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Era l’ultima sera che Mary Vaughan avrebbe trascorso a Sudbury. Ed era in preda a una ridda di sentimenti contrapposti.

Di sicuro, andarsene per un po’ da Toronto non le aveva fatto che bene. Dopo quello che era successo (mio Dio, erano trascorse solo due settimane?), abbandonare la città, allontanarsi da tutto ciò che le avrebbe potuto ricordare quella notte spaventosa, era stata sicuramente la scelta giusta. E, per quanto fosse terminato su una nota malinconica, Mary non avrebbe scambiato con nulla il tempo trascorso insieme a Ponter Boddit.

Tutti i suoi ricordi erano come avvolti in un’aura fantastica; sembrava tutto così irreale. E invece, a dimostrare che era stato tutto vero, c’erano fotografie, video, perfino lastre ai raggi X. Sulla nostra Terra, chissà come, era sbucato un neanderthal modernizzato proveniente da un universo parallelo. Ma ora che lui non c’era più, Mary faceva fatica a credere ai suoi ricordi.

Eppure, sì. Ponter era arrivato davvero, e davvero lei si era…

Forse sopravvalutava gli eventi? Che la sua memoria amplificasse i dettagli?

Si era ritrovata ad amare la figura di Ponter. Forse addirittura ad amarlo in senso stretto.

Se solo lei fosse stata sana, integra, inviolata, non traumatizzata, forse le cose sarebbero andate in modo diverso. Cioè, si sarebbe presa lo stesso una cotta per Mister Muscolo, questo era poco ma sicuro, però quando lui avesse allungato la mano per stringere quella di lei, in una notte di stelle, Mary non si sarebbe raggelata.

Era avvenuto tutto troppo in fretta (lei gli aveva spiegato il giorno seguente). Troppo poco tempo dopo lo…

Detestava quella parola. Detestava pensarla, pronunciarla.

Troppo poco tempo dopo lo stupro.

E domani Mary sarebbe tornata a casa, proprio là dove aveva subito violenza, al campus della York University di Toronto. Avrebbe ricominciato la sua vita di docente di Genetica.

La sua solita vita di persona sola.

Le sarebbero mancate tante cose di Sudbury. Le strade non congestionate dal traffico. Gli amici che aveva incontrato in quella cittadina, inclusi Ruben Montego e perfino Louise Benoit. L’atmosfera rilassata che si respirava alla piccola Università Laurenziana, dove Mary aveva compiuto le analisi del DNA che avevano dimostrato che Ponter Boddit era realmente un Uomo di neanderthal.

Ma soprattutto — si rendeva conto, mentre se ne stava lì lungo la strada di campagna a contemplare quel limpido cielo notturno — le sarebbe mancato questo. Le sarebbe mancato quel firmamento popolato di un numero incalcolabile di stelle. Le sarebbe mancata la nebulosa di Andromeda, che Ponter aveva identificato e le aveva mostrato. Le sarebbe mancata la Via Lattea che s’incurvava come un arco in cielo.

E…

Sì.

Sì!

Le sarebbe mancata ancora di più l’aurora boreale, che ondeggiava fiammeggiando per i cieli a nord; cortine di luce verde pallido; tende di un castello incantato.

Mary sperava tanto, quella notte, di poter avere un’ultima visione dell’aurora boreale. Aveva lasciato la villa di Ruben Montego, fuori dal centro di Lively (in questo caso non vale il detto nomen omen), dopo l’ultimo barbecue con lui e Louise; e si era fermata proprio lungo la strada per ammirare le stelle.

L’universo aveva cooperato. L’aurora boreale c’era, e strepitosa.

L’unica altra volta che aveva contemplato quelle luci era successo in compagnia di Ponter, e adesso Mary le avrebbe associate per sempre al ricordo di lui. Nel cuore provava una sensazione strana: un senso di espansione dovuta allo stupore, controbilanciato da un senso di contrazione dovuta alla tristezza.

Luci stupende.

Ma lui non c’era più.

Man mano che l’aurora boreale continuava a vibrare e danzare, un bagliore verde ghiaccio permeava l’intero paesaggio. In primo piano, le silhouette dei pioppi e delle betulle con i rami che ondeggiavano lievemente nella brezza di agosto.

Ponter aveva detto che per lui quello era uno spettacolo normale. In parte perché il suo popolo, adattato ai climi più rigidi, preferiva latitudini più estreme degli umani di questa Terra.

Inoltre, l’olfatto fenomenale dei neanderthal, e i loro onniveggenti Companion, rendevano sicure le escursioni notturne. Al paese di Ponter (Saldak, situato nell’universo parallelo esattamente dove qui sorgeva Sudbury) di notte non venivano neppure illuminate le strade.

I neanderthal infatti sfruttavano l’energia pulita del sole per gran parte delle loro necessità, e i loro cieli èrano di gran lunga meno inquinati.

Mary invece aveva dovuto attendere fino a quel momento, a 38 anni, per vedere l’aurora boreale. E siccome non prevedeva di tornare nell’Ontario del Nord, quella avrebbe potuto essere l’ultima notte in cui ammirava quella meraviglia.

Cercò di assorbirla in sé.

Alcune cose (aveva raccontato Ponter) erano identiche in entrambe le versioni della Terra: le principali conformazioni geografiche; la maggior parte delle specie vegetali e animali, per quanto i neanderthal non si fossero divertiti a far estinguere i mammut e i moa; le zone climatiche. Tuttavia Mary, in qualità di scienziata, conosceva fin troppo bene la teoria del caos, secondo cui il battito dell’ala di una farfalla era sufficiente per modificare il clima nell’emisfero opposto del pianeta. Perciò, il solo fatto che lì la notte fosse serena non implicava che lo fosse anche nel mondo di Ponter.

Ma, se casualmente il clima fosse coinciso, forse anche Ponter in quell’istante era intento a osservare il cielo notturno.

E forse pensava a Mary.

Ponter ovviamente avrebbe visto le stesse costellazioni, che per lui avevano nomi diversi: nessun evento terrestre era in grado di disturbare gli assetti delle lontanissime stelle. Ma anche le aurore boreali erano identiche? Le farfalle, o la popolazione umana, potevano modificare la coreografia delle luci naturali? Chissà, magari lei e Ponter stavano gustando lo stesso identico spettacolo: una cortina luminescente che serpeggiava avanti e indietro, sormontata dalle sette stelle dell’Orsa Maggiore; o della Testa del Mammut, per dirla alla neanderthaliana.

Be’, magari anche lui osservava quello stesso valzer di luce là a destra, e il suo corrispettivo là a sinistra, e lo stesso…

“Cristo…”

Mary rimase a bocca aperta.

La cortina celeste si stava dividendo nel mezzo, come un tessuto acquamarina strappato da una mano invisibile. La fessura si allungò, si allargò, partendo dalla cima e scendendo verso l’orizzonte. Un fenomeno a cui Mary non aveva assistito la volta scorsa.

Alla fine l’immensa tenda si suddivise in due, come le acque del Mar Rosso al passaggio di Mosè. Alcune… scintille?, questo almeno era il loro aspetto… passarono rapidamente da una metà all’altra creando un ponte etereo. Poi sembrò che la parte destra si arrotolasse a partire dal fondo, come una tapparella. Intanto mutava colore: ora verde, ora blu, ora violaceo, ora arancio, ora turchese.

Infine, con un lampo spettrale, quell’intera zona dell’aurora boreale svanì.

La rimanente cortina di luce adesso vorticava come se il firmamento la risucchiasse attraverso un imbuto. Man mano che acquistava velocità, sputava lingue di fiamma color verde ghiaccio, trasformandosi in un mulino acceso sullo sfondo della notte.

Mary era folgorata. Sebbene quella fosse solo la sua seconda esperienza diretta con il fenomeno, aveva visto numerose fotografie su libri e riviste; ma ora si rendeva conto che le immagini non rendevano giustizia alla realtà. Ah sì, aveva ben letto che l’aurora boreale si spaccava e sfarfallava, ma non era preparata a questo.

Il vortice continuava a contrarsi, e nel frattempo diventava sempre più luminoso. Finché al termine, con un… davvero Mary aveva sentito un pop?.., sparì nel nulla.

Barcollò, andando a sbattere contro il freddo metallo della sua Dodge Neon presa a noleggio. Solo allora si accorse dei suoni della foresta tutto intorno: insetti e rane, civette e pipistrelli, si erano improvvisamente ammutoliti, come se l’intera Natura fosse sospesa in ammirazione.

Il cuore le batteva all’impazzata. Tornò al sicuro dentro l’automobile e in testa le iniziò a echeggiare e riecheggiare un pensiero.

“È normale che l’aurora si comporti così?”

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