Quando Mary aveva 18 anni, il suo fidanzato Donny per l’estate era andato a Los Angeles con la famiglia. Tutto questo accadeva prima dell’avvento delle telefonate a tariffa ridotta, per non parlare dell’e-mail, ma i due si erano tenuti in contatto via posta. All’inizio Donny mandava lettere lunghissime, dove si profondeva in notizie e dichiarazioni d’amore.
Poi le dolci giornate di giugno avevano lasciato il posto a quelle torride di luglio e a quelle afose di agosto; e man mano le lettere si erano fatte sempre meno frequenti, e più brevi. Mary conservava ancora il vivido ricordo del giorno in cui ne era arrivata una firmata semplicemente “Donny”. Senza la formula di rito: “Ti amo”.
Dicono che la lontananza acuisca la passione. Sarà così, in qualche caso… Per esempio, nel caso di Mary con Ponter Boddit. Non si vedevano da settimane, e Mary provava per lui lo stesso affetto, se non di più, di quando Ponter era partito.
Tra loro due però c’era una differenza. Dopo la scomparsa di Ponter, Mary era tornata a essere una persona sola. Sola, non single, in quanto lei e Colm erano solo legalmente separati. Se avessero divorziato, essendo cattolici, sarebbero stati esclusi dalla Comunione; a meno che non chiedessero l’annullamento del matrimonio, ma questa era sembrata a entrambi una soluzione ipocrita.
Viceversa, Ponter soffriva di solitudine solo quando si trovava nel mondo gliksin. È vero, era vedovo (sebbene lui non utilizzasse questo termine), ma al ritorno nel suo mondo si era ricongiunto con una famiglia: il compagno Adikor Huld (Mary si era segnata tutti i loro nomi), e le due figlie, la diciottenne Jasmel Ket e la piccola Megameg, 8 anni.
Mary era al 18° piano dell’edificio del Segretariato delle Nazioni Unite, in attesa che Ponter uscisse da una riunione. Restò seduta per tutto il tempo senza fare nulla, troppo nervosa per leggere, con lo stomaco stretto e la testa invasa dall’incalzare dei pensieri. Ponter l’avrebbe riconosciuta? Qui a New York aveva sicuramente visto eserciti di bionde sulla quarantina: le donne gliksin gli sarebbero sembrate tutte uguali? Per di più Mary aveva cambiato taglio di capelli e, dannazione, aveva messo su un chilo.
In fin dei conti, era stata lei a rifiutare lui, la volta scorsa. Forse Mary era l’ultima persona che Ponter desiderasse incontrare al suo ritorno su questa Terra.
Ma no, ma no. Ponter aveva compreso che lei era ancora sotto shock per la violenza subita, e che non era colpa di lui se Mary non se l’era sentita di accettare le sue avance. Ma certo, lui aveva capito tutto.
Tuttavia…
Mary si senti sobbalzare il cuore in petto. La porta si stava aprendo, il brusio dall’interno si era trasformato in parole distinte. Mary si alzò in piedi, stringendosi e torcendosi le dita.
— … le farò senz’altro avere quei dati — disse un diplomatico asiatico, rivolgendosi a una donna neanderthaliana dai capelli argentei, che doveva essere l’ambasciatrice Tukana Prat.
Altri due sapiens si fecero largo per guadagnare l’uscita. E dietro di loro…
Dietro di loro c’era Ponter Boddit. I suoi capelli castani chiari con la scriminatura esattamente in centro, i suoi occhi dorati erano inconfondibili e affascinanti anche a distanza. Mary inarcò le sopracciglia, ma lui non aveva ancora colto l’immagine di lei, o i suoi feromoni. Era intento a discutere con uno dei diplomatici in rapporto a certe questioni geologiche, quando…
Quando i suoi occhi caddero su Mary, lei sorrise nervosamente. Lui si spostò di lato con grazia, passò oltre gli uomini che lo precedevano ed esibì quel sorriso di 30 centimetri che Mary conosceva bene; le si avvicinò, la strinse tra le braccia, quasi stritolandola contro il proprio torace da lottatore.
— Mèr! — esclamò. Poi, tradotto da Hak: — È magnifico rivederti.
— Bentornato — disse lei, appoggiando la guancia contro la sua. — Bentornato!
— Che ci fai a New York?
Lei avrebbe potuto rispondere che era venuta nella speranza di poter prelevare un campione di DNA di Tukana. Era la verità in parte, e avrebbe fornito una scusa elegante.
Invece disse: — Sono venuta per te.
Ponter di nuovo la stritolò amorevolmente, quindi lasciò la presa e fece un passo indietro, posandole le mani sulle spalle e fissandola dritta negli occhi. — Sono così felice.
Con un certo imbarazzo, Mary si accorse che i presenti li stavano osservando. Anzi, dopo qualche secondo Tukana si schiarì la voce, proprio come fanno i gliksin.
Ponter voltò la testa e notò l’ambasciatrice. — Ops — disse. — Scusatemi. Ti presento Mèr Vaughan, la genetista di cui ti ho parlato.
Mary fece un passo avanti e porse la mano. — Buongiorno, ambasciatrice.
Tukana le strinse la mano con una forza mozzafiato. Mary pensò che, con un po’ di astuzia, avrebbe potuto raccogliere cellule di Tukana semplicemente con quel gesto di saluto. — Lieta di conoscerla — disse la neanderthal, presentandosi: — Io sono Tukana Prat.
— Lo immaginavo — rispose Mary con un sorriso. — Ho visto la sua foto sui giornali.
— Ho come la sensazione — disse Tukana con un sorrisetto — che forse lei e l’inviato Boddit desideriate trascorrere un po’ di tempo da soli. — Senza attendere risposta, si voltò verso uno dei diplomatici: — Che ne dice, potremmo andare subito nel suo ufficio per esaminare quei dati sulle densità di popolazione?
L’uomo annuì. Il gruppo si allontanò, lasciando liberi Mary e Ponter.
— E allora — disse Ponter, riabbracciandola — come stai?
Mary non capiva più se quel battito frenetico provenisse dal proprio cuore o da quello di Ponter. — Bene, adesso che sei qui.
L’aula delle assemblee generali dell’ONU consiste in una serie di semicerchi concentrici intorno a un palco. Ponter era stupito dalla varietà di fisionomie che vedeva. Già in Canada aveva notato una notevole varietà nel colore della pelle e nelle caratteristiche somatiche; anche negli Stati Uniti era così, per il poco di esperienza che ne aveva. Qui ebbe modo di constatare quella molteplicità di etnie che, secondo Lurt, era dovuta a periodi prolungati di isolamento geografico; partendo dal presupposto, avallato da Mary, che fossero anche possibili gli incroci genetici.
Con la differenza che qui i rappresentati di ogni singolo Paese avevano la pelle del medesimo colore. Perfino quelli di Canada e Stati Uniti erano tutti “bianchi”.
In più, Ponter era abituato, nel suo mondo, a Consigli composti o da persone dello stesso sesso, o da persone dei due sessi in percentuali uguali. Qui invece c’era un 95 per cento di uomini, con qualche donna qua e là. Era possibile che vigesse una gerarchia tra le “razze”, come le chiamava Mary, con al vertice gli umani di pelle chiara? E allo stesso modo, era concepibile che alle femmine gliksìn fosse accordato uno status inferiore, essendo ammesse solo raramente nella cerchia del potere?
Un’altra cosa che colpì Ponter fu l’età di molti diplomatici. Qualcuno era addirittura più giovane di lui! Una volta Mary gli aveva detto che si tingeva i capelli per nascondere quelli grigi, il che per Ponter era un’assurdità, come se uno volesse nascondere la propria saggezza. Gli uomini gliksin sembravano meno propensi a colorarsi i capelli… forse perché la loro saggezza veniva più spesso messa in dubbio. In ogni caso, anche all’ONU di teste brizzolate se ne scorgevano poche.
Le preoccupazioni sociologiche di Ponter si acquietarono un po’ quando vide che la massima autorità locale, che aveva la sorprendente carica di “amanuense-guerriero supremo”, era un uomo di pelle scura, con all’attivo un numero passabile di mesi. Hélene Gagné gli aveva sussurrato che quell’uomo aveva appena “vinto il premio Nobel per la pace”, qualunque cosa fosse.
Ponter sedeva tra la delegazione canadese. Purtroppo a Mary non era stato concesso un posto nella sala principale, per cui stava probabilmente seguendo l’assemblea da una delle gallerie per il pubblico, situate a un livello superiore. Al di sopra del podio era fissato un enorme simbolo azzurro delle Nazioni Unite. Per quanto, a livello cerebrale, Ponter accettasse la realtà di quel mondo, c’era ancora una parte di lui, sul piano emotivo, che riteneva che quella Terra non avesse nulla a che fare con la sua; eppure, quel simbolo conteneva al centro una mappa in proiezione del pianeta, in tutto simile a quelle che Ponter aveva visto in patria. Avvolta però dalle foglie di una qualche specie di pianta. Ne chiese il significato a Hélène, che gli spiegò che si trattava di ramoscelli d’ulivo, simbolo di pace.
La torre della pace, il premio per la pace, il ramoscello simbolo di pace. A dispetto del loro continuo coinvolgimento nella guerra, i gliksin sembravano pensare spesso alla pace. Parola che, con un certo conforto di Ponter, era anch’essa molto breve.
Dopo un lungo discorso introduttivo dell’amanuense-guerriero supremo, fu il turno di Tukana. Si alzò e raggiunse il podio, mentre i gliksin eseguivano la cosa chiamata “applauso”. Tukana portava una scatoletta in legno lucidato, che posò sul leggio.
Il Segretario generale le strinse le mano, quindi le lasciò campo libero.
— Vi saluto, popoli di questa Terra — disse il Companion di Tukana, traducendo le sue parole. — Vi porgo il saluto a nome del Gran Consiglio dei Grigi, e dell’intera popolazione del mio mondo.
Quindi, con un cenno in direzione di Ponter: — La prima volta che uno di noi è approdato qui, si è trattato di un caso imprevisto. Questa volta invece l’evento è stato voluto, e con grandi aspettative, da parte del mio popolo. Desideriamo vivamente stabilire relazioni stabili e pacifiche con ognuna delle nazioni qui rappresentate…
Continuò su quel tenore per un po’, affastellando luoghi comuni. Eppure i gliksin, notò Ponter, pendevano dalle sue labbra; tranne alcuni di quelli più vicini a lui, che lo scrutavano con discrezione.
— E ora — disse Tukana, come decidendo che era ora di venire al punto — è con immenso piacere che intendo avviare il primo scambio tra i nostri due popoli. — Si rivolse all’uomo di pelle scura, rimasto in piedi accanto al podio. — Se lei è pronto…
L’amanuense-guerriero supremo salì sul podio, portando anche lui una scatoletta in legno. Tukana aprì la propria, che le era appena stata fatta pervenire dal lato opposto del varco.
— In questo contenitore — disse l’ambasciatrice — si trova una copia esatta di un cranio rinvenuto nel nostro mondo. Su questa Terra ne è stata dissepolta la controparte, classificandola come AL 288-1: si tratta di un esemplare di Australopithecus afarensis, diventato famoso con il nome di “Lucy”. — Al Companion di Tukana era stato insegnato a pronunciare correttamente la “y”.
Per la sala si era diffuso un mormorio. A Ponter era stato spiegato il significato del gesto: in entrambi gli universi paralleli erano stati scavati dal terreno i reperti fossili di questa femmina pre-ominide adulta. Su questa Terra, la località del rinvenimento era stata Hadar, in Etiopia; il luogo neanderthaliano corrispondente si chiamava Kakarana. Su questa versione del pianeta, il cranio fossile era stato pesantemente danneggiato dall’erosione prima che Donald Johanson lo rinvenisse nell’anno gliksin 1974. Viceversa, sul pianeta di Ponter lo scheletro era stato scoperto prima che gli agenti atmosferici lo danneggiassero granché. Si trattava di un omaggio intelligente, pensò Ponter: lasciava intendere che in entrambi i mondi esistessero gli stessi depositi fossili e minerali, con gli indubbi benefici che avrebbe portato un baratto di informazioni.
— Accetto con gratitudine il dono, a nome di tutti i popoli di questa Terra — disse il Segretario generale. — In cambio, la prego di accettare questo dono da parte nostra. — Porse la scatola a Tukana, che la aprì e ne mise in mostra il contenuto. Sembrava una roccia avvolta in plastica trasparente. — Questo campione di breccia — spiegò l’uomo — è stato raccolto da James Irvin presso Hadley Rille. — Pausa a effetto, per gustare l’espressione interrogativa di Tukana. Poi, allegramente, spiegò: — Hadley Rille si trova sulla Luna.
Tukana strabuzzò gli occhi. Anche Ponter era sbalordito. Un pezzo di Luna! Come aveva potuto pensare di non avere fatto la cosa giusta, a stringere relazioni con questi umani?!