— Affascinante — disse Jurard Selgan. — Assolutamente affascinante.
— Che cosa? — chiese Ponter, con un velo d’irritazione.
— L’atteggiamento che hai mantenuto davanti al monumento ai gliksin morti nel Galasoy sud-orientale.
— E perché? — Aveva l’espressione di uno a cui stiano grattando via la crosta.
— Be’, non era la prima volta che le tue convinzioni… le nostre convinzioni da barast… si trovavano in conflitto con quelle dei gliksin, vero?
— No, certo che no.
— Anzi, conflitti di questo tipo erano emersi fin dalla tua prima visita laggiù, è così?
— Immagino di sì.
— Potresti farmi un esempio? — chiese Selgan.
Ponter incrociò le braccia sul petto. — Benissimo — disse, in tono risoluto. — Te ne avevo parlato già all’inizio: i gliksin hanno questa stupida idea che l’universo esista solo da un tempo determinato. Hanno completamente frainteso lo shift verso il rosso, interpretandolo come una prova dell’espansione del cosmo. Non si rendono conto che la massa varia con il tempo. In più, ritengono che la radiazione di fondo sia l’eco di quello che chiamano Big Bang, l’immensa esplosione che avrebbe dato origine all’universo.
— Hanno una certa propensione per le esplosioni — commentò Selgan.
— Già. Anche se, ovviamente, la vera causa dell’uniformità della radiazione di fondo è l’alternarsi di assorbimento ed emissione degli elettroni intrappolati nei filamenti dei vortici magnetici che premono sul plasma.
— Sarà senz’altro così — disse Selgan, concedendo che quello non era il suo territorio.
— È così — ribadì Ponter. — Ma su questo argomento non mi sono messo a discutere con loro. Nella mia prima visita, Mèr mi aveva detto: “Non credo che riuscirai a convincere molta gente che il Big Bang non si è mai verificato”. Ero d’accordo con lei, e le ho risposto: “Il desiderio di convincere gli altri delle proprie idee, deriva dalla religione. Io mi accontento di sapere che ho ragione, anche se gli altri ne sono all’oscuro”.
— Ah. E davvero il tuo modo di pensarla?
— Sì. Per i gliksin, la conoscenza è una lotta! Una guerra per il territorio! Per ottenere il titolo di professore, laggiù, uno deve difendere una tesi. Usano proprio questo termine: difendere. Ma la scienza non è affatto una battaglia contro chiunque la pensi diversamente; consiste piuttosto nella flessibilità, nell’apertura mentale, nell’esame della verità. Non importa chi sia a scoprirla.
— Concordo — disse Selgan. Poi, dopo una breve pausa: — Però non hai speso molto tempo a cercare eventuali prove che i gliksin avessero ragione, in quella loro idea sull’aldilà.
— Questo non è vero. Ho dato a Mèr tutta la possibilità di dimostrare la validità della sua tesi.
— Anche prima della visita al memoriale, intendi?
— Sì. Ma non aveva uno straccio di prova.
— Per cui, come nel caso del loro cosmo delimitato nel tempo, hai lasciato perdere, accontentandoti ai sapere che avevi ragione tu?
— Sì. Be’, voglio dire…
Selgan sollevò un sopracciglio. — Sì?
— Voglio dire, va bene, certo, ho discusso con lei quella faccenda dell’aldilà, ma era diverso.
— Diverso dalla cosmologia? E perché?
— Perché c’erano troppe cose in ballo.
— La cosmologia non si occupa forse del destino ultimo dell’universo?
— Sì, ma in questo caso non si trattava di ragionamenti astratti. Questo era… questo è… il nocciolo di ogni questione.
— Perché?
— Perché… perché… gristle!, non lo so perché. È che sembra così terribilmente importante. È il motivo per cui combattono tutte quelle guerre, no?
— Capisco. Ma capisco anche che, tra le loro convinzioni, questa occupa un posto speciale. Ti sarai accorto che non intendevano mollare facilmente su quel punto.
— Infatti.
— E tuttavia, ti sei ostinato.
— Un po’, sì.
— Perché?
Ponter fece spallucce.
— Continuavi a battere su quel chiodo — disse Selgan — perché volevi accertarti se ci fossero prove, o meno, della vita dopo la morte. Forse Mèr e gli altri gliksin stavano facendo troppa resistenza per i tuoi gusti. Forse esisteva qualche prova che Mèr ti avrebbe rivelato, se tu avessi tenuto duro.
— Non ci sono prove di ciò che non esiste — tagliò corto Ponter.
— Questo è indubbio — disse Selgan. — Ma qui, o stavi cercando di convincerli che avevi ragione tu, o li stavi forzando a dimostrare, a te, che avevano ragione loro.
Ponter scosse la testa. — Assurdo. Questa dell’anima è una credenza ridicola.
— Anima?
— La parte immateriale dell’essenza di ognuno, che loro ritengono immortale.
— Ah. E secondo te, è un’idea ridicola?
— Ovviamente!
— Però, loro sono autorizzati a crederci, no?
— Ritengo di sì.
— Proprio come sono autorizzati a difendere il loro bizzarro modello cosmologico, giusto?
— Suppongo.
— E tuttavia, non intendevi lasciar cadere la questione dell’aldilà, dico bene? Anche dopo che era terminata la visita al memoriale dei caduti in Vietnam, non hai abbandonato la discussione, vero?
Ponter distolse lo sguardo.
Scongiurato, almeno per il momento, lo spettro di una richiusura del varco (i neanderthal non avrebbero mai potuto farlo, finché una dozzina dei loro più illustri cittadini si fosse trovata sul lato gliksin), Jock Krieger decise di tornare alla ricerca di cui si stava occupando.
A bordo della sua BMW nera lasciò Seabreeze e raggiunse il campus lungo il fiume dell’Università di Rochester; il fiume in questione è il Genesee. Mentre la Synergy era in fase di organizzazione, erano bastate un paio di telefonate alle persone giuste per garantire al suo staff un diritto prioritario di accesso ai volumi della biblioteca dell’università. Lasciata la macchina al parcheggio di Wilmot, Jock si diresse all’edificio in mattoni della Carlson Science & Engineering Library, che prendeva il nome da Chester F. Carlson, inventore della xerografia. Sapeva che i giornali erano disponibili al piano terra; mostrò la sua tessera da VIP alla bibliotecaria, un donnone nero con i capelli raccolti in un fazzoletto rosso. Le disse che cosa gli serviva, e la donna si trascinò tra gli scaffali. Senza perdere un istante, Jock ne approfittò per scansionare con il proprio palmare alcuni articoli dal “New York Times” e dal “Washington Post” del giorno.
La bibliotecaria tornò cinque minuti dopo con le tre riviste arretrate da lui richieste (un numero di “Earth and Planetary Science Letters”, due di “Nature”), le quali, come aveva scoperto grazie a Internet, contenevano supplementi sull’inversione rapida del campo magnetico terrestre, autori: Coe et al.
Trovato un angolo appartato libero, Jock prese posto. Per prima cosa estrasse dalla ventiquattrore uno scanner portatile a batteria, che passò sulle pagine a cui era interessato, ricavandone immagini a 200 dpi che avrebbe letto a video più tardi con comodo. Rivolse perfino un sorriso al ritratto di Chester Carlson appeso sulla parete lì accanto: l’inventore avrebbe senz’altro apprezzato quella diavoleria tecnologica.
Quindi Jock si mise a leggere gli articoli originali su carta. La cosa più interessante, in quello pubblicato su “Earth and Planetary”, era che gli autori ammettevano senza problemi che le loro scoperte contrastavano con le nozioni acquisite, secondo cui un collasso magnetico dovrebbe richiedere interi millenni. Quella teoria, però, pareva basata non tanto su dati sperimentali quanto sulla vaga sensazione che il campo magnetico terrestre fosse difficile da capovolgere per le sue dimensioni. Coe e Prévot, al contrario, avevano raccolto prove a sostegno di collassi estremamente rapidi. 1 loro studi erano partiti dalle colate laviche presso le Steens Mountains nel sud dell’Oregon, dove un vulcano aveva eruttato 56 volte durante un’inversione di campo magnetico, fornendo praticamente delle istantanee del processo. Per quanto i ricercatori non avessero potuto determinare gli intervalli trascorsi tra un’eruzione e l’altra, sapevano però quanto tempo sarebbe occorso alla lava, in ogni eruzione, per raffreddarsi fino al punto di Curie: a quel punto la magnetizzazione delle rocce neonate sarebbe rimasta congelata, rivelando l’attuale orientamento e intensità del campo magnetico terrestre. Le analisi suggerivano che il campo fosse collassato in un periodo non più lungo di poche settimane, altro che millenni.
Su “Nature” Jock lesse quindi sia il pezzo di Coe e collaboratori, sia la recensione critica fattane da un certo Ronald T. Merrill, la quale non conteneva granché di più di ciò che Merrill definiva il principio di minor sbalordimento: un’asserzione dogmatica secondo cui era più facile ritenere che Coe e Prévot avessero preso un granchio, piuttosto che accettare una simile scoperta, per quanto non si riuscisse a trovare pecche nel loro lavoro.
Jock si allungò sulla sedia. A quanto pareva, le cose raccontate da Ponter a quel geologo canadese, Arnold Moore, potevano risultare ben fondate.
Il che significava che non c’era un attimo da perdere.