveva. Andrew? Il terrestre non era addestrato, ma era un telepate potentissimo. E Dezi… Anche se era stato allontanato da Arilinn dopo un paio di stagioni, doveva conoscere le tecniche fondamentali.

Ellemir era scesa e stava aiutando Dezi a lavare e fasciare i piedi agli uomini meno malridotti, nella sala bassa. Gli uomini gemevano e gridavano per il dolore via via che la circolazione si ristabiliva negli arti congelati: ma sebbene soffrissero terribilmente, Damon sapeva che erano assai meno gravi degli altri.

Uno alzò la testa verso di lui, con la faccia stravolta, e implorò: — Non possiamo neppure bere qualcosa, nobile Damon? Non ci guarirebbe i piedi, ma calmerebbe di sicuro il dolore.

— Mi dispiace — disse Damon. — Puoi avere tutta la minestra o il cibo caldo che vuoi, ma niente vino o liquori: rovinano la circolazione. Tra un po’, Ferrika vi porterà qualcosa per attenuare i dolori e farvi dormire. — Ma sarebbe occorso ben di più per aiutare gli altri uomini, quelli con i piedi gravemente congelati. — Devo tornare a occuparmi dei vostri compagni, quelli ridotti peggio. Dezi…

Il ragazzo dai capelli rossi alzò la testa, e Damon gli disse: — Quando avrai finito di curare quegli uomini, vieni da me, per piacere.

Dezi annuì, e si chinò sull’uomo al quale stava spalmando sui piedi un unguento dall’odore fortissimo. Damon notò che aveva le mani agili e lavorava in fretta, abilmente. Si fermò accanto a Ellemir, che stava fasciando la mano congelata di un uomo, e le disse: — Non affaticarti troppo, tesoro.

Lei gli rivolse un sorriso gaio e fuggevole. — Oh, io sto male solo alla mattina presto. Dopo, a quest’ora, sto benone! Damon, puoi fare qualcosa per quei poveracci là dentro? Darrill e Piedro e Raimon giocavano con me e Callista quando eravamo bambini, e Raimon è fratello adottivo di Domenic.

— Non lo sapevo — disse Damon, un po’ turbato. — Farò per loro tutto quello che posso, amore.

Tornò da Ferrika, che stava curando gli uomini più malconci, e l’aiutò a fasciarli, somministrando loro medicine per attenuare il dolore. Ma questo, lo sapeva, era solo l’inizio. Senz’altro aiuto che Ferrika e le sue medicine a base di erbe, quelli sarebbero morti o rimasti invalidi per tutta la vita. Nel migliore dei casi avrebbero perso le dita delle mani e dei piedi, restando immobilizzati per mesi.

Callista aveva ritrovato il suo freddo autodominio, e stava lavorando insieme a Ferrika per sistemare gli impacchi caldi. Ristabilire la circolazione era l’unico modo per salvare i piedi almeno in parte; e se si poteva restituire la sensibilità agli arti, sarebbe stata una vittoria. Damon la guardava con remota tristezza, senza biasimo. Perfino per lui era difficile vincere l’inquietudine alla prospettiva di dover tornare a lavorare con la matrice.

Leonie gli aveva detto che era troppo sensibile e vulnerabile e che, se avesse continuato, si sarebbe annientato.

E aveva detto anche che, se lui fosse stato una donna, sarebbe diventato una buona Custode.

Rammentò a se stesso, con fermezza, che allora non l’aveva creduto, e che si rifiutava di crederlo anche ora. Qualunque abile meccanico delle matrici era in grado di svolgere il lavoro di una Custode, si disse. E provava un brivido di paura all’idea di svolgerlo fuori dai confini protetti di una Torre.

Ma era necessario lì, e lì doveva essere fatto. Forse c’era bisogno dei meccanici delle matrici più al di fuori delle Torri che dentro… Damon comprese dove lo stavano portando quei pensieri sconnessi, e rabbrividì di fronte alla bestemmia. Le Torri — Arilinn, Hali, Neskaya, Dalereuth, e le altre sparse nei dominii — rappresentavano la strada che aveva reso sicure le antiche scienze delle matrici di Darkover dopo i terribili abusi delle epoche del caos. Sotto la supervisione delle Custodi (vincolate dal giuramento, recluse, vergini, spassionate, escluse dalle tensioni politiche e personali dei Comyn), ogni operatore delle matrici veniva istruito scrupolosamente e messo alla prova per accertarne l’affidabilità, ogni matrice veniva sorvegliata e protetta contro gli abusi.

E quando una matrice veniva usata illegalmente, fuori dalle Torri e senza autorizzazione, accadevano cose tremende, come quando il Grande Felino aveva gettato sulle Colline di Kilghard tenebra, follia, distruzione e morte…

Damon sfiorò con le dita la sua matrice. Se ne era servito, fuori dalle Torri, per annientare il Grande Felino e purificare le Colline del terrore. Quello non era stato un abuso. E anche le guarigioni che si accingeva a operare non erano un abuso: erano lecite, approvate. Lui era un operatore specializzato delle matrici, eppure si sentiva irrequieto, a disagio.

Finalmente tutti gli uomini, gravi e meno gravi, erano stati medicati, fasciati, nutriti e messi a letto. A quelli peggio ridotti erano state somministrate le pozioni analgesiche di Ferrika; e la levatrice, insieme ad alcune delle sue donne, era rimasta a vegliarli. Ma Damon sapeva che, sebbene molti sarebbero guariti senza altre cure che una buona assistenza e unguenti medicamentosi, ce n’erano alcuni per i quali le cose sarebbero andate diversamente.

Su Armida, a mezzogiorno, era sceso il silenzio. Ferrika vegliava gli infortunati; Ellemir venne a giocare a carte col padre, e su richiesta di lui Callista portò la sua arpa, se l’appoggiò sulle ginocchia e cominciò ad accordarla. Damon, osservandola attentamente, vide che, sebbene apparisse calma, aveva ancora gli occhi rossi, e le dita erano meno sicure del solito mentre traevano i primi accordi.


Quale suono ha percosso la brughiera?

Ascolta, oh, ascolta!

Quale suono è echeggiato qui nel buio?

È stato il vento a scuotere la porta:

figlio, non temere.


Era lo scalpitare di un cavallo?

Ascolta, oh, ascolta!

Un cavaliere si sta avvicinando?

Erano solo i rami contro il tetto:

figlio, non temere.


C’era un volto, là oltre la finestra?

Ascolta, oh, ascolta!

Una strana faccia scura…


Damon si alzò in silenzio, e accennò a Dezi di seguirlo. Quando furono soli nel corridoio, disse: — Dezi, so bene che nessuno chiede mai a un altro perché ha lasciato una Torre; ma ti dispiacerebbe dirmi, in assoluta confidenza, perché te ne sei andato da Arilinn?

Dezi s’incupì. — No, non te lo dirò. Perché dovrei?

— Perché ho bisogno del tuo aiuto. Hai visto in che condizioni erano quegli uomini, e sai che se li cureremo soltanto con acqua calda e unguenti d’erbe almeno quattro di loro non potranno più camminare, e almeno Raimon, di sicuro, morirà. Quindi sai quello che dovrò fare.

Dezi annuì, e Damon proseguì: — Sai che avrò bisogno di qualcuno che provveda a controllare per me. E se sei stato allontanato dalla Torre per incapacità, sai che non potrei servirmi di te.

Ci fu un lungo silenzio. Dezi fissava il pavimento color ardesia, e dalla Grande Sala venivano il suono dell’arpa e il canto di Callista:


Perché mio padre giace così a terra?

Ascolta, oh, ascolta!

Colpito a morte da lancia nemica…


— Non è stato per incapacità — disse infine Dezi. — Non so bene perché abbiano deciso di allontanarmi. — Sembrava sincero: e Damon, che era un telepate abbastanza forte da comprendere se qualcuno gli mentiva, decise che probabilmente gli diceva la verità. — Posso pensare soltanto che non avessero simpatia per me. O forse… — Il ragazzo alzò gli occhi, con un iroso balenio d’acciaio. — Forse sapevano che non ero neppure un nedestro, che ero indegno della loro preziosa Arilinn, dove il sangue e la discendenza contano più di qualunque altra cosa.

Damon pensò che non era così: le Torri non si basavano su quelle regole. Ma non ne era del tutto sicuro. Arilinn non era la Torre più antica, ma era la più orgogliosa: vantava più di novecento generazioni di puro sangue dei Comyn, e affermava che la sua prima Custode era stata figlia dello stesso Hastur. Damon non lo credeva, perché ben poche notizie storiche erano sopravvissute alle epoche del caos.

— Ma andiamo, Dezi: se hai potuto passare attraverso il Velo avranno capito che eri un Comyn, o di sangue Comyn, e non credo che ci avranno fatto molto caso. — Ma sapeva che qualunque cosa avesse detto non sarebbe riuscita a vincere la vanità ferita del ragazzo. E la vanità era un difetto pericoloso, per un meccanico delle matrici.

I cerchi delle Torri dipendevano molto dal carattere della Custode. Leonie era una donna orgogliosa. Lo era già quando l’aveva conosciuta Damon, con tutta l’arroganza degli Hastur; e non era cambiata con gli anni. Forse, personalmente, non sopportava l’irregolarità della discendenza di Dezi. O forse aveva ragione il ragazzo, e semplicemente non avevano simpatia per lui… Comunque, lì non faceva nessuna differenza. Damon non aveva scelta. Andrew era un telepate potente, ma sostanzialmente impreparato. Dezi, se aveva potuto restare per metà anno in una Torre, doveva aver ricevuto un’istruzione meticolosa nella meccanica elementare dell’arte.

— Sei capace di controllare?

Dezi rispose: — Mettimi alla prova.

Damon scrollò le spalle. — Proviamo, allora.

Nella sala, la voce di Callista si alzò, lamentosamente:


Cos’era il grido che ha squarciato l’aria?

Ascolta, oh, ascolta!

Quale tremendo grido disperato,

il pianto di una vedova e di un orfano…


— Per gli inferni di Zandru! — esclamò Dom Esteban, a voce spiegata. — Perché una canzone tanto lugubre, Callista? Pianti e lutti, morte e disperazione. Non siamo a un funerale! Canta qualcosa di più allegro, ragazza mia!

Ci fu un breve suono aspro, come se le mani di Callista avessero tratto dall’arpa una dissonanza. Poi lei disse, con voce tremula: — Temo di non essere dell’umore adatto per cantare, padre. Ti prego di volermi scusare.

Damon sentì il tocco sulla propria mente, rapido ed esperto, schermato così perfettamente che se non fosse stato intento a fissare Dezi non avrebbe capito chi l’aveva sfiorato. Sentì quel sondaggio lieve e profondo, poi Dezi disse: — Hai un molare storto. Ti dà fastidio?

— No, solo da bambino — rispose Damon. — Più a fondo?

Il volto di Dezi divenne inespressivo, gli occhi si fecero vitrei. Dopo un momento, disse: — La tua caviglia… la caviglia sinistra, si è fratturata in due punti quando eri molto giovane. Deve aver impiegato molto tempo, a guarire: ci sono cicatrici nei punti in cui dei frammenti di osso devono essere fuoriusciti. C’è un’incrinatura nella terza… no, nella quarta costola a partire dallo sterno. Tu pensavi che fosse solo un’ammaccatura e non l’hai detto a Ferrika, quando sei tornato dalla guerra contro gli uomini-felini, la stagione scorsa: ma si era incrinata. C’è una piccola cicatrice (verticale, lunga una decina di centimetri) lungo il polpaccio. È stata causata da un’arma tagliente, ma non so se da una spada o da un coltello. Stanotte hai sognato…

Damon annuì, ridendo. — Basta così — disse. — Sei capace di controllare. — In nome di Aldones, perché avevano lasciato che Dezi se ne andasse? Era un telepate eccezionale. Dopo tre anni di preparazione ad Arilinn, sarebbe stato all’altezza dei migliori specialisti dei domimi! Dezi captò quel pensiero e sorrise, e ancora una volta Damon provò un momento d’inquietudine. Non era stato per mancanza di competenza o di sicurezza. Era stata la sua vanità, allora?

Oppure si era trattato soltanto di uno scontro di personalità? Qualcuno, ad Arilinn, non era stato disposto a lavorare con quel ragazzo? I cerchi delle Torri erano così intimi — un legame più stretto di quello tra amanti o parenti — che la minima dissonanza emotiva poteva diventare una tortura. Damon sapeva che la personalità di Dezi poteva essere irritante (era giovane, suscettibile, facile a offendersi): quindi, forse, era capitato nel momento meno opportuno, in un gruppo già così legato che non poteva adattarsi a un estraneo, e non c’era stato un bisogno così grande di un nuovo collaboratore da indurre gli altri a impegnarsi per riuscirci.

Forse non era stata colpa di Dezi, pensò Damon. Forse, se questa volta avesse dato buona prova di sé, un’altra Torre l’avrebbe accettato. C’era un bisogno disperato di forti telepati naturali: e Dezi era dotato, troppo dotato per sprecarlo. Vide un sorriso soddisfatto, e comprese che Dezi aveva captato il suo pensiero: ma ciò non aveva importanza. Un fuggevole pensiero di riprovazione — cioè che la vanità era un grave difetto per un tecnico delle matrici — gli parve sufficiente: Dezi avrebbe captato anche quello.

— Sta bene — disse. — Tenteremo. Non c’è tempo da perdere. Credi di poter lavorare con me e Andrew?

Dezi ribatté, incupendosi: — Andrew non ha simpatia per me.

— Fai troppo presto a credere che la gente non abbia simpatia per te — lo rimproverò gentilmente Damon, pensando che per Dezi era già abbastanza doloroso sapere che lui l’aveva scelto a causa del rifiuto di Callista. Ma non poteva rivelare l’angoscia di Callista. E Ellemir non doveva neppure tentare, all’inizio della gravidanza. La gravidanza era più o meno l’unica cosa che poteva menomare seriamente le capacità di un’operatrice delle matrici, con i pericoli che comportava per il nascituro. E negli ultimi giorni, collegandosi con Ellemir, Damon aveva incominciato a captare le prime fievoli emanazioni del cervello in fase di sviluppo, ancora informe e tuttavia presente, reale, sufficiente a fare del piccolo un’entità distinta e separata.

Pensò che avrebbe dovuto esserci un modo per controbilanciare anche questo, per proteggere il bambino. Ma non lo conosceva, e non aveva intenzione di fare esperimenti con suo figlio. Quindi toccava a lui, a Andrew e a Dezi.

Poco più tardi, quando Damon gliene parlò, Andrew aggrottò la fronte e disse: — Non mi entusiasma troppo, l’idea di lavorare con Dezi. — Ma di fronte alle rimostranze di Damon ammise che era indegno di un adulto serbare rancore a un ragazzo, un adolescente che — senza il minimo dubbio — era ubriaco nel momento in cui l’aveva offeso.

— E Dezi è immaturo, per la sua età — osservò Damon. — Se fosse stato riconosciuto nedestro, avrebbe sempre avuto responsabilità pari ai privilegi. Un anno o due nei Cadetti l’avrebbero cambiato, oppure un anno dell’austera disciplina monacale di Nevarsin. È colpa nostra, non di Dezi, se è diventato così.

Andrew non protestò più; ma si sentiva ancora inquieto. Di chiunque fosse la colpa se Dezi aveva difetti di carattere, non riteneva opportuno lavorare con lui.

Ma Damon, senza dubbio, sapeva il fatto suo. Andrew lo guardò mentre effettuava i preparativi, ricordando la prima volta che gli era stato insegnato a usare una matrice. Callista aveva partecipato a quel collegamento mentale, sebbene fosse ancora prigioniera nella caverna e lui non l’avesse mai vista con i suoi occhi. E adesso lei non era più Custode, ed era sua moglie…

Damon tenne la matrice raccolta nel cavo delle mani, e infine disse, con un sorriso ironico: — Ho sempre avuto paura all’idea di farlo all’esterno di una Torre. Temo sempre che sia pericoloso. È una paura assurda, forse, ma molto autentica.

Dezi replicò, gentilmente: — Sono contento che anche tu abbia paura. Mi fa piacere, sapere che non sono il solo ad averne.

Damon disse, con voce tremante: — Credo che chi non teme di usare questo tipo di forza non debba possederla. Le forze sono state usate in modo così atroce, durante le epoche del caos, che Regis Hastur IV ha decretato che in futuro nessun cerchio delle matrici potesse usare i grandi schermi e relè al di fuori delle Torri. La legge non è stata varata per operazioni come questa, ma c’è ancora la sensazione di… di violare un tabù. — Si girò verso Andrew e disse: — Come curano il congelamento, nel tuo mondo?

Andrew rispose, pensieroso: — La cura migliore è di iniettare per via arteriosa stimolanti nervini: acetilcolina o qualcosa del genere. Magari anche le trasfusioni: ma la medicina non è il mio campo.

Damon sospirò. — Mi sembra di essere stato costretto a compiere questo lavoro più spesso di quanto ne avessi avuto intenzione. Bene, cominciamo. — Affondò la mente nella matrice, protendendosi per stabilire il contatto con Andrew. Si erano già collegati altre volte, e la comunicazione si ristabilì senza difficoltà. Per un momento ci fu un tocco lievissimo da parte di Ellemir, come il vago ricordo di un bacio; poi lei si ritrasse delicatamente dal contatto, all’ammonimento di Damon: doveva aver cura di se stessa e della loro creatura. Per un istante anche Callista aleggiò, in tono frammentario, e Andrew si aggrappò a quel contatto. Da tanto tempo, lei non gli toccava neppure una mano, e adesso erano collegati, di nuovo vicini… Poi, con uno scatto brusco, lei spezzò il vincolo e si allontanò. Senza il tocco della mente di lei, Andrew si sentì freddo e svuotato, e provò una fitta d’angoscia. Per un momento si consolò pensando che Dezi non era ancora collegato. Poi Damon protese la mente, e Andrew sentì anche Dezi: era barricato e tuttavia presente, una forza serena e salda, come una stretta di mano.

Il triplice legame durò un momento, mentre Damon percepiva i due uomini con i quali doveva lavorare. A occhi chiusi, come sempre in un cerchio, vide dietro di loro l’azzurra struttura cristallina delle gemme-matrici che li tenevano collegati, amplificando e irradiando le risonanze elettroniche individuali dei loro cervelli, e oltre queste la loro realtà puramente soggettiva. Andrew era forte e saldo come una roccia, protettivo, e con un sorriso di sollievo Damon si rese conto che la sua mancanza di forza non contava: l’altro ne aveva per tutti e due. Dezi era una precisione svelta e sfrecciante, una coscienza che guizzava qua e là come i riflessi di luce di un prisma. Damon aprì gli occhi e li vide entrambi: era difficile riconciliare la presenza fisica con la sensazione mentale all’interno della matrice.

Dezi, fisicamente, sembrava l’immagine di Coryn, il suo fratello giurato, l’amico morto da molto tempo. Per la prima volta, Damon si chiese in che misura il suo amore per Ellemir nasceva dal ricordo del fratello-amico che aveva amato tanto profondamente quando erano bambini, e la cui morte l’aveva lasciato solo. Ellemir era come Coryn, e tuttavia era diversa, assolutamente se stessa… Interruppe quel pensiero. Non doveva pensare a Ellemir in quel collegamento, altrimenti l’avrebbe raggiunta per via telepatica: quello stretto vincolo, quel flusso di energon, poteva sopraffare e deformare lo sviluppo del bambino. Prontamente, riprendendo il contatto con Dezi e Andrew, cominciò a visualizzare — a creare sul livello di pensiero in cui avrebbero lavorato — un muro solido, inespugnabile, intorno a loro, in modo che nessun altro, ad Armida, subisse l’influenza delle loro menti.

Quando lavoreremo con gli uomini, per guarirli, li porteremo a uno a uno dietro questo muro, in modo che non trabocchi qualcosa che potrebbe danneggiare Ellemir e il bambino, o scuotere la serenità di Callista, o disturbare il sonno di Dom Esteban.

Era solo uno strumento psicologico, lo sapeva, ben diverso dalla forte rete elettrico-mentale intorno ad Arilinn, salda come le stesse mura della Torre, per tener fuori gli intrusi, fisicamente e mentalmente. Ma aveva la sua realtà al livello su cui avrebbero operato: li avrebbe protetti dalle interferenze esterne, schermando quelli che, ad Armida, avrebbero potuto captare i loro pensieri e diluirli o distorcerli. E sarebbe servito anche a concentrare la facoltà risanatrice su quelli che ne avevano bisogno.

— Prima di cominciare, chiariamo quello che dovremo fare — disse. Ferrika aveva alcuni disegni anatomici eseguiti piuttosto bene. Aveva tenuto corsi d’igiene fondamentale alle donne dei villaggi (un’innovazione che Damon approvava di tutto cuore), e lui si era fatto portare i disegni, scartando quelli che la levatrice usava per istruire le donne incinte ma tenendo quelli che rappresentavano la circolazione. — Guardate: dobbiamo ristabilire l’afflusso normale del sangue nelle gambe e nei piedi, sciogliere la linfa raggrumata e il sangue coagulato e cercare di riparare le fibre nervose lese dal congelamento.

Andrew ascoltò la lucida e pratica esposizione di Damon, il quale parlava come un medico terrestre che descrivesse un’iniezione endovenosa, e guardò inquieto la matrice tra le sue mani. Non dubitava che Damon potesse fare tutto ciò che diceva, ed era ben disposto ad aiutarlo. Ma pensò che formavano una squadra ospedaliera inverosimile.

Gli uomini giacevano nella stanza in cui li avevano portati. Quasi tutti dormivano, storditi dalle pozioni soporifere; ma Raimon era sveglio, col volto arrossato e gli occhi accesi dalla febbre, straziato dai dolori.

Damon disse, gentilmente: — Siamo venuti a fare tutto ciò che possiamo, amico mio.

Scoprì la matrice che teneva nelle mani: l’uomo rabbrividì.

— Magia — mormorò. — Sono cose che vanno bene per gli Hali’imyn…

Damon scosse il capo. — È una facoltà che può essere usata da chiunque sia nato con quella dote. Andrew, qui, non è di nascita Comyn, e non appartiene neppure alla stirpe di Cassilda: tuttavia è esperto in questo lavoro, ed è venuto per aiutarti.

Gli occhi febbricitanti di Raimon si fissarono sulla matrice. Damon vide la smorfia di sofferenza che gli contraeva il volto, e nonostante il crescente rapporto euforico con la gemma riuscì a trovare un distacco sufficiente per dire: — Non guardare direttamente la matrice, amico, perché non sei abituato e ti perturberebbe gli occhi e le mente.

L’uomo distolse lo sguardo, con un gesto superstizioso; Damon provò di nuovo un senso d’irritazione, ma la dominò. Disse: — Sdraiati e cerca di dormire, Raimon. — E poi, con fermezza: — Dezi, dagli un’altra dose del soporifero di Ferrika. Se dormono, mentre noi lavoriamo, non interferiranno. — E se dormivano non avrebbero provato paura, e i pensieri di paura non avrebbero interferito con l’opera delicata e precisa che loro dovevano compiere.

Era un peccato che non fosse possibile insegnarlo a Ferrika, pensò Damon. Si chiese se lei possedeva almeno un minimo di laran. Con la sua conoscenza della medicina e la sua capacità di usare la matrice, sarebbe stata preziosa per tutti gli abitanti della tenuta.

Era questo che avrebbe dovuto fare Callista, pensò, e non lavorare come una stupida massaia!

Mentre Raimon inghiottiva la pozione soporifera e si riabbandonava assonnato sui cuscini, Damon protese la mente e annodò i fili del contatto. Andrew, che guardava le luci nella matrice ravvivarsi e offuscarsi al ritmo del suo respiro, sentì Damon protendersi e centrare la coscienza tra sé e Dezi. Per Andrew, soggettivamente, sebbene Damon non si muovesse e non li toccasse, era come se si appoggiasse a loro per sostenersi e poi calasse la coscienza nel corpo dell’infortunato. Andrew sentiva la tensione nei muscoli lesi, i vasi sanguigni spezzati, il sangue denso e torpido nei tessuti lacerati, gonfi e flaccidi, come un pezzo di carne congelato e poi sgelato. Sentì che Damon ne era consapevole; lo sentì cercare, come con le dita della mente, le guaine nervose lesionate nei fasci delle fibre alla caviglia, alle dita, ai tendini… Non c’è molto da fare. Come se fossero sotto i suoi polpastrelli, Andrew sentiva i tendini contratti, sentiva il modo in cui la pressione di Damon li allentava, sentiva gli impulsi che fluivano di nuovo attraverso le fibre, irregolarmente. La superficie di quelle fibre non sarebbe mai guarita completamente: ma almeno gli impulsi si erano ristabiliti. Damon fremette, nel percepire la sofferenza delle fibre nervose ricostruite. È un bene che abbia fatto bere quella pozione a Raimon: non avrebbe sopportato il dolore se fosse stato sveglio. Poi, con delicate pulsazioni ritmiche, cominciò a stimolare le pulsazioni della circolazione, il flusso attraverso le vene e le arterie quasi ostruite dal sangue coagulato. Andrew sentì Damon, intento in quel lavoro delicato, negli strati profondi delle cellule, indugiare ed esitare, mentre il suo respiro diventava irregolare. Sentì Dezi protendersi e rafforzare il battito del cuore di Damon. Sentì se stesso protendersi: l’immagine della sua mente era quella di una roccia, salda alle spalle di Damon, alla quale l’altro poteva appoggiarsi… E poi percepì qualcosa intorno a loro. Mura? Mura solide, che li racchiudevano? Aveva importanza? Si concentrò per prestare energia a Damon, e vide, a occhi chiusi, i piedi anneriti che cambiavano lentamente colore, si arrossavano e impallidivano. Alla fine Damon sospirò e aprì gli occhi. Lasciò cadere il contatto, mantenendo solo un filo sottile; si chinò su Raimon, che giaceva assopito, e gli toccò cautamente i piedi. La pelle annerita si stava staccando a brandelli: sotto c’era la carne arrossata, piena di vesciche… ma, come Andrew sapeva, era libera dalla cancrena e dai veleni dell’infezione.

— Soffrirà terribilmente — disse Damon, piegandosi a toccare le dita, che avevano perso le unghie insieme alla pelle necrotizzata. — E forse potrebbe ancora perdere un paio di dita: i nervi erano morti, e non ho potuto fare molto. Ma guarirà, e potrà servirsi dei piedi e delle mani. E lui era quello ridotto peggio. — Strinse le labbra, scosso dalla responsabilità, e si rese conto — vergognandosi di se stesso — che in fondo si era quasi augurato di non riuscire. Quella responsabilità, pensò, era troppo grande. Ma poteva riuscire, e c’erano altri uomini che correvano lo stesso pericolo. E ora che sapeva di poterli salvare… Assunse volutamente un tono aspro, quando si rivolse a Dezi e Andrew.

— Bene, cosa stiamo aspettando? Sarà meglio che ci occupiamo degli altri.

I fili del contatto si riallacciarono. Adesso Andrew aveva compreso: sapeva come e quando doveva inondare Damon della propria forza se l’altro vacillava. Lavorarono insieme: Damon affondò la coscienza nei piedi e nelle gambe del secondo infortunato, e Andrew — sebbene una piccola parte di lui fosse ancora isolata — sentì il muro cingerli, in modo che non potesse penetrare nessun pensiero casuale dall’esterno. Sentì, insieme a Damon, la lenta discesa da una cellula all’altra, attraverso gli strati di muscoli e di pelle e di nervi e di ossa, stimolando delicatamente, scartando, ridestando. Era più efficace del bisturi di un chirurgo, pensò: ma a che prezzo! La discesa nella carne annerita e congelata si ripeté ancora due volte prima che Damon interrompesse finalmente l’ultimo contatto, separandoli, e Andrew ebbe la sensazione che fossero usciti da uno spazio chiuso, da una muraglia che li circondava. Ma quattro uomini giacevano nel sonno, con le gambe e i piedi infiammati, doloranti, lesionati, ma in via di guarigione. Sarebbero guariti, senza pericolo d’infezioni o di cancrena: erano ferite pulite che si sarebbero rimarginate nel minimo tempo necessario.

Lasciarono gli uomini addormentati, avvertendo Ferrika di stare loro accanto, e tornarono nella sala bassa. Damon vacillava: Andrew tese il braccio e lo sostenne fisicamente, come aveva fatto così spesso col pensiero durante il lungo contatto. Non per la prima volta, ebbe la sensazione che Damon — sebbene tanto più anziano di lui — fosse in un certo senso il più giovane, bisognoso di protezione.

Damon si sedette sulla panca, sfinito, appoggiandosi a Andrew, oppresso dalla stanchezza del lavoro con la matrice. Prese del pane e della frutta che erano stati lasciati sulla tavola dopo il pasto serale, e li trangugiò con furia: il suo organismo esausto richiedeva nuova energia. Anche Dezi aveva cominciato a mangiare avidamente.

Damon disse: — Anche tu dovresti prendere qualcosa, Andrew: il lavoro con le matrici assorbe le energie. Finirai col crollare. — Aveva quasi dimenticato quella terribile sensazione di svuotamento, come se la vita l’avesse abbandonato. Ad Arilinn gli avevano fornito spiegazioni tecniche sulle correnti di energie del corpo umano, i canali che trasportavano la forza fisica e quella psichica. Ma era troppo stanco per ricordarle chiaramente.

Andrew disse: — Non ho fame. — E Damon replicò, con l’ombra di un sorriso: — Sì che hai fame: solo che non lo sai ancora. — Tese la mano per trattenere Dezi, che stava versando una coppa di vino. — No, è pericoloso. Bevi acqua, o fatti portare latte o brodo dalle cucine: ma non bere alcool dopo una cosa simile. Mezzo bicchiere ti ubriacherebbe come un monaco alla festa del solstizio d’inverno!

Dezi scrollò le spalle e andò in cucina; tornò con un bricco di latte e ne versò per tutti. Damon disse: — Dezi, tu sei stato ad Arilinn, quindi non hai bisogno di spiegazioni, ma Andrew deve saperlo. Dovrai mangiare il doppio del normale per un giorno o due, e se senti nausea o vertigini, o qualcosa di simile, dimmelo. Dezi, hanno il kirian, qui?

Dezi rispose: — Ferrika non lo prepara, e adesso che io e Domenic abbiamo superato i malesseri della soglia, e Valdir è a Nevarsin, credo che nessuno qui ne abbia bisogno.

Andrew chiese: — Cos’è il kirian?

— Una sostanza psicoattiva che viene usata nelle Torri e nelle famiglie dei telepati. Riduce la resistenza al contatto telepatico, ma può essere utile in caso di sovraffaticamento o di tensioni telepatiche. E alcuni telepati, durante l’adolescenza, hanno seri disturbi, fisici e psichici, quando lo sviluppo avviene all’improvviso. Immagino che tu, Dezi, sia ormai troppo cresciuto per i disturbi della soglia.

— Direi! — replicò sprezzante il ragazzo. — Li ho superati prima di compiere i quattordici anni.

— Comunque, siccome non hai lavorato con le matrici dopo aver lasciato Arilinn, adesso che hai ricominciato potresti avere una lieve ricaduta — l’avvertì Damon. — E non sappiamo ancora come reagirà Andrew. — Avrebbe chiesto a Callista di provare a preparare il kirian. Sarebbe stato opportuno tenerne un po’ in tutte le case dei telepati, per i casi d’emergenza.

Depose la tazza di latte semivuota. Era mortalmente stanco. — Va’ a riposare, Dezi, ragazzo mio… Tu meriti l’addestramento ad Arilinn, credimi. — Abbracciò per un attimo il ragazzo e lo guardò avviarsi verso la sua stanza, accanto a quella di Dom Esteban, augurandosi che il vecchio dormisse tutta la notte perché il ragazzo potesse riposare indisturbato.

Quali che fossero i difetti di Dezi, pensò, almeno aveva curato il vecchio con la stessa devozione di un figlio riconosciuto. Era affetto, si chiese, oppure egoismo interessato?

Si appoggiò a Andrew mentre salivano le scale, scusandosi mestamente, ma l’altro gli fece segno che non aveva importanza. — Lascia stare. Credi che non sappia che ti sei addossato tutto il peso? — E così Damon lasciò che Andrew l’aiutasse a salire le scale, pensando: Adesso mi appoggio a te, come ho fatto nella matrice…

Quando furono nel soggiorno del loro appartamento, esitò un attimo. — Tu non sei stato istruito nella Torre, quindi devo avvertirti anche di questo: dopo il lavoro con la matrice… resterai impotente per un giorno o due. Non preoccuparti: è temporaneo.

Andrew scrollò le spalle, con una fitta di amaro divertimento; e Damon, ricordando di colpo la situazione tra lui e Callista, comprese che un’espressione di scusa sarebbe servita soltanto a sottolineare la mancanza di tatto del suo avvertimento. Doveva essere molto intontito, pensò, per averlo dimenticato.

Ellemir giaceva assopita sul letto, avvolta in un morbido scialle bianco. Aveva sciolto le trecce e i suoi capelli erano sparsi, luminosi, sul cuscino. Quando Damon la guardò, lei si levò a sedere, sbattendo assonnata le palpebre, e poi, come faceva sempre, passò dal sonno alla veglia senza transizione e gli tese le braccia. — Oh, Damon, hai l’aria così stanca! Dev’essere stato terribile.

Damon si lasciò cadere accanto a lei, appoggiandole la testa sul seno. — No, ma non sono più abituato a questo lavoro: e ce n’è tanto bisogno, un bisogno terribile! Elli… — Si rialzò a sedere, fissandola. — Sono tanti, su Darkover, che muoiono quando non dovrebbero morire: soffrono, rimangono invalidi, muoiono per lesioni di poco conto. Non dovrebbe essere così. Noi non abbiamo l’assistenza medica che hanno i terrestri, a quanto dice Andrew. Ma ci sono tante cose che un uomo o una donna possono guarire per mezzo di una matrice. Eppure, perché i sofferenti vengono trasportati ad Arilinn o Neskaya o Dalereuth o Hali, per essere curati in quelle Torri? Cosa importa, ai cerchi delle matrici delle grandi Torri, se un povero contadino muore congelato, o se un cacciatore viene ferito da una belva o preso a calci da un oudrakhi?

— Ecco — disse Ellemir, sconcertata, cercando di seguire la sua veemenza. — Nelle Torri hanno altre cose da fare. Cose importanti. Le comunicazioni. E… e le ricerche minerarie, e tutto il resto. Non hanno tempo per occuparsi dei feriti e degli infortunati.

— È vero. Ma ascolta, Elli: in tutto Darkover ci sono uomini come Dezi e donne come Callista e come te. Donne e uomini che non possono, non vogliono trascorrere la vita in una Torre, lontano dalla normale esistenza dell’umanità. Ma potrebbero fare tutte queste cose. — Damon si riabbandonò sul letto accanto a Ellemir: era più stanco che dopo qualunque battaglia combattuta alla testa delle Guardie. — Non è necessario essere un Comyn o avere facoltà straordinarie, per far questo. Chiunque possieda un po’ di laran potrebbe imparare, per aiutare e per guarire, e nessuno lo fa!

— Ma Damon — osservò lei, in tono ragionevole, — ho sempre sentito dire (me l’ha detto Callista) che è pericoloso usare quei poteri fuori dalle Torri.

— Sciocchezze! — esclamò Damon. — Sei tanto superstiziosa, Elli? Tu stessa sei stata in contatto con Callista. Ti sembra tanto pericoloso?

— No — ripose lei, inquieta. — Ma durante le epoche del caos sono state fatte molte cose terribili con i grandi schermi delle matrici, armi tremende: forme di fuoco, e creature di vento che abbattevano castelli e mura, e esseri venuti da altre dimensioni che dilagavano su tutte le terre… E a quei tempi hanno stabilito che tutto il lavoro con le matrici doveva essere compiuto esclusivamente nelle Torri, e con adeguate protezioni.

— Ma quel tempo è passato, Ellemir, e quasi tutte quelle armi enormi, illegali, sono state distrutte durante le epoche del caos, o sotto il regno di Varzil il Buono. Credi davvero che perché ho guarito i piedi congelati di quattro uomini e ho reso loro la possibilità di usarli sarei capace di scatenare una forma di fuoco nelle foreste o di evocare un essere delle grotte per annientare le messi?

— No, no, naturalmente. — Ellemir si levò a sedere, tendendogli le braccia. — Sdraiati e riposa, caro, sei così stanco.

Damon lasciò che lei l’aiutasse a svestirsi, e si adagiò al suo fianco; ma continuò a parlare, fissando ostinatamente l’oscurità.

— Elli, il modo in cui usiamo i telepati, qui su Darkover, è sbagliato. Devono vivere in clausura per tutta la vita nelle Torri, diventando quasi inumani (sai che per poco non mi ha distrutto, il vedermi allontanato da Arilinn), oppure devono rinunciare a tutto ciò che hanno imparato. Come Callista… Che Evanda abbia pietà di lei — aggiunse: un barlume della sua coscienza era ancora in collegamento con Andrew, che stava guardando Callista addormentata, il cui volto recava tuttora tracce di lacrime. — Lei ha dovuto rinunciare a tutto quello che aveva appreso, a tutto ciò che aveva fatto. Adesso ha paura di fare qualunque altra cosa. Dovrebbe esserci un modo, Elli, dovrebbe esserci un modo!

— Damon, Damon — supplicò lei, stringendolo a sé, — è sempre stato così. Coloro che sono stati istruiti nelle Torri sono più saggi di noi: devono sapere quello che fanno, quando stabiliscono che sia così!

— Non ne sono tanto sicuro.

— Comunque, adesso non possiamo far niente, caro. Devi riposare e calmarti, altrimenti turberai lei — disse Ellemir, prendendo la mano di Damon e posandosela sul ventre. Damon sapeva che sua moglie stava cercando di distrarre i suoi pensieri, ma era disposto ad accettarlo: dopotutto, Ellemir aveva ragione. Sorrise, cominciando a captare l’informe emanazione casuale — che non era ancora un pensiero — della creaturina. — Lei, hai detto?

Ellemir rise sommessamente, felice. — Non saprei spiegarti come lo so, ma ne sono certa. Forse una piccola Callista?

Damon pensò: Mi auguro che abbia una vita più felice. Non vorrei vedere la mano di Arilinn posarsi su mia figlia… Poi rabbrividì all’improvviso, in un guizzo di precognizione, vedendo una donna snella, dai capelli fulvi, nelle vesti cremisi della Custode di Arilinn… Se le strappava da dosso, dal collo alla caviglia, e le gettava via… Damon sbatté le palpebre. La visione era scomparsa. Precognizione? Oppure era una drammatica allucinazione, nata dalla sua inquietudine? Tenendo fra le braccia sua moglie e sua figlia, cercò di dimenticarla, almeno per il momento.

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