Mary e Ponter tornarono al computer quantistico. Ad attenderli c’era un 143 dall’aria molto distinta, che Ponter riconobbe all’istante. — Goosa Kusk! — disse, sopraffatto dallo stupore. — È un onore poterla conoscere.
— Grazie — rispose lui. — Mi è giunta voce di quel brutto pasticcio accaduto nell’altro mondo: il tale che ti ha colpito con un’arma a proiettili, e tutto quanto.
Ponter annuì.
— Be’, mi ha contattato Lonwis Trob, suggerendo un’idea su come evitare che si ripetano episodi del genere. La sua ipotesi era simpatica, ma ho deciso di realizzare un’invenzione diversa. — Da un tavolo prese un oggetto metallico piatto e allungato. — Questo è un generatore di campo di forza. È in grado di individuare qualsiasi proiettile in avvicinamento non appena entri nel raggio d’azione del tuo Companion, innalzando una barriera elettrica nel giro di pochi nanosecondi. La barriera avrà un’estensione laterale di sole tre spanne e durerà un quarto di battito; un periodo più lungo richiederebbe troppa energia. Però è assolutamente rigida e impenetrabile: qualunque oggetto la colpisca, verrà respinto. Se qualcuno ti lancerà uno di quei proiettili metallici, la barriera gli farà deviare traiettoria, e lo stesso varrà per lance, coltelli, pugni di ferro e così via. Viceversa, qualsiasi oggetto che si muova più lentamente non la azionerà, quindi non ti impedirà il contatto con le persone. Ma se a qualche altro gliksin verrà l’insano proposito di ucciderti, be’, dovrà studiare un metodo migliore.
— Cavoli — disse Mary. — Sbalorditivo.
Goosa fece spallucce. — Semplicemente, scientifico.
— Si rivolse di nuovo a Ponter: — Ecco, va allacciata al braccio, dalla parte opposta del Companion, vedi? — Ponter sollevò il braccio sinistro, e Goosa gli fissò l’apparecchio. — Questo cavetto in fibra ottica va collegato alla porla esterna del Companion… fatto!
Mary osservava meravigliata. — È come un air-bag ambulante — disse. Poi, notando l’espressione di Goosa: — Non che funzioni nello stesso modo. Gli air-bag sono sistemi di sicurezza che si gonfiano all’istante in caso di collisione di un’automobile a velocità elevata. Però il principio, in fondo, è lo stesso. — S’illuminò.
— Potrebbe fare una fortuna, a vendere questo ritrovato sulla mia Terra!
Ma Goosa scosse il venerabile capo. — Per il mio popolo, questo strumento risolve il problema “attentato da parte di gliksin”. Per il suo popolo, sarebbe solo un palliativo. La vera soluzione non consiste nel ripararsi dalle armi, ma nell’eliminarle dalla circolazione.
Mary sorrise. — Vada a raccontarlo ai pistoleri yankee…
— Davvero magnifico — stava commentando Ponter.
— Sicuro che funzioni? — Lo sguardo di Goosa fu molto eloquente. — Be’, ovvio che sì, chiedo scusa.
— Ne ho già fatti pervenire undici al nostro contingente sull’altro lato del varco — disse l’inventore. Pausa. — Di solito si augura “buon viaggio, e non correre rischi”. Siccome il secondo punto è assicurato, mi limiterò a dire… buon viaggio!
I due attraversarono il tunnel, trasferendosi da un universo all’altro. Dalla parte opposta li accolse il tenente Donaldson, quell’ufficiale dell’esercito canadese che Ponter aveva già incontrato. — Bentornato, inviato speciale Boddit — salutò. — E bentornata a casa, professoressa Vaughan.
— Grazie — disse Ponter.
— Non sapevamo con certezza quando, o se, sareste tornati — disse Donaldson. — Dovrete avere la cortesia di lasciarci il tempo di organizzare le misure per la vostra sicurezza personale. Che destinazione avete? Toronto? Rochester? L’ONU?
Ponter osservò Mary. — Veramente, non abbiamo ancora deciso.
— Be’ — rispose il militare — allora dovremo stabilire un itinerario, in modo da poter garantire la vostra incolumità 24 ore su 24. In questo momento alla centrale di polizia di Sudbury è in corso una riunione con la Sicurezza nazionale, perciò…
— No — disse Ponter netto.
— P… prego?
Ponter tirò fuori il passaporto canadese da una delle tasche del suo cinturone. — Questo documento non mi permetteva di circolare liberamente per il Paese?
— Oh, sì, ma…
— Non sono forse cittadino canadese?
— Lo è, assolutamente, signore. Ho visto la cerimonia in TV.
— E i cittadini non sono liberi di andare dove gli pare, e senza scorta armata?
— In situazioni normali è così, ma…
— Questa è una situazione normale — disse Ponter. — E lo sarà sempre, d’ora in poi: gente che dal mio mondo passa nel suo, e viceversa.
— Lo facciamo per la sua incolumità, inviato Boddit.
— Me ne rendo conto, ma chiedo di farne a meno. Ho indosso uno scudo di protezione che mi tutelerà da futuri attentati. Quindi, riassumendo: non corro rischi, non sono un criminale, sono un libero cittadino. E chiedo di potermi muovere senza catene e senza compagnia.
— Io… hmm… devo sentire i miei superiori.
— Non perdiamo tempo con gli intermediari — disse Ponter. — Di recente ero a cena dal Primo ministro, il quale mi ha assicurato che, per ogni necessità, avrei potuto rivolgermi a lui. Me lo passi in linea, per favore.
Tornati in superficie con l’ascensore della miniera, Mary e Ponter risalirono nella macchina di lei, rimasta parcheggiata presso l’ingresso dell’Osservatorio. Era abbastanza presto, si poteva arrivare senza fretta a Toronto. All’inizio Mary riteneva che, in un modo o nell’altro, le forze dell’ordine li avrebbero seguiti; ma presto si accorsero di essere soli sulla strada. — Pazzesco — disse. — Non avrei mai immaginato che ci avrebbero lasciati andare.
Ponter sorrise. — Sai che romanticismo scortati dappertutto!
Il viaggio non registrò eventi degni di nota. Raggiunsero il condominio di Mary in Observator Lane sulla Richmond Hill, fecero insieme la doccia, si cambiarono (Ponter si era portato la valigia trapezoidale) e poi si diressero alla vicina stazione di polizia. Prima di potersi rilassare, Mary doveva chiudere quel capitolo. Si portò una cartellina piena di ritagli di giornale.
Per arrivare a destinazione si attraversava il campus della York University, quindi un quartiere che perfino a Ponter sembrò pericoloso. — Lo avevo già notato durante il primo viaggio — disse. — Sembra una zona in piena decadenza.
— Driftwood — disse Mary, come se bastasse la parola. — È un’area molto povera della città.
Superati una serie di palazzi fatiscenti e un piccolo centro commerciale con tutte le vetrine protette da sbarre di ferro, lasciarono la macchina nel piccolo parcheggio accanto alla stazione di polizia.
— Professoressa Vaughan, buongiorno — disse l’investigatore Hobbes, chiamato dal centralino. — Buongiorno, inviato speciale Boddit. Non pensavo di rivedervi qui.
— Possiamo parlare in privato? — chiese Mary.
Hobbes annuì e li accompagnò nella stessa stanza degli interrogatori della volta scorsa.
— Lei sa chi sono? — gli chiese Mary. — A parte per la denuncia che ho fatto, intendo.
Hobbes fece cenno affermativo. — Mary Vaughan. La stampa ha parlato spesso di lei, ultimamente.
— E sa perché?
Hobbes indicò Ponter con il pollice. — Perché accompagna l’inviato.
Mary liquidò la risposta con uno svolazzo della mano. — Sì, sì, sì, ma sa anche perché all’inizio sono stata chiamata proprio io a occuparmi di Ponter?
Hobbes scosse la testa.
Mary posò sulla scrivania la cartellina che aveva con sé. — Dia un’occhiata a questi.
Il poliziotto aprì il raccoglitore. Il primo ritaglio era del “Toronto Star”: SCIENZIATA CANADESE PREMIATA IN GIAPPONE. Seguiva un articolo da “Maclean’s”: IL GHIACCIO È ROTTO. Recuperato in Yukon DNA preistorico. Quindi un breve trafiletto dal “New York Times”: Scienziata estrae DNA da fossile di neanderthal.
Continuando, Hobbes s’imbatté in un comunicato stampa della York University: PREISTORICA SCOPERTA DI NOSTRA DOCENTE! La prof.ssa Vaughan recupera il DNA di un uomo delle caverne. Poi il “Discover”: I segreti del DNA perduto.
— E quindi? — disse Hobbes, sollevando gli occhi, confuso.
— E quindi, io sono… be’, alcuni sostengono…
Intervenne Ponter: — La professoressa Vaughan è una genetista. La massima esperta mondiale nel recupero di DNA degradato.
— E quindi?
— E quindi — disse Mary, con più slancio, ora che non si trattava più di lei — sappiamo che siete in possesso di materiale organico recuperato dopo la violenza su Qaiser Remtulla.
Hobbes strinse gli occhi. — Non posso confermarlo né negarlo.
— So che è così — disse Mary in tono deciso, pur sentendosi in colpa. — Come potrei avere questa informazione, se non me l’avesse fornita la stessa Remtulla? È mia collega. E mia amica.
— Non ne dubito — fece Hobbes.
— Vorrei esaminare quel materiale.
Hobbes fu scioccato dalla proposta. — Abbiamo i nostri esperti.
— Sì, sì, certo, ma…
— Ma nessuno qualificato come la professoressa Vaughan — disse Ponter.
— Può darsi. Tuttavia…
— Avete già esaminato il materiale? — chiese Mary.
Hobbes inspirò a lungo, lasciando intendere che gli dessero un attimo di respiro. Infine disse: — Non lo toccheremo finché non avremo un soggetto con cui confrontare il DNA.
— Il DNA si degrada velocemente — disse Mary — soprattutto se non viene conservato in condizioni ottimali. Se aspetterete troppo a lungo, potrebbe diventare impossibile identificarlo.
Hobbes non si scompose. — Sappiamo come vanno conservati i reperti, e finora abbiamo ottenuto considerevoli successi.
— Ne sono convinta. Però…
— Signora — disse l’investigatore, con cortesia — mi rendo conto di quanto le stia a cuore questo caso. Ogni caso sta a cuore a chi ne è rimasto vittima.
Mary tentò di reprimere l’irritazione. — Ma se solo lei mi lasciasse portare quel materiale al mio laboratorio alla York University, sono sicura che riuscirei a recuperare più DNA di quanto possiate fare voi qui.
— Non posso concederglielo, signora. Mi spiace.
— Perché no?
— Be’, tanto per cominciare, l’Università di York non è autorizzata a eseguire analisi a scopo giudiziario, e…
— La Laurenziana! — ebbe la folgorazione Mary.
— Mandi il materiale all’Università Laurenziana, lo analizzerò là. — L’ateneo in cui aveva esaminato per la prima volta il DNA di Ponter aveva un accordo con l’esercito canadese e con la polizia dell’Ontario.
Hobbes ci meditò. — Be’, la Laurenziana sarebbe un altro paio di maniche, anche se…
— Seguirò tutte le procedure richieste.
— Non è impossibile — disse Hobbes, ma appariva dubbioso. — Tuttavia sarebbe assai irregolare…
— Per favore — insistette Mary. Non voleva neppure pensare all’ipotesi che si volatilizzasse anche questa prova. — La prego.
Hobbes allargò le braccia. — Vedrò che cosa posso fare. Ma, sinceramente, non nutrirei troppe speranze. Le regole sulla conservazione dei reperti sono molto rigide.
— Ma ci proverà?
— Sì, okay, ci proverò.
— La ringrazio — disse Mary. — Tanto.
Ponter s’interpose a sorpresa: — La professoressa potrebbe almeno vedere il materiale, qui, adesso? L’investigatore era sbalordito almeno quanto Mary.
— Perché?
— Le basterà un’occhiata per capire se è in condizione di essere esaminato con la tecnica che lei utilizza — rispose Ponter. Si voltò verso Mary: — Dico bene, Mèr?
Mary non capiva dove volesse andare a parare Ponter, ma si fidava ciecamente di lui. — Oh, sì, sì, esatto. — Scoccò a Hobbes il suo sorriso più smagliante. — Basterà un secondo per sincerarmi se la cosa sia fattibile. Non vorrei costringerla a subire un sacco di scocciature burocratiche, se salta fuori che il campione è già troppo degradato.
Hobbes corrugò la fronte e rimase per un po’ a fissare il vuoto. — E va bene — si arrese. — Vado a prenderlo.
Uscì dalla stanza. Tornò qualche minuto dopo portando un contenitore di cartone che ricordava una scatola da scarpe. Tolse il coperchio per mostrare il contenuto a Mary. Ponter si alzò e osservò da dietro le spalle di lei. All’interno c’erano alcuni vetrini e tre buste con chiusura a pressione, ognuna con una targhetta. In una delle buste era racchiuso un paio di mutandine. In un’altra un pettinino pubico con alcuni peli. La terza custodiva delle provette, presumibilmente piene di campioni vaginali.
— È rimasto sempre tutto in frigo — disse Hobbes, sulla difensiva. — Sappiamo bene di avere a che fare con…
Con un movimento fulmineo, Ponter afferrò la busta con le mutandine, la aprì e se la portò al naso, inspirando a pieni polmoni.
— Ponter! — Mary era mortificata.
Hobbes esplose: — Dia qua!! — Cercò di riacciuffare la busta, ma Ponter non ebbe difficoltà a tenerlo a bada, e annusò di nuovo a fondo.
— Ma che cos’è, un maniaco?! — urlò l’investigatore.
Ponter scostò la busta dal naso e, senza fare commenti, la porse a Hobbes; il quale se ne impadronì con rabbia. — Ora toglietevi dai piedi — urlò. Sulla porta erano comparsi due poliziotti, attirati dalle grida.
— Chiedo scusa — disse Ponter.
— Fuori! — gli ripeté Hobbes. E poi a Mary: — Ci terremo ben strette le prove, signora. Fuori da qui!