30

— Questa è casa tua? — chiese Mary.

Ponter annuì. Avevano dedicato un paio d’ore a visitare alcuni edifici pubblici, ma adesso si stava facendo buio.

Con grande sorpresa di Mary, la casa non era di mattoni né di pietra. In gran parte, era realizzata in legno; non che ne mancassero nella sua Terra, per quanto ormai fossero vietate per legge in molte zone dell’Ontario, ma mai ne aveva vista una come questa. Non sembrava edificata, ma cresciuta. Come se un tronco molto spesso e basso si fosse sviluppato fino a occupare tutti gli spazi di uno stampo con forme cubiche e cilindriche, stampo che poi fosse stato rimosso lasciando al suo posto la pianta. Dopodiché il suo interno era stato parzialmente scavato, ma senza ucciderla. La superficie della casa era ancora rivestita di corteccia scura e l’albero sembrava in salute, anche se le foglie, sui rami che si protendevano dal corpo centrale, si erano ingiallite con l’arrivo dell’autunno.

Il che non toglieva che si notassero anche lavori di falegnameria. Le finestre erano perfettamente squadrate, come tagliate nel tronco. In un angolo, all’esterno, c’era un tavolo realizzato con assi.

— È… — Nella mente di Mary vari aggettivi lottarono per imporsi: strano, meraviglioso, particolare, affascinante… Alla fine vinse: — Bellissimo.

Ponter annuì. Nel mondo di Mary si sarebbe risposto “grazie” al complimento, ma lei aveva imparato che i neanderthal non ringraziavano per cose di cui non avessero il merito. Già in precedenza, Mary aveva commentato che una delle camicie di Ponter era bella, e lui l’aveva guardata con aria perplessa, essendo ovvio che nessuno mette mai addosso qualcosa di brutto.

Mary indicò un grande quadrato nero sul terreno adiacente; era sui 20 metri per 20. — Cos’è, un’area di atterraggio?

— Solo occasionalmente. In realtà è un collettore di energia solare: trasforma la luce del sole in elettricità.

Mary sorrise. — Suppongo che d’inverni tocchi spalarlo.

Ponter scosse la testa. — Oh, no. L’hover-bus che ci porta ai posti di lavoro atterra proprio lì, e così facendo sfrutta i jet per spazzare via la neve.

Mary odiava talmente spalare la neve che, dopo la separazione da Colm, aveva optato per un appartamento. Immaginava la reazione del Comune, se si fosse chiesto di mandare uno spazzaneve davanti a ogni casa.

— Vieni, entriamo — la invitò Ponter.

La porta si aprì automaticamente. Le pareti interne erano in legno lucido; era la sostanza stessa dell’albero che li avvolgeva. Mary aveva visto un sacco di case rifinite in legno prima di allora, ma mai con venature che si estendevano ininterrottamente per un’intera stanza. Se non avesse visto l’edificio dall’esterno, non avrebbe mai capito come l’effetto fosse stato ottenuto. In vari punti delle pareti erano state ricavate delle nicchie, che contenevano sculture e cianfrusaglie varie.

All’inizio, le parve che il pavimento fosse coperto da una folta moquette, ma presto si accorse che era muschio. Quello doveva essere il soggiorno, con un paio di sedie dalla foggia inconsueta e due divani che si protendevano dal muro. Niente quadri incorniciati, però sull’intero soffitto era stato dipinto un grande murale, e..

A Mary si gelò il sangue.

In casa c’era un lupo.

Mary impallidì. Il cuore le martellava.

Il lupo si preparò a balzare su Ponter.

Attento! — urlò lei.

Ponter si voltò, e andò a cadere di schiena su uno dei divani. Il lupo era su di lui, con le fauci spalancate; e Ponter…

… scoppiò a ridere, mentre la belva gli leccava la faccia.

L’uomo continuava a ripetere alcune parole nella sua lingua, senza che Hak traducesse. Il tono comunque era di affetto e ilarità.

Qualche secondo dopo, scostò da sé il lupo e si rialzò in piedi. L’animale si voltò verso Mary.

— Mèr — disse Ponter — ti presento il mio cane, Pabo. È una femmina.

— C… cane — balbettò lei. Era un lupo selvaggio, con occhi da predatore.

Pabo si accucciò ai piedi di Ponter, sollevando il muso ed emettendo un lungo, potente ululato.

— Pabo! — la sgridò lui, aggiungendo una parola che doveva corrispondere al nostro “a cuccia!”. Poi Ponter rivolse a Mary un sorriso di scusa: — Non aveva mai visto un gliksin.

Ponter accompagnò il cane fin davanti all’ospite. Mary si sentì paralizzare la schiena e si sforzò di non tremare, mentre la belva, che doveva pesare almeno 50 chili, la annusava da una parte all’altra.

Ponter rivolse a Pabo alcune parole nello stesso tono cantilenante che i gliksin usano con i cuccioli.

In quel momento da una porta ad arco che portava in un’altra stanza entrò Adikor. — Ciao, Mèr — disse. — Piaciuto il giro?

— Moltissimo.

Ponter raggiunse Adikor e lo abbracciò. Mary distolse lo sguardo; quando lo rivolse di nuovo verso di loro, erano di fronte a lei, mano nella mano.

Mary sentì un’altra staffilata di gelosia.

Stupida che era. Ponter e Adikor si stavano semplicemente comportando come al solito, senza nascondere i reciproci sentimenti.

Eppure…

Eppure a iniziare l’abbraccio era stato Ponter o Adikor? Non riusciva a ricordare. E le grandi pacche sulla schiena se l’erano date mentre lei non guardava. Chissà, forse Adikor stava marcando il territorio, esibendo il suo legame con Ponter a beneficio dell’intrusa.

Pabo, apparentemente convinta che Mary non era un mostro minaccioso, si allontanò per accucciarsi su uno dei divani che spuntavano letteralmente dal muro.

— Ti va di vedere il resto della casa? — domandò Ponter.

— Volentieri — rispose lei.

La accompagnò in un locale, non nettamente separato, che doveva essere la cucina. Il pavimento muschioso era coperto da una lastra di vetro. Mary non riconobbe nessuno degli attrezzi presenti, tuttavia immaginò che il piccolo cubo corrispondesse a un forno a microonde; e il blocco più grande, costituito da due cubi blu, uno sull’altro, poteva essere un frigo. Espresse le proprie ipotesi, e Adikor rise.

— Per l’esattezza — disse, indicando l’oggetto più piccolo — quella è una cucina laser. Utilizza le stesse frequenze a rotazione dell’apparecchiatura di sterilizzazione, ma in modo da cuocere la carne in modo uniforme sia all’interno che all’esterno. Inoltre, non usiamo più la refrigerazione per conservare gli alimenti, anche se in passato lo facevamo. Quello è un impianto sotto-vuoto.

— Oh — disse Mary. Si girò, e vide qualcosa che la lasciò di sasso. Una parete era occupata da quattro monitor piatti, quadrati, in ognuno dei quali era visibile un diverso scorcio di quel mondo. A Mary aveva dato preoccupazione fin dall’inizio il lato orwelliano della società neanderthal, ma non si aspettava che Ponter fosse coinvolto nello spionaggio dei vicini.

— Quelli sono i voyeur — spiegò Adikor, avvicinandosi. — Servono a visionare gli Esibizionisti. — Aggiustò qualche comando sui monitor: sui quattro schermi venne fuori un’unica immagine che prima compariva in basso a destra. — Questo è uno dei miei preferiti — commentò Adikor. — Hawst ha sempre qualcosa di interessante per le mani. — Osservò la scena. — Ah, adesso si trova a una gara di daybatol.

— Dai, andiamo — disse Ponter, invitandoli a proseguire. Il tono implicava che, se Adikor si fosse messo a seguire una partita di daybatol, staccarlo dal visore sarebbe stata un’impresa.

Mary lo seguì, e anche Adikor. La stanza successiva era evidentemente il bagno e camera da letto. Una grande finestra dava su un ruscello; c’era un’ampia depressione rettangolare con cuscini quadrati, e poggiatesta a forma di disco. In un altro angolo c’era una buca circolare. — Quello è il bagno? — chiese Mary.

Ponter annuì. — Usalo pure, se ne hai bisogno.

Mary scosse la testa. — Magari più tardi. — Lo sguardo le tornò al letto, mentre le turbinavano nel cervello immagini di Ponter e Adikor, nudi, abbarbicati in posizioni erotiche.

— Ecco tutto — disse Ponter. — Questa è la nostra casetta.

— Venite — disse Adikor — torniamo in soggiorno.

Ponter li precedette. Adikor sloggiò Pabo dal divano e vi si sdraiò. Ponter fece segno a Mary che poteva accomodarsi sull’altro. Forse la posizione supina era considerata la più piacevole; del resto, era il modo migliore per gustare i murales del soffitto.

Mary fece come aveva detto Ponter, immaginando che lui sarebbe venuto a sedersi accanto a lei. Invece lui si avvicinò ad Adikor, e gli diede un buffetto affettuoso sul cranio. Adikor si mise seduto, ma senza allungare i piedi; non appena Ponter si fu accomodato all’estremità del divano, lui si sdraiò di nuovo e gli appoggiò la testa in grembo.

A Mary si chiuse lo stomaco. D’altra parte, era possibile che Ponter non avesse mai ospitato in quella casa una donna di cui fosse innamorato.

— E allora — chiese Ponter — che te ne pare del nostro mondo, finora?

Lei ne approfittò per rivolgere lo sguardo altrove, come se dovesse raccogliere le idee. — Be’, è… — fece spallucce — diverso. — Poi, accorgendosi che poteva suonare offensivo, si affrettò ad aggiungere: — Ma grazioso, molto grazioso. — Pausa. — E pulito.

Le veniva da ridere. Sembravano proprio i commenti degli americani quando visitavano Toronto: “Che città pulita che avete!”.

Ma, in confronto a Saldak, Toronto era un porcile. Mary aveva sempre pensato che fosse fisicamente impossibile che una numerosa popolazione umana non avesse effetti devastanti sull’ambiente, e invece…

Invece, la responsabilità non era di una popolazione numerosa, ma di una popolazione in crescita continua. Con le loro generazioni a scadenze fisse, i neanderthal beneficiavano da secoli degli effetti di una crescita zero.

— Piace anche a noi — disse Adikor, come per portare avanti la conversazione. — Ed è per questo, ovviamente, che è come è.

Ponter gli tirò affettuosamente i capelli. — Anche il loro mondo ha il suo charme.

— Ho sentito dire che le vostre città sono molto più grandi — aggiunse lui.

— Ah sì — rispose Mary. — Molte hanno milioni di abitanti. Per esempio Toronto, la città da cui provengo, ne ha quasi 3 milioni.

Adikor scosse la testa, strusciandola sulle ginocchia di Ponter. — Sbalorditivo.

— Dopo cena ti accompagneremo al Centro — disse Ponter. — Là la popolazione è molto più compattata; gli edifici distano solo poche decine di passi uno dall’altro.

— Sarà là che si terrà la cerimonia? — chiese Mary.

— No, a metà strada tra l’Anello e il Centro.

Un pensiero fulminò Mary. — Non… non ho portato niente di carino da mettermi!

Ponter rise. — Non preoccuparti, qui nessuno saprebbe distinguere gli abiti quotidiani di un gliksin da quelli eleganti. Ci sembrano tutti strani. — Abbassò lo sguardo su Adikor. — A proposito. Domani hai una riunione al Consorzio Fluxatan, vero? Come ti agghinderai?

Stavolta Hak continuò a tradurre per Mary. — Non so ancora — rispose Adikor.

— Che ne dici del giustacuore verde? Mi piace il modo in cui esalta i tuoi bicipiti.

Mary ne ebbe abbastanza. Scattò in piedi e si diresse difilato alla porta. — Scusatemi — disse, sforzandosi di rallentare il respiro. — Scusatemi tanto.

E uscì di casa. Nel buio.

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