Attese pazientemente nell’atrio del palazzo, tra una porta a vetri e l’altra. Alla fine, dopo parecchie centinaia di istanti, qualcuno arrivò dagli ascensori. Ponter si voltò di schiena e restò lì a bighellonare. Quando il gliksin uscì dal corridoio, il neanderthal, senza fare mosse avventate, bloccò la seconda porta a vetri prima che si richiudesse. Attraversò velocemente il pavimento piastrellato (che era l’unico elemento nell’architettura gliksin in cui venisse impiegata la forma quadrata), e premette il pulsante di chiamata ascensore. La cabina da cui era appena uscito il gliksin era ancora al piano; si riaprì, e Ponter salì.
I pulsanti dèi piani erano sistemati su due colonne; in alto comparivano i numeri 15 e 16. Ponter spinse quello di destra.
L’ascensore era il più piccolo e sporco che avesse mai visto; addirittura più sporco di quello della miniera di Sudbury. Ponter seguì il susseguirsi dei piani sul display sistemato al di sopra della porticina ammaccata d’acciaio. Finalmente arrivò al numero selezionato. Ponter uscì nel corridoio del 16° piano, rivestito da una moquette beige senza pretese, consumata in alcuni punti e macchiata in parecchi altri. Le pareti erano coperte da strisce verticali di carta da parati, decorata a spirali verde acqua; alcune strisce erano parzialmente staccate dal muro.
C’erano quattro porte di appartamenti su ogni lato del corridoio, sia a sinistra che a destra dell’ascensore, per un totale quindi di 16 alloggi. Ponter raggiunse la porta più vicina e avvicinò il naso alla fessura opposta ai cardini, annusando rapidamente su e giù nel tentativo di isolare gli odori provenienti dall’interno dalla puzza di muffa che emanava dalla moquette del corridoio.
Non era l’appartamento giusto. Passò a quello successivo, ripetendo l’operazione. Qui riconobbe un odore particolare: quello stesso che si diffondeva dal seminterrato di Ruben Montego dopo che lui e Louise Benoit vi si erano appartati.
Passò alla terza porta. All’interno risultò esserci un gatto, ma nessun essere umano.
Dal quarto appartamento veniva puzza di urina. Perché quei gliksin a volte non tirassero la catenella, restava un mistero; lui, da quando gli era stata spiegata la tecnica, non aveva mai omesso di farlo. Inoltre fiutò la presenza di quattro o cinque persone; ma Mèr gli aveva detto che Ruskin viveva solo.
Raggiunto così il termine del corridoio, Ponter passò sul lato opposto. Inalò in profondità davanti alla prima porta di quella serie. Lì dentro era stata da poco cucinata carne di mucca, con qualche verdura dall’odore pungente. Nessun segno di esseri umani.
Provò all’uscio successivo. Odore di tabacco e i feromoni di una… no, due donne.
La terza porta era diversa dalle altre: non aveva la targhetta con il numero, né la serratura. Aprendola, Ponter si ritrovò in uno stanzino in cui si vedeva un’altra porticina, bassa, che doveva condurre a un canale di scolo.
Facendosi aria al naso per cacciare il tanfo dello scolo, Ponter si spostò di fronte all’alloggio seguente. Inspirò a fondo, e sentì…
… Di nuovo, odore di tabacco, e…
La traccia di un uomo. Un uomo magro, che non sudava molto.
Ponter annusò ancora, facendo scorrere il naso su e giù per la fessura. Sembrava proprio…
Era. Sicuramente.
Ruskin.
Ponter era un fisico, non un ingegnere, ma aveva osservato con attenzione questo mondo, coadiuvato da Hak. I due confabularono per qualche istante, lì di fronte all’“attico” di Ruskin. — La porta è chiusa a chiave — sussurrò Ponter. Una situazione che, nel suo mondo, si verificava molto di rado: le porte venivano chiuse, al massimo, per impedire ai bambini di cacciarsi nei guai.
— La soluzione più semplice — disse Hak nell’impianto cocleare — è che sia lui ad aprirla, di sua spontanea volontà.
Ponter annuì. — Ma lo farà? Mi pare che quella — indicò — sia una lente che permette di riconoscere chi bussa.
— Nonostante i suoi inqualificabili difetti, Ruskin è pur sempre uno scienziato. Se un visitatore da un altro mondo bussasse alla tua porta a Saldak, tu rifiuteresti di aprirgli?
— Vale la pena fare un tentativo. — Ponter batté le nocche contro la porta, come aveva visto fare a Mèr in quelle occasioni.
Hak aveva analizzato il rumore. — La porta non è in legno massiccio — disse. — Se lui non ti facesse accomodare, non ti sarebbe difficile tirarla giù con una spallata.
Ponter bussò di nuovo. — Forse ha il sonno pesante.
— No — rispose Hak. — Si sta avvicinando, lo sento.
Il riflesso sulla lente dello spioncino cambiò; evidentemente, Ruskin aveva accostato l’occhio per guardare verso l’esterno.
Poi, lo scatto metallico della serratura. La porta si scostò di poco, mostrando il volto tirato di Ruskin. Una catenella color oro impediva che l’uscio venisse spalancato. — Il pro… professor Boddit? — disse, chiaramente stupefatto.
Per farsi accogliere, Ponter si era preparato una storiella per giustificare come mai avesse un bisogno così urgente di lui; ma scoprì di non riuscire a parlare in tono distaccato a questo… questo primate. Fece scattare la mano destra a palmo in avanti: la catenella saltò, la porta sbatté all’indietro e Ruskin cadde di schiena.
Ponter balzò all’interno e richiuse l’uscio.
— Ma che diavolo…! — gridò Ruskin, armeggiando per tirarsi di nuovo su. Nonostante l’ora, indossava abiti da giorno. A Ponter venne in mente che forse era appena rientrato a casa. Dopo aver aggredito un’altra donna.
Ponter gli si avvicinò. — Sei stato tu a violentare Qaiser Remtulla. E Mèr Vaughan.
— Ma di che sta parlando?
Ponter mantenne la voce a un volume basso. — Potrei ucciderti a mani nude.
— È impazzito? — gridò Ruskin, indietreggiando.
— No — rispose Ponter, continuando ad avanzare. — Io non sono pazzo. Questo vostro mondo è pazzo.
Ruskin lanciava occhiate isteriche a destra e sinistra nel casino dell’appartamento, alla disperata ricerca di una via di fuga… o di un’arma. Alle sue spalle c’era un’apertura (un passavivande, come lo avrebbe definito Mèr) che dava sullo spazio cucina.
— Non potrai sfuggirmi — disse Ponter. — Non potrai sfuggire alla giustizia.
— Ascolti — disse Ruskin — lei non ha ancora dimestichezza con questo mondo, ma noi abbiamo delle leggi. Non si può entrare così…
— Sei uno stupratore seriale.
— Ma di cosa ti sei fatto?
— Posso dimostrarlo — disse Ponter, compiendo un altro passo.
Ruskin si voltò di scatto e si chinò, infilando un braccio nel passavivande. Quando tornò a fronteggiare Ponter, teneva in mano una pesante padella (di quelle per friggere; il neanderthal ne aveva viste di simili durante la quarantena a casa di Ruben). Ruskin impugnava l’arma improvvisata a due mani. — Non ti avvicinare! — disse.
La minaccia non intimorì minimamente Ponter. Quando fu alla distanza di un solo passo, Ruskin mulinò la padella. Ponter sollevò il braccio sinistro per ripararsi il volto; il colpo però, forse a causa della scarsa aerodinamicità, fu vibrato con troppa lentezza, perciò lo scudo energetico non entrò in azione e Hak si beccò in pieno la botta. La mano destra di Ponter arpionò il collo del gliksin.
— Molla quel coso — rispose Ponter — o ti strizzo la gola.
Lui tentò di dire qualcosa, ma Ponter strinse le dita. Il gliksin riuscì a sferrare un forte colpo con l’oggetto metallico contro una spalla di Ponter; per fortuna, non quella ferita. Il neanderthal lo sollevò da terra, tenendolo per il collo. — Molla! — ringhiò.
Ruskin era diventato paonazzo, con gli occhi… quei suoi occhi azzurri… fuori dalle orbite. Dopo un po’ lasciò cadere l’oggetto, che sbatté sul parquet con un rumore assordante. Ponter fece girare Ruskin e, senza mollare la presa, lo sbatté con la faccia contro il muro. L’intonaco si crepò.
— Hai visto in TV la scena dell’ambasciatrice Prat che ammazzava l’attentatore?
Ruskin stava ancora recuperando il fiato.
— L’hai vista? Ruskin annuì.
— L’ambasciatrice Prat è una 144, io sono un 145, il che significa che ho dieci anni in meno di lei. Sebbene io non possa vantare la sua stessa saggezza, ho una forza fisica superiore. Provocami ancora, e ti succhierò il cervello fuori dal cranio.
— Che… — La voce di Ruskin sembrava quella di un ragazzino. — Che vuoi da me?
— Anzitutto, la verità. Voglio che tu confessi i tuoi crimini.
— Come se non sapessi che quell’affare che hai al braccio è un registratore.
— Confessa i tuoi crimini.
— Non ho mai…
— La polizia di Toronto possiede campioni del tuo DNA, provenienti dalla violenza su Remtulla.
Ruskin si fece coraggio e rispose: — Se sapessero che è il mio DNA, qui ci sarebbero loro, non tu.
— Se continui a negare, ti ammazzo.
Lui riuscì a scuotere lievemente la testa, pur nella morsa di Ponter. — Una confessione coercitiva non ha nessun valore.
Hak emise un bip, ma era facile indovinare il significato di “coercitiva”. — Benissimo, allora convincimi di essere innocente.
— Non devo convincere nessuno di un accidente.
— Sei stato sorpassato in carriera perché sei bianco e perché sei di sesso maschile — disse Ponter.
Ruskin tacque.
— Non sopportavi che altre persone… che delle donne fossero state promosse al posto tuo.
Ruskin si divincolava per liberarsi, ma Ponter non faceva alcuna fatica a trattenerlo.
— Volevi farle soffrire — continuò Ponter. — Volevi umiliarle.
— Provaci ancora, uomo delle caverne…
— Ti è stato negato ciò che desideravi, perciò ti sei preso ciò che andrebbe solo ricevuto in dono.
— Non era quello…
— Allora spiegamelo tu — disse Ponter, torcendogli un braccio. — Spiegami cos’era.
— Avevo tutti i numeri per entrare di ruolo — disse Ruskin. — Ma quelle continuavano a fregarmi. Quelle stronze continuavano a fregarmi e…
— E… cosa?
— E allora ho fatto vedere loro cosa sa fare un uomo.
— Tu sei la vergogna del genere maschile — disse Ponter. — Quante ne hai violentate? Quante?
— Solo…
— Oltre a Mèr e a Qaiser? Silenzio.
Ponter allontanò Ruskin dal muro, poi ve lo sbatté di nuovo contro. Le crepe nell’intonaco aumentarono. — Ce ne sono state altre?
— No. Solo…
Ponter aumentò la torsione del braccio di Ruskin. — Solo chi? Solo… chi? — Guaì per il dolore. — Chi? — ripeté Ponter.
Ruskin grugnì. Poi, a denti stretti: — Solo la Vaughan. E quella stronza d’una paki.
— Cosa? — chiese Ponter, dopo che Hak ebbe fatto bip. Aumentò la torsione.
— Remtulla! Ho stuprato Remtulla!
Ponter allentò, di poco, la morsa. — Adesso basta, mi hai capito? Non lo rifarai mai più. Io ti terrò d’occhio. Anche altri ti terranno d’occhio. Non lo fare mai più.
Ruskin emise un rantolo inarticolato.
— Mai più — disse Ponter. — Giuralo.
— M… mai… più… — rispose Ruskin, ancora a denti stretti.
— E non parlerai a nessuno della mia visita di stanotte. Se lo farai, ti consegnerò nelle mani della vostra giustizia. Hai capito? Hai capito?
Ruskin riuscì a fare un cenno di assenso.
— Molto bene — disse Ponter. Per un attimo, allargò le dita; ma all’improvviso sbatté con violenza l’uomo contro il muro. Stavolta caddero pezzi d’intonaco. — No, non va per niente bene — continuò; adesso stringeva i denti anche lui. — Non è sufficiente. Giustizia non è fatta. — Premette con tutto il suo peso, appoggiando l’inguine alla parte bassa della schiena di Ruskin. — Scoprirai che cosa significhi essere dalla parte della donna.
Ruskin si irrigidì. — No, merda, no, Cristo, quello no!
— È solo giustizia — disse Ponter, infilando una mano in una delle tasche del cinturone ed estraendo uno spruzzatore di gas compresso.
Un sibilo all’altezza del collo di Ruskin, che urlò: — Che cazzo è quello? Non puoi… E crollò privo di sensi. Ponter lo stese a terra.
— Hak — chiese — tutto bene?
— Mica male, la botta che ho preso — rispose il Companion. — Però non accuso danni.
— Chiedo scusa — disse Ponter, osservando Ruskin disteso supino su un mucchio di biancheria.
Gli allargò le gambe. Poi si mise a frugare all’altezza del bacino. Dopo un po’ capì come si aprisse la cintura; fatto quello, sbottonò i pantaloni e abbassò la lampo.
— Prima dovresti togliergli le scarpe — suggerì Hak.
Ponter annuì. — Giusto. Mi dimentico sempre che sono indipendenti. — Dopo una serie di esperimenti, riuscì a slacciarle. Togliendo le scarpe, quasi sternuti al sentire l’odore che proveniva dai piedi. In ginocchio, Ponter tornò alla cintura e sfilò i pantaloni di dosso al gliksin. Quindi toccò alle mutande.
Infine, Ponter osservò i genitali di Ruskin. — C’è qualcosa che non va — mormorò. — È come se fosse stato sfregiato. — Spostò il braccio in modo che anche Hak potesse vedere dalla lente.
— Stupefacente — disse Hak. — Manca il cappuccio cutaneo.
— Il che?
— Il prepuzio.
— Ma… tutti i maschi gliksin saranno così? — chiese Ponter.
— Questo li renderebbe unici tra i primati.
— Oh be’ — disse Ponter — non ha nessuna importanza, per ciò che sto per fare.
Cornelius Ruskin tornò in sé che era giorno; la luce che filtrava dalle finestre gli rivelò che era ancora mattina. Aveva la testa che gli martellava, la gola che gli bruciava, un gomito contuso, il fondoschiena dolorante, infine si sentiva come se gli avessero appioppato un calcio nelle palle. Provò a sollevare la testa, ma la nausea fu tale da costringerlo ad abbandonarla sul parquet. Un po’ più tardi ripeté il tentativo, riuscendo a puntellarsi su un gomito. Aveva indosso camicia e pantaloni, e anche calze e scarpe, ma queste ultime slacciate.
“Fanculo” pensò. “Vacca Eva.” Aveva sentito dire che i neanderthal erano omosessuali, ma, porca puttana, non era preparato a quello. Ruotò su un fianco, passando la mano sul retro dei pantaloni e pregando che non fossero impregnati di sangue. Dalla gola gli salì un conato di vomito. Lo respinse indietro deglutendo.
“Giustizia” aveva detto Ponter. Giustizia sarebbe stata avere un lavoro decente, invece di essere scavalcati da gente incompetente, solo perché donne e di una minoranza.
La testa gli martellava talmente che per un attimo pensò che il neanderthal fosse ancora lì, a sbattergli la padella sul cranio. Chiuse gli occhi per raccogliere le forze. Erano talmente numerosi i punti che gli facevano male che non riusciva a focalizzare niente.
Quel cazzo di idea romantica della giustizia di quell’uomo-scimmia! Solo perché lui l’aveva messo dentro alla Vaughan e alla Remtulla, per dimostrare loro chi fosse il boss, Boddit era arrivato alla conclusione che sarebbe stato coerente sodomizzarlo.
U che conteneva anche un chiaro avvertimento: tenere il becco cucito. Altrimenti, se avesse mai querelato Ponter, ecco che cosa gli sarebbe successo in carcere, dopo la condanna per stupro…
Ruskin inspirò profondamente e si portò la mano alla gola. Poté percepire al tatto i solchi lasciati dalle dita dell’uomo-scimmia. Cristo, doveva averlo ridotto a uno schifo.
Alla fine, il giramento di testa diminuì abbastanza da fargli tentare di alzarsi. Si aggrappò alla sporgenza del passavivande e si drizzò in piedi; restò lì un po’ ad attendere che da davanti agli occhi sparissero i lampi di luce. Piuttosto che chinarsi ad allacciarsi le scarpe, se le tolse scalciando.
Aspettò per un altro minuto buono, finché le pulsazioni alle tempie non furono abbastanza attenuate da non fargli temere di crollare se avesse staccato la mano dal sostegno. Barcollò per il breve corridoio fino al piccolo, lurido bagno che qualche inquilino precedente aveva dipinto di un verde squallido. Chiuse dietro di sé la porta per poter usare lo specchio (con un angolo rotto) che vi era avvitato. Slacciò la cintura, abbassò i pantaloni e rivolse la schiena allo specchio; facendosi forza, abbassò anche le mutande.
Temeva che anche sulle natiche ci fossero dei solchi come sulla sua gola, ma lì non vide nessun segno, tranne una contusione laterale; quella però doveva averla prodotta la caduta, quando Ponter aveva sfondato la porta.
Ruskin afferrò uno dei glutei e lo tirò da parte per vedere lo sfintere. Non sapeva bene che cosa attendersi. Sangue? No, pareva essere tutto a posto. Gli sembrò strano che un’aggressione così massiccia non avesse lasciato tracce, però era così. Per quanto potesse vedere a occhio nudo, il suo posteriore era intatto.
Ancora perplesso, si trascinò verso il water, con pantaloni e slip alle caviglie. Si mise di fronte alla tazza e prese delicatamente il pene, che direzionò e…
— No!!
No. No. No. Cristo santo di Dio, no!
Ruskin si tastò sotto l’inguine, si chinò, poi si raddrizzò e tornò barcollando allo specchio.
“Dio, Dio, Dio…”
Si vedeva bene ogni dettaglio: gli occhi azzurri spalancati per l’orrore, la mandibola cascante, e…
Si curvò verso lo specchio per cercare di vedere lo scroto. In quel punto, c’era una linea verticale, come…
Com’era possibile?
Come una sutura chirurgica.
Tastò di nuovo alla ricerca delle borse molli e rugose, nell’estrema speranza di essersi sbagliato.
Non si era sbagliato.
No, santo cielo benedetto.
Ruskin vacillò, si aggrappò al lavandino e cacciò un urlo animalesco.
I suoi testicoli erano spariti.