La Società di paleoantropologia teneva un meeting ogni anno, alternativamente in concomitanza con l’Associazione archeologi americani e l’Associazione americana di antropologia fisica. Quest’anno toccava alla prima, e la sede dell’incontro era il Crowne Plaza in Franklin Square.
L’agenda era molto semplice e lineare: 15 minuti a testa per le relazioni, con qualche occasionale buco per il dibattito. John Yellen, presidente della Società, faceva rispettare la tabella di marcia con rigore teutonico.
Dopo la prima tornata di scartoffie, molti dei paleoantropologi decisero di aggiornare la seduta al bar dell’hotel. — Sono sicura che sarebbero entusiasti di scambiare con te qualche chiacchiera informale — disse Mary a Ponter, mentre i due si trovavano nel corridoio che portava al bar. — Che dici, andiamo?
Piantato come una colonna accanto a loro c’era un agente dell’FBI, che era stato la loro ombra per l’intero viaggio.
Ponter allargò le narici. — C’è gente che fuma.
Mary annuì. — In un sacco di giurisdizioni, grazie al cielo, i bar sono rimasti l’unico posto pubblico in cui sia ancora consentito fumare. A Ottawa e altrove, è proibito perfino lì.
Ponter fece una smorfia. — Peccato che il meeting non si tenga a Ottawa.
— È vero. Ma se per te è insopportabile, non ci andremo.
Lui ci pensò. — Da quando sono qui, mi è venuta una serie di ideuzze per invenzioni, per lo più riadattando al mio pianeta alcune tecnologie gliksin. Immagino che a fare furore sarebbero soprattutto i filtri nasali, a tutela delle narici del mio popolo.
Mary fu d’accordo con lui. — Neanche a me piace l’odore del tabacco, per quanto…
— Entriamo — disse Ponter.
Mary si voltò verso l’agente dell’FBI. — Gradisci un drink, Carlos?
— Sono in servizio, signora — rispose lui deciso. — Ma lei e l’inviato speciale Boddit siete liberi di fare come vi pare.
Mary entrò per prima. Il salone era piuttosto scuro a causa del legno che rivestiva le pareti. Al bancone c’erano una decina di studiosi. Su un televisore sistemato in alto in un angolo scorrevano le immagini di una replica di Seinfeld. Mary riconobbe la puntata a colpo sicuro: era quando si scopriva che Jerry era un fanatico dentistofobo. Mary stava per inoltrarsi nel locale, quando Ponter le posò una mano su una spalla. — Quello non è il simbolo del tuo Paese?
Ponter stava indicando un’insegna elettrica che pubblicizzava la Molson Canadian. Pur non potendo leggere la scritta, aveva riconosciuto la foglia d’acero. — Oh sì — rispose Mary. — È questo a rendere famosa la mia terra qui: la birra. Cereali fermentati.
Ponter era ammirato. — Devi esserne orgogliosa.
Mary fece strada fino a uno dei gruppetti di persone che avevano preso posto sulle poltroncine intorno a un tavolo circolare. — Non ti dispiace, Carlos? — fece Mary.
— Io rimarrò qui — rispose l’agente. — Per oggi, ne ho sentite abbastanza sui fossili. — Andò al bancone e si accomodò su uno degli alti sgabelli, ma girò le spalle al barista per tenerli d’occhio.
Mary si rivolse agli occupanti del tavolo: — Possiamo aggiungerci alla comitiva?
I tre, due uomini e una donna, erano impegnati in un’accesa discussione, ma alzati gli occhi riconobbero subito Ponter. — Santo cielo, certo che sì! — esclamò uno degli uomini. Al tavolo c’era già una sedia libera; ne prese un’altra lì vicino.
— A che dobbiamo l’onore? — chiese l’altro uomo, mentre Mary e Ponter si sedevano.
Mary si era preparata a rispondere parte della verità: nei dintorni non c’era nessuno che fumava, e la disposizione delle sedie avrebbe impedito che si aggiungessero ulteriori avventori, non voleva che Ponter finisse soffocato dalla folla. Avrebbe però evitato di dire l’altra parte della verità: nel mezzo del locale c’era Norman Thierry dell’Università di Los Angeles, pomposo e sedicente esperto di DNA neanderthaliano, che sarebbe crepato dall’invidia per non potersi avvicinare a Ponter.
Alla fine, Mary si limitò a ignorare la domanda e andò avanti con le presentazioni. — Henry Cervo Che Corre — disse, indicando un nativo sulla quarantina. — Insegna indiano alla Brown University.
— Insegnavo — corresse lui. — Mi sono trasferito a quella di Chicago.
— Ah — fece Mary. — E lei — disse, rivolta alla donna, una bianca sui 35 anni — è Angela Bromley, del Museo di storia naturale di New York.
Angela porse la mano. — È un vero piacere, professor Boddit.
— Chiamami pure Ponter — disse lui. Aveva imparato che, in quella società, nessuno chiamava un altro per nome finché non fosse l’interessato a permetterlo.
— Lui — aggiunse Angela — è mio marito Dieter.
— Salve — dissero in coro Mary e Ponter, poi lei chiese: — Anche tu antropologo?
— No, no, no. Sono nell’alluminio.
Ponter si grattò la testa. — Lo nascondi bene.
Il gruppo restò sconcertato, ma Mary rise. — Imparerete ad apprezzare lo humour di Ponter!
Dieter si alzò. — Permettetemi di offrirvi da bere. Tu, Mary, vino?
— Bianco. Grazie.
— E per Ponter?
Ponter si accigliò, indeciso su cosa rispondere. Mary gli sussurrò: — In tutti i bar hanno Coca-Cola.
— Una Coca! — s’illuminò lui. — Sì, grazie.
Dieter si allontanò. Mary prese qualche stuzzichino da una ciotola di legno al centro del tavolo.
— E allora! — disse Angela a Ponter. — Spero che non ti dispiaccia se ti rivolgo qualche domanda. Tu ci hai sconvolto il mestiere, dopotutto.
— Non l’ho fatto apposta — disse Ponter.
— Oh, naturalmente — rispose Angela. — Ma tutte le cose che scopriamo sul tuo mondo, rovesciano qualche certezza che credevamo di avere.
— Per esempio?
— Si dice che voi non pratichiate l’agricoltura.
— È così.
— Avevamo sempre supposto che l’agricoltura fosse un prerequisito necessario allo sviluppo della civiltà — disse Angela, sorseggiando il cocktail che aveva ordinato.
— Perché? — chiese Ponter.
— Be’, vedi, pensavamo che soltanto grazie all’agricoltura si potesse garantire una quantità adeguata di cibo per tutti. Il che permette la nascita di mestieri specializzati: insegnante, ingegnere, impiegato statale, eccetera.
Ponter scosse lentamente la testa, incredulo. — Nel mio mondo ci sono persone che decidono di vivere alla vecchia maniera. Quanto tempo immagini che ci voglia loro per procurare il necessario per sé e le loro famiglie? Angela fece spallucce. — Un sacco, presumo.
— No, affatto — disse Ponter. — Almeno, finché si hanno pochi figli. Quest’attività occupa circa il 9 per cento del tempo. — Fece una pausa, o per calcolare lui stesso o per attendere che Hak convertisse la percentuale. — Vale a dire, 60 delle vostre ore al mese.
— Sessanta ore al mese! — esclamò Angela. — Buon Dio, fanno solo 15 ore a settimana.
— Sì, esatto. E tutto il resto del tempo può essere dedicato ad altre attività. Fin dall’inizio abbiamo avuto una gran quantità di tempo che ci avanzava.
— Ponter ha ragione — intervenne Henry Cervo Che Corre. — Quindici ore alla settimana è, anche su questa Terra, l’impegno medio per i popoli che vivono di caccia.
— Davvero? — disse Angela, risistemandosi gli occhiali.
Henry annuì. — L’agricoltura è stata la prima attività umana in cui il risultato fosse direttamente proporzionale allo sforzo. Se si lavora per 80 ore alla settimana per arare i campi, si ottiene un raccolto doppio rispetto a un lavoro di 40 ore. Con la caccia e la raccolta di frutti spontanei, non va così: se si caccia a tempo pieno, si abbatteranno tutte le prede presenti sul territorio, per cui è controproducente dedicare a essa tutta la giornata.
Tornò Dieter, posò i bicchieri davanti a Mary e Ponter, e sedette.
— Ma, senza agricoltura — chiese Angela — come fate ad avere insediamenti permanenti?
Henry corrugò la fronte. — Tutto il contrario: a dare vita agli insediamenti permanenti non è l’agricoltura, è la caccia.
— Ma… no, no, ricordo che a scuola…
— Quanti nativi americani avevi tra gli insegnanti? — chiese Cervo Che Corre in tono gelido.
— Neppure uno. Pero…
Henry osservò Ponter, poi Mary. — I bianchi fanno una fatica enorme a comprendere questo fatto, ma è la pura verità. I cacciatori scelgono una base e vi si stabiliscono: per sopravvivere occorre conoscere a fondo il territorio, dove crescano determinate piante, dove si abbeverino gli animali, dove gli uccelli depongano le uova. Ci vuole una vita a mappare la zona. Se ci si trasferisce di frequente, allora si spreca un sacco di fatica.
Mary sollevò un sopracciglio. — Ma sono i contadini quelli che devono mettere radici.
Henry non notò la battuta. — In realtà, i contadini migrano ogni tot generazioni. I cacciatori-raccoglitori non accrescono eccessivamente i nuclei familiari, dato che ogni bocca in più significa tanto lavoro in più per un adulto. Invece i contadini amano le famiglie numerose, perché ogni figlio significa braccia in più da mandare nei campi. Più si hanno figli, meno si deve faticare di persona.
Ponter ascoltava con grande interesse. Ogni tanto il suo traduttore emetteva un bip, ma nel complesso il neanderthal seguiva bene il discorso.
— Il ragionamento fila — disse Angela, seppure in tono poco convinto.
— Certo — riprese Henry. — Però, quando i figli dei contadini sono cresciuti, tocca loro spostarsi per creare le proprie fattorie. Chiedi a un contadino dove vivesse il nonno di suo nonno, e lui ti citerà qualche località lontana. Chiedilo a un cacciatore, e lui risponderà: “Esattamente qui”.
Mary pensò al proprio albero genealogico. I suoi genitori stavano a Calgary, i suoi nonni vivevano in Inghilterra, Irlanda e Galles, e i suoi bisnonni… santo cielo, già risalendo all’indietro oltre due generazioni, non riusciva più a rintracciare la propria famiglia.
— Un territorio di caccia e raccolta non lo si abbandona a cuor leggero — diceva intanto Henry. — Ecco perché si dà tanta importanza all’esperienza degli anziani.
A Mary bruciava ancora l’ironia di Ponter sul fatto che lei si tingesse i capelli. — Ti prego, approfondisci questo aspetto.
Dopo aver bevuto un po’ della sua birra, Henry rispose: — I contadini danno importanza ai giovani, perché l’agricoltura è tutta questione di forza fisica. Ma la caccia e la raccolta di frutti spontanei si basano sulla conoscenza. Più è lungo il periodo di cui si conserva memoria, più emergono degli schemi regolari, e meglio si domina il territorio.
— Anche noi diamo importanza agli anziani — disse Ponter. — Nulla può sostituire l’esperienza.
Mary annuì. — È una cosa che già sapevamo a proposito dei neanderthal, grazie ai fossili. Solo che non capivamo perché.
— Non lo sapevo: io sono specializzata in Australopithecus — disse Angela. — Quali fossili?
— L’esemplare noto come l’Uomo di La-Chapelleaux-Saints — rispose Mary — soffriva di paresi e artrite, aveva una frattura alla mascella e gli mancavano quasi tutti i denti. Era evidente che gli altri si erano presi cura di lui da anni, altrimenti non ce l’avrebbe mai fatta a sopravvivere. Anzi, è probabile che qualcuno addirittura gli pre-masticasse il cibo. L’Uomo di La-Chapelle morì anziano: a 40 anni, che era una bella età per un popolo in cui si campava intorno ai vent’anni. Doveva avere accumulato un enorme bagaglio di conoscenze sul territorio della tribù. Decenni di esperienza! Lo stesso vale per l’esemplare Shanidar I, dall’Iraq. Anche lui era sulla quarantina, e in condizioni fisiche ancora peggiori: cieco dall’occhio sinistro, privo del braccio destro.
Henry fischiettò un motivetto; Mary lo riconobbe dopo qualche istante: la sigla dell’Uomo bionico. Sorrise e proseguì: — Anche di lui si era presa cura la comunità, e non tanto per carità cristiana, quanto perché una persona di quell’età era una preziosa fonte di conoscenze per la caccia.
— Può essere — disse Angela, un po’ sulla difensiva — il che però non toglie che sono stati i contadini a costruire città, a sviluppare la tecnica. In Europa, in Egitto, terre agricole, esistono città da migliaia di anni.
Cervo Che Corre si voltò verso Ponter, come per chiedere sostegno. Lui però non fece altro che fargli cenno di proseguire. Henry allora chiese: — Pensi che gli europei abbiano sviluppato la tecnica, metallurgia e tutto quanto, e gli indiani no, a causa di una qualche forma di superiorità? È questo che pensi?
— No, no — disse Angela, messa alle strette. — Certo che no! Tuttavia…
— Gli europei sono solo stati baciati dalla fortuna. Preziosi minerali in superficie, selci per creare strumenti… Hai mai provato a scheggiare il granito, che è la roccia più diffusa qui? Dà delle punte di freccia semplicemente schifose.
Mary sperava che Angela lasciasse perdere, ma lei s’intestardì. — Gli europei non avevano solo lance e frecce. Furono anche abbastanza intelligenti da addomesticare animali, su cui scaricare parte della fatica. Gli indiani non lo hanno mai fatto.
— Perché non potevano — rilanciò Henry. — Sull’intero pianeta esistono solo 14 specie di grandi erbivori addomesticabili; e solo una di esse, la renna, si trova allo stato naturale in Nord America, e solo all’estremo nord. Le cinque specie più importanti hanno tutte origine in Eurasia: la pecora, la capra, la mucca, il cavallo, il maiale. Le altre nove hanno rilevanza secondaria, come il cammello, con un habitat molto ristretto. Non è possibile addomesticare la grande fauna nordamericana: l’alce, l’orso, il bisonte, il puma… semplicemente, non possiedono le caratteristiche comportamentali adeguate. Ah sì, li si può catturare, ma non allevare, e non si lasceranno cavalcare per quanto uno li frusti. — Il suo tono di voce si faceva sempre più gelido. — Non è stata un’intelligenza superiore a favorire gli europei. Semmai, abbiamo dimostrato più cervello noi indiani qui in Nord America a sopravvivere, anzi a fiorire in assenza di metalli e di erbivori addomesticabili.
— Però alcuni pellirossa… chiedo scusa: indiani — disse Angela — praticavano l’agricoltura.
— Sicuro. Ma che cosa coltivavano? Soprattutto il mais, che era la pianta disponibile in zona. Il mais ha un contenuto proteico molto basso in confronto ai cereali dell’Eurasia.
Ora fu Angela a guardare Ponter. — Ma… ma i neanderthal? Hanno avuto origine in Europa, non in America settentrionale.
Henry annuì. — E fabbricavano ottimi strumenti in pietra. La cosiddetta “industria mousteriana”.
— Però non addomesticavano animali, anche se, come dici, l’Europa offriva molte specie adatte. Né praticavano l’agricoltura.
— Pronto Angela, ci sei? — esclamò Henry. — Nessuno allevava animali, all’epoca in cui i neanderthal vissero su questa Terra. E nessuno coltivava il suolo: né gli antenati di Ponter, né i tuoi né i miei. L’agricoltura ha avuto inizio nella Mezzaluna l’ertile 10.500 anni fa, quando i neanderthal erano scomparsi da un pezzo… almeno in questo universo. Chi può sapere cosa avrebbero fatto, se fossero sopravvissuti?
— Io lo so — constatò Ponter. Mary rise.
— Benissimo — disse Henry. — Allora dicci tutto. Il tuo popolo non ha mai praticalo l’agricoltura, esatto?
— Esatto — rispose Ponter.
Henry annuì. — E avete fatto bene, probabilmente. L’agricoltura porta un sacco di mali.
— Del tipo? — chiese Mary, facendo attenzione a esprimere curiosità, non ostilità, adesso che Cervo Che Corre sembrava essersi rasserenato un po’.
— Be’ — disse Henry — avevo già accennato al sovrappopolamento. Con gli ovvi effetti sul territorio: l’abbattimento delle foreste per fare posto alle fattorie. Oltre, naturalmente, alle malattie portate dagli animali domestici.
Mary notò che Ponter annuiva. Ruben Montego ne aveva già parlato, quando erano a Sudbury.
Annuiva anche Dieter, che dava l’impressione di essere ben attento alla conversazione, per essere nell’alluminio. — Non bastano i malesseri fisici, ci sono anche quelli sociali: la schiavitù, per esempio, che è un prodotto diretto del fabbisogno di manodopera in agricoltura.
Mary osservò Ponter, sentendosi a disagio. Era la seconda volta che, lì a Washington, saltava fuori il tema della schiavitù. Prima o poi, lei gli avrebbe dovuto dare qualche spiegazione.
— Vero — commentò Henry. — Gran parte degli schiavi erano impiegati nelle piantagioni. Ma, anche quando non c’è schiavitù in senso stretto, l’agricoltura produce fenomeni equivalenti: mezzadria, servi della gleba, eccetera. Per non parlare della società verticistica che ne risulta: signori feudali, proprietari terrieri… tutti prodotti diretti dell’agricoltura.
Angela si agitava nervosamente sulla sedia. — Anche restando alle società di cacciatori, i ritrovamenti archeologici dimostrano che i nostri antenati erano molto più abili dei neanderthal.
Durante il dibattito su agricoltura e feudalesimo, Ponter era apparso spaesato. Ma non gli sfuggì l’ultima osservazione di Angela. — In che senso?
— Be’ — disse lei — non abbiamo riscontrato segni di una particolare efficacia nelle tecniche di caccia dei vostri antenati.
Ponter si accigliò. — A che ti riferisci?
— I neanderthal abbattevano solo un animale per volta. — Angela non aveva ancora terminato la frase, che già si era resa conto di aver commesso un errore.
Ponter sollevò un sopracciglio. — I vostri antenati, come cacciavano?
Angela si morse la lingua. — Be’… hmm… la tecnica era… be’, di spingere interi branchi giù dai dirupi, ammazzandone centinaia per volta.
Ponter spalancò gli occhi dorati. — Ma… ma questa è pura depravazione! Per quanto fossero numerose le tribù, non avrebbero mai consumato tutta quella carne. E inoltre, uccidere a quel modo mi sembra un segno di vigliaccheria.
— N… non intendevo metterla a quel modo — disse Angela, arrossendo. — Voglio dire, noi riteniamo che sia una temerarietà infantile esporsi a rischi inutili, per cui…
— Vi lanciate giù da aeroplani — disse Ponter. — Vi arrampicate su pareti di roccia in verticale. Avete trasformato pugni e calci in attività sportive. L’ho visto in TV.
— Non tutti facciamo di queste cose — negò Angela in tono calmo.
— E va bene — proseguì Ponter. — Ma, a parte gli sport pericolosi, ho visto altri comportamenti che sono diffusi. — Indicò il bancone del bar. — Fumare tabacco, bere alcol: entrambe cose che, per quanto ne so, sono dannose. Ed entrambe, tra l’altro — annuì rivolto a Henry — derivano dall’agricoltura. Mi pare che possano essere classificate come rischi inutili. Come fate a uccidere gli animali in quel modo vigliacco, per poi esporvi a rischi come… ah, un attimo! Ho capito.
— Capito cosa? — chiese Mary.
— Già… — le fece eco Henry.
— Datemi solo un momento — disse Ponter, inseguendo un pensiero vagante. Qualche secondo dopo, annuì. — Voi gliksin bevete alcol, fumate e vi cimentate in sport pericolosi per dimostrare le vostre capacità residuali. Alle persone che vi circondano, è come se diceste: “Nei momenti in cui sono sotto sforzo, posso anche abbassare la guardia, ma ho energie di riserva. Messaggio ai possibili partner: in questo momento non sto agendo al massimo delle mie potenzialità. Per cui, quando la situazione sarà tesa, mi resteranno parecchie forze da spendere”.
— Sul serio? È una prospettiva affascinante — disse Mary.
— Lo so, perché anche il mio popolo fa lo stesso. Però, in modo diverso. Quando andiamo a caccia…
Mary colse al volo: — Quando andate a caccia, non scegliete la via più facile. Non fate precipitare i branchi dai dirupi, né li colpite con le lance da una distanza di sicurezza, come invece facevano i miei antenati su questa versione della Terra. No. Anche su questo pianeta, i tuoi antenati si cimentavano in scontri corpo a corpo con le prede, abbattendole una per una, e piantando loro addosso le lance da vicino. Immagino che questo veicoli lo stesso messaggio che fumare e bere: “Ehi, dolcezza, so procurarti la cena a mani nude. Perciò, anche se la faccenda si facesse difficile, e fossi costretto a cacciare in modo più prudente, sta’ sicura che il lardo non mancherà mai sulla tavola”.
— Esatto — approvò Ponter.
Mary annuì. — I conti tornano. — Indicò un tipo smilzo seduto sul lato opposto del locale. — Quell’uomo, Erik Trinkaus, ha scoperto che i fossili di molti neanderthal presentano le stesse contusioni degli attuali partecipanti ai rodei, come se fossero stati disarcionati dagli animali durante una lotta ravvicinata.
— Sì, assolutamente — disse Ponter. — Qualche volta anch’io sono caduto da un mammut, quando…
— Da… cosa?! — esclamò Henry.
— Da un mammut, quando…
— Un mammut! — ripeté Angela incredula.
Mary sorrise. — Ho come l’impressione che la conversazione durerà ancora un po’. Offro io il prossimo giro.