17

Mary scese di corsa la scalinata che portava al salone delle assemblee dell’ONU. Ponter e Tukana si stavano allontanando sotto la scorta di quattro poliziotti in uniforme. Mary provò a lanciarsi verso i due neanderthal, ma venne bloccata da uno dei piedipiatti: — Spiacente, signora.

Lei gridò: — Ponter! — e lui si voltò verso di lei. — Mèr! — Poi, con la traduzione di Hak: — Le consenta l’accesso, tenente. È un’amica.

Il poliziotto annuì e si fece da parte. Mary si affrettò a raggiungere Ponter, che le chiese: — Come ti pare che ce la siamo cavata?

— In modo brillante! — rispose lei. — Di chi è stata l’idea di donare una copia del cranio di Lucy?

— Di uno dei geologi della Inco.

Mary era ancora estasiata. — Una scelta azzeccatissima.

L’ambasciatrice Prat si voltò verso Mary: — Ci stiamo allontanando da questa struttura allo scopo di pranzare. Gradirebbe unirsi a noi?

Mary sorrise. La neanderthal non aveva forse troppa familiarità con le esigenze della diplomazia gliksin, ma era senz’altro molto cortese. — Sarebbe magnifico — rispose Mary.

— Allora, venga — disse lei. — Ci hanno… come dite voi?… riservato un posto in una mensa a poca distanza a piedi.

Mary approvò la propria scelta di essersi messa il cappotto, per quanto Ponter e Tukana sembrassero a loro agio in maniche di camicia. Entrambi indossavano i pantaloni che Mary aveva visto indosso a Ponter fin dalla prima volta; terminavano in babbucce che avvolgevano i piedi. Quelli di Ponter erano verde scuro, quelli di Tukana rossicci. Inoltre, entrambi portavano camicie che si abbottonavano alla spalla.

Mary si soffermò un secondo a osservare il palazzo dell’ONU, una specie di monolito alla 2001 — Odissea nello spazio che si stagliava contro il cielo. Oltre a lei, accompagnavano i neanderthal due personalità del Corpo diplomatico USA, e due canadesi. I quattro poliziotti si disposero in cerchio intorno al gruppo mentre percorreva il viale.

Tukana era impegnata a discutere con i diplomatici. Ponter e Mary rimasero un po’ indietro per chiacchierare tra loro.

— Come sta la tua famiglia? — chiese lei.

— Bene, ma non indovini cosa è successo in mia assenza. Il mio compagno, Adikor, è stato accusato di avermi ucciso.

— Sul serio? Ma perché?

— È una lunga storia, come direste voi. Per fortuna, sono riuscito a rientrare appena in tempo per scagionarlo.

— Sta bene, ora?

— Sì. Spero che prima o poi potrai conoscerlo. È davvero un…

Tre suoni, quasi in simultanea: Ponter che emetteva un “uf”, i poliziotti che urlavano, un colpo rapido e secco come un tuono.

Quando Ponter si accasciò a terra, Mary comprese che cos’era successo. Gli si inginocchiò immediatamente accanto, tastandogli la camicia macchiata di sangue per individuare la ferita e arrestare il fiotto di sangue.

“Tuona?” pensò Tukana. Ma no, impossibile: il cielo, per quanto puzzolente, era limpido.

Si voltò verso Ponter, che… oh no!… era accartocciato sul marciapiede, e perdeva sangue. Quel suono! Era un’arma a proiettile, una “pistola”. Qualcuno aveva sparato, e…

E all’improvviso anche Tukana crollò a terra, con il grande naso contro il cemento.

Uno dei poliziotti le si era scagliato addosso da dietro e l’aveva spinta giù, facendole scudo con il proprio corpo. Un nobile gesto, per quanto Tukana ne avrebbe volentieri fatto a meno. Allungò un braccio all’indietro, afferrò il poliziotto e tirò, costringendolo a rotolare disteso accanto a lei, riverso sulla schiena. Era stupefatto. Tukana saltò in piedi e, nonostante il sangue che le colava dal naso, non ebbe problemi a fiutare la traccia chimica lasciata dall’esplosione. Guardò da una parte all’altra, e…

Eccolo. Una figura in fuga, che stringeva ancora l’arma che puzzava di fumo.

Tukana si lanciò all’inseguimento, con le gambe possenti che percuotevano suolo.

— Ponter è stato colpito alla spalla destra — disse Hak a Mary tramite l’altoparlante esterno. — Battito cardiaco accelerato, ma debole. La pressione sanguigna e la temperatura stanno calando.

— È lo shock — disse Mary. Continuando a tastare la spalla di Ponter, trovò il punto in cui era penetrato il proiettile. Infilò un dito all’interno della ferita, fino alla seconda falange. — Sai se il proiettile è fuoriuscito dal corpo?

Uno degli altri poliziotti copriva Mary; un altro ancora usò la ricetrasmittente, che portava spillata al petto, per chiamare un’ambulanza. Il terzo stava risospingendo i quattro diplomatici all’interno dell’edificio.

— Non sono sicuro — rispose Hak. — Non l’ho percepito uscire. — Pausa. — Sta perdendo troppo sangue. Nel suo kit medico c’è un termocauterio laser: apri la terza borsa sul lato destro.

Mary ne estrasse un oggetto che somigliava a una grossa biro verde. — È questo?

— Sì. Fa ruotare la parte inferiore finché il simbolo con due cerchi e una barra non sia allineato con un triangolo.

Mary osservò da vicino il cauterio, ed eseguì l’operazione. — Così? — chiese, mostrando l’oggetto alla lente del Companion.

— Esatto. Ora, segui attentamente le mie istruzioni. Aprigli la camicia.

— Come faccio? — chiese Mary.

— Ci sono delle specie di bottoni lungo la spalla: si aprono premendo contemporaneamente le due facce esterne.

Mary provò, e il primo bottone scattò. Proseguì fino a liberare il braccio sinistro di Ponter. La ferita era contornata da creste di sangue rosso acceso, che riempivano le scanalature tra un muscolo e l’altro.

— Lo strumento si attiva premendo il quadratino blu. Riesci a vederlo?

Mary annuì. — Sì.

— Se premi il quadrato solo a metà, verrà emesso un laser a bassa potenza, in modo che tu possa familiarizzarti con la direzione del raggio. Premendo completamente, si dà massima energia. E in quella modalità dovrebbe poter richiudere l’arteria.

— Ho capito — disse Mary. Con le dita, allargò la bocca della ferita per esaminarla all’interno.

— Hai individuato l’arteria? — chiese Hak. C’era troppo sangue. — No.

— Premi a metà il quadrato di attivazione.

In mezzo alla massa sanguigna apparve un puntino blu.

— Molto bene — disse Hak. — Il danno inflitto all’arteria si trova a 11 millimetri di distanza da quel punto, sulla linea che va di lì al capezzolo sinistro di Ponter.

Mary riposizionò il raggio, piena di meraviglia per l’acutezza del campo sensore di cui era dotato il Companion.

— Un po’ oltre — disse Hak. — Ci sei! Fermati lì. Ora da’ massima potenza.

Il puntino di luce aumentò d’intensità. Dalla ferita si levò un ricciolo di fumo.

— Ancora! — disse Hak. Lei premette di nuovo.

— Ora, spostati di due millimetri… no, nell’altra direzione. Vai!

Mary azionò il laser.

— Adesso spostati della stessa lunghezza, sempre su quella linea.

Lei eseguì. Al naso le arrivò altro tessuto muscolare evaporato.

— Dovrebbe bastare, fino all’arrivo di un medico — disse Hak.

Gli occhi di Ponter ebbero un fremito e si aprirono. — Resisti! — gli disse Mary, fissandolo nelle pupille, e poi prendendogli la mano. — I soccorsi stanno arrivando. — Si tolse il cappotto e glielo mise addosso.

Intanto Tukana inseguiva l’attentatore. Uno dei poliziotti gridò: — Ferma!! — e solo un istante dopo Tukana si rese conto che l’ordine era diretto a lei. Ma nessuna delle guardie del corpo era in grado di correre veloce quanto lei, e se lei avesse mollato l’inseguimento l’uomo sarebbe riuscito a scappare.

Parte del cervello di Tukana era impegnato ad analizzare la situazione. Le parve di poter dedurre che le pistole erano armi letali, ma che ormai era svanito l’effetto sorpresa. Era improbabile che il… l’assalitore si voltasse di nuovo per aprire il fuoco. Anzi la sua unica preoccupazione pareva quella di fuggire. Essendo un gliksin, non gli era venuto in mente che, finché teneva in mano l’arma fumante, Tukana lo avrebbe rintracciato ovunque.

La strada era affollata, ma lei non ebbe difficoltà a farsi largo. Tanto più che gli umani sembravano più che disposti a lasciare strada libera alla neanderthal lanciata a tutta velocità.

L’uomo che stava inseguendo (che fosse un uomo, adesso era ben visibile) era più basso della media. Tukana accorciava rapidamente le distanze. Ormai lo aveva quasi a portata di mano.

L’aggressore si era accorto dei passi che rimbombavano dietro di lui. Si lanciò un’occhiata alle spalle e diresse all’indietro la canna della pistola. — Sta mirando a noi — disse il Companion di Tukana al microfono cocleare interno.

L’ambasciatrice non badava minimamente alla perdita di sangue dal naso, visto che le sue dimensioni erano più che sufficienti per inalare l’ossigeno necessario a correre. Anzi, aumentando l’ossigenazione sentiva addirittura accrescersi le forze. Fletté le gambe e, spingendo con un’energia formidabile, spiccò un balzo che le fece superare l’intera distanza tra lei e il gliksin. L’uomo sparò, ma il proiettile andò completamente fuori bersaglio, pur facendo sollevare grida dalla folla. Tukana sperò che fossero solo grida di terrore, che nessuno fosse rimasto colpito al posto suo.

Si abbatté sull’attentatore schiacciandolo contro il marciapiede; i loro due corpi uniti scivolarono avanti di qualche metro. Tukana avvertì i passi dei poliziotti in avvicinamento. L’uomo tentò di torcere la schiena per sparare di nuovo; Tukana afferrò con la mano la molliccia nuca di quella testa fragile, e spigolosa, e…

Non le restava nessuna alternativa.

Nessuna.

Gli fece sbattere con violenza la testa contro la roccia artificiale che rivestiva il suolo. Il cranio si spaccò in due, aprendosi come un melone maturo.

Tukana si sentiva il cuore che martellava. Respirò per calmarsi.

All’improvviso si rese conto che tre dei quattro poliziotti li avevano raggiunti. Erano schierati di fronte a lei con le pistole spianate, puntate a due mani contro l’uomo a terra.

Rialzandosi, Tukana notò l’espressione di orrore dipinta sulla faccia di uno dei gliksin.

Il poliziotto di mezzo si chinò in avanti e vomitò.

Il terzo, a occhi spalancati, gorgogliò: — Cristo Signore!

Tukana abbassò lo sguardo sull’uomo che aveva sparato a Ponter. Morto. Morto. Decisamente, indubitabilmente morto.

Il lamento delle sirene si avvicinava.

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