31

Ponter seguì Mary all’esterno, richiudendo la porta dietro di sé. Mary tremava per il freddo. Lui non sembrava soffrire minimamente della temperatura notturna, ma si accorse che per lei non era così; le si avvicinò per stringerla tra le braccia. Mary si divincolò, rifiutando di essere toccata da lui e allontanandosi di qualche passo, con lo sguardo rivolto altrove.

— Ma che c’è?— disse Ponter.

Mary inspirò in profondità ed espirò lentamente. — Niente — rispose. Si rese conto che stava facendo la preziosa, anche se era una cosa che detestava. E poi, che c’era, in effetti? Lo sapeva che Ponter aveva un “uomo”. Ma…

Ma altro era saperlo in astratto, altro era vederlo con i propri occhi.

Mary si meravigliò di se stessa. Provava più gelosia adesso di quando per la prima volta aveva incontrato Colm in compagnia della sua nuova fiamma, dopo la separazione.

— Niente — ripeté.

Ponter disse qualcosa, nella sua lingua, in un tono che denotava confusione e tristezza. Hak tradusse in modo più piatto. — Mi dispiace se ti ho offeso… per qualche motivo.

Mary osservò il cielo nero. — Non sono offesa — disse. — È solo che… — Fece una pausa. — È qualcosa a cui dovrò imparare ad abituarmi.

— Il nostro mondo è così diverso dal tuo. Per te è troppo poco illuminato? Troppo freddo?

— Non è questo — disse Mary, voltandosi lentamente verso di lui. — Si tratta di… Adikor.

Ponter sollevò alto un sopracciglio. — Non ti va a genio?

Mary scosse la testa. — No, no, non è questo. Sembra un’ottima persona. — Sospirò. — Il problema non è lui. Il problema siete voi due insieme. Vedervi così… legati.

— È il mio compagno — constatò Ponter.

— Nel mio mondo, si ha un solo compagno o compagna. Non ho nessun pregiudizio sul sesso del compagno che ci si sceglie… — e stava per aggiungere: “nessuno, sul serio”, ma sarebbe sembrata un’insistenza eccessiva. — Però, per noi, essere… qualunque cosa siamo io e te… mentre si ha già una relazione con qualcun altro, è… — abbassò la voce, facendo spallucce — è difficile da accettare. E vedervi mentre vi scambiate effusioni…

— Ah — disse Ponter. Poi, come se la prima esclamazione non fosse bastata, ripeté: — Ah. — Quindi rimase un silenzio per un po’. Infine aggiunse: — Non so che cosa dirti. Amo Adikor, e lui ama me.

Mary avrebbe tanto voluto chiedergli che cosa lui provasse per lei, ma non era il momento. Probabilmente sarebbe stata una meschinità controproducente.

— Inoltre — proseguì Ponter — non c’è ragione di prendersela per questo, all’interno di una famiglia. Non avresti avuto nulla in contrario se mi avessi visto esprimere affetto per mio fratello, o le mie figlie, o i miei genitori.

Mary ci rifletté, senza dire nulla. Lui continuò: — Sarà un po’ volgare, ma abbiamo un proverbio che dice: “L’amore è come l’intestino: ha un sacco di spazio”.

Nonostante tutto, lei non poté fare a meno di scoppiare a ridere. Una risata isterica, accompagnata da lacrime. — Da quando siamo qui — disse — non mi hai nemmeno accarezzata.

Ponter spalancò gli occhi. — Non è il periodo in cui i Due diventano Uno.

Mary attese a lungo prima di rispondere: — Io… come tutte le donne gliksin… e anche gli uomini, se è per questo… ho bisogno di affetto sempre, non quattro giorni al mese.

Stavolta toccò a Ponter prendere un profondo respiro. — Normalmente…

Poi tacque, e quella parola rimase ad aleggiare tra loro due. Mary si sentì accelerare il battito cardiaco. Normalmente, qui ciascuno aveva un compagno e una compagna. A una donna neanderthaliana non mancava mai l’amore, ma per gran parte del mese glielo assicurava la sua compagna. — Lo so — disse Mary, chiudendo gli occhi. — Lo so.

— Forse è stato un errore — disse Ponter; probabilmente più a se stesso che a lei, ma Hak ebbe la cortesia di tradurre. — Forse non avrei dovuto portarti qui.

— No — rispose Mary — sono stata io a voler venire, e sono felice di averlo fatto. — Lo fissò in quelle sue pupille dorate. — Quanto manca a… quando i Due diventano Uno?

— Tre giorni — disse Ponter. — Ma… — Pausa. — Ma immagino che non mi farà male, mostrare affetto per te anche prima di allora.

Allargò le sue forti braccia e, un attimo dopo, Mary vi si abbandonò.

Ovviamente Mary non poteva restare a casa di Ponter, che si trovava nell’Anello esterno, in territorio maschile. Fu Adikor a suggerire la soluzione migliore: ospitare Mary presso la propria compagna, Lurt Fradlo. Dopotutto Lurt era una “chimica”, nell’accezione neanderthaliana del termine, cioè una scienziata delle molecole; e in base a quella definizione Mary era una sua collega, specializzata nell’analisi dell’acido desossiribonucleico.

Lurt accettò subito. Del resto, quale scienziato, in entrambi i mondi, non avrebbe afferrato al volo un’opportunità come quella? Ponter fece prenotare un cubo volante da Hak, e Mary venne trasportata al Centro.

L’autista era una donna, per una felice coincidenza… o su espressa richiesta di Hak, che conosceva bene quanto Ponter l’episodio della violenza subita da Mary. Inoltre, il Companion removibile di Mary si era fatto trasferire il dizionario in possesso di Hak, per cui adesso la donna gliksin era in grado di fare conversazione.

— Perché avete veicoli di forma cubica? — chiese all’autista. — Non sembra una soluzione molto aerodinamica.

— Perché, di che forma dovrebbero essere? — ribatté l’autista, che aveva una voce profonda da cantante country.

— Be’, nel mio mondo sono arrotondati, e… — le tornò in mente il film Monty Python — sono sottili a un’estremità, poi s’ingrossano al centro, e si assottigliano di nuovo all’altra estremità.

L’autista aveva i capelli corti, del colore più scuro che Mary avesse visto tra i neanderthal, vale a dire color cioccolato al latte. Scosse la testa: — E allora come fate a impilarli?

Impilarli? — le fece eco Mary.

— Ma certo, quando non li si utilizza. Noi li impiliamo uno sull’altro, in cataste messe una accanto all’altra. Ottimizza lo spazio.

Mary ripensò a tutte le estensioni di terreno che, sul suo pianeta, venivano sacrificate come parcheggi. — Però… come fa a prendere il suo veicolo, se ne ha bisogno, e quello si trova in fondo al mucchio?

— Il mio veicolo? — le fece eco l’autista.

— Sì, quello che appartiene a lei.

— Appartengono tutti alla città. Che me ne farei di uno tutto per me?

— Ecco… non saprei.

— Anzitutto, produrli e metterli in vendita ha dei costi, almeno qui.

Mary pensò al suo mutuo mensile. — Anche nel mio mondo. — Lanciò un’occhiata al paesaggio. In lontananza, un altro cubo stava volando nella direzione opposta. Si chiese che cosa avrebbe detto Henry Ford, se avesse saputo che un secolo dopo la messa in produzione del “modello T” metà delle aree urbane di superficie sarebbe stata occupata da automobili in movimento o parcheggiate, e che gli incidenti stradali sarebbero diventati la causa principale di morte sotto i 25 anni, e che i veicoli avrebbero liberato nell’atmosfera più agenti inquinanti di tutte le industrie e le fornaci messe insieme.

— Perciò — riprese l’autista — perché possederne uno, in privato?

Mary fece spallucce. — A noi piace essere proprietari delle cose.

— Anche a noi. Ma mica si usa un veicolo per 10 decimi su 10 al giorno.

— Non temete che il tizio che ha usato il veicolo prima di voi lo possa aver lasciato… be’, in disordine?

L’autista azionò alcune leve di comando, in modo che il cubo evitasse un gruppetto di alberi. Poi, senza dire nulla, sollevò il braccio sinistro, come se quel gesto spiegasse tutto.

E lo spiegava, in effetti. Nessuno si sarebbe sognato di lasciare sporcizia in giro, o di danneggiare un mezzo pubblico, sapendo che una registrazione visiva completa di ogni suo atto veniva trasmessa in tempo reale all’archivio degli alibi. Nessuno poteva impunemente rubare un veicolo, né usarlo per commettere un reato. Senza contare che i Companion dovevano conservare memoria di tutti gli oggetti che si portavano con sé: doveva essere difficile perfino dimenticarsi il cappello, sul sedile.

Ormai era buio pesto. Con sua grande sorpresa, però, Mary si accorse che non si trovava più in aperta campagna, bensì in pieno Centro di Saldak. Mancavano quasi del tutto le luci artificiali; infatti l’autista non si orientava osservando le strade attraverso la superficie trasparente del mezzo, ma consultando un monitor quadrato agli infrarossi, inserito nel cruscotto.

Il cubo atterrò e uno dei lati si aprì, lasciando entrare l’aria fredda della notte. — Eccola a destinazione — disse l’autista. — La casa è quella là. — Indicò un edificio di forma strana, appena visibile a una decina di metri di distanza.

Mary la ringraziò, e scese. Aveva in mente di raggiungere la casa a testa bassa, trovando piuttosto inquietante l’idea di stare all’aperto di notte su quel pianeta sconosciuto. Invece si bloccò sul posto e sollevò gli occhi.

Le stelle erano qualcosa di spettacolare, con la Via Lattea perfettamente visibile. Come l’aveva chiamata Ponter, quella volta a Sudbury? “Il Fiume Notturno.”

Là, ecco l’Orsa Maggiore, ossia la Testa del Mammut Mary tracciò delle linee immaginarie per individuare la stella polare, che indicava inequivocabilmente il nord. Frugò nella borsetta per recuperare la bussola che si era portata su richiesta di Jock Krieger, solo che faceva troppo buio per poterla leggere. Perciò, dopo aver ammirato ancora per qualche minuto quel cielo stupendo, si diresse alla casa di Lurt, chiedendo al Companion di avvertirla del suo arrivo.

Un attimo dopo, la porta si aprì e comparve una neanderthal. — Ti auguro un giorno buono e pieno di salute — disse la donna; o almeno così tradusse l’apparecchiatura di Mary.

— Ciao — rispose lei. — Oh, solo un secondo… — Dalla porta aperta usciva un intenso fascio di luce. Mary gettò un’occhiata alla bussola che aveva tenuto in mano, aggrottò le sopracciglia per lo stupore. La lancetta puntava dritto sulla stella polare, proprio come avrebbe fatto dall’altro lato del varco. In barba all’ipotesi di Jock, pareva che su questo pianeta non si fosse verificata nessuna inversione dì campo magnetico.

L’accoglienza fu molto calorosa. Mary poté conoscere il bambino di Adikor, Dab, e tutto il resto della famiglia di Lurt. L’unico momento imbarazzante fu quando ebbe bisogno di andare al bagno. Lurt le mostrò la stanza, ma Mary non sapeva come si usasse. Dopo essere rimasta per un po’ a osservare tutto con un’espressione inebetita, uscì dal bagno e chiamò Lurt.

— Chiedo scusa — disse. — Ma, ecco… non assomiglia per niente ai bagni del mio mondo. Non ho idea di come si faccia a… a…

Lurt rise. — Oh, scusami tanto!… Ecco, prima bisogna inserire i piedi in queste staffe, quindi ci si aggrappa a questi anelli… cosi…

Mary comprese che, per riuscirci, avrebbe dovuto togliersi i pantaloni; sulla parete c’era un gancio che pareva messo lì allo scopo. In realtà la cosa filò piuttosto liscia; Mary emise giusto un gridolino di sorpresa quando, al termine dell’operazione, una specie di spugna le si accostò di sua iniziativa per ripulirla.

Un’altra peculiarità che notò fu l’assenza di una biblioteca interna. Nel suo bagno di Toronto erano accatastati i numeri più recenti dell’“Atlantic Monthly”, di “Canadian Geographic”, “Utne Reader”, “Country Music”, oltre alle immancabili parole crociate. Però, anche in caso di difficoltà, immaginava che i neanderthal si sarebbero spicciati il più in fretta possibile, data la sensibilità del loro olfatto.

Mary dormì su uno strato di cuscini sistemati sul pavimento. All’inizio le sembrò una soluzione scomoda, essendo abituata a una superficie piatta; poi però Lurt le mostrò come sistemare i cuscini nel modo giusto, a sostegno del collo e della schiena, tra un ginocchio e l’altro, eccetera. Per quanto fosse strano, Mary crollò rapidamente tra le braccia di Morfeo, esausta com’era.

Il mattino seguente accompagnò Lurt al posto di lavoro; un edificio che, a differenza della maggior parte di quelli del Centro, era realizzato interamente in pietra. Per contenere gli effetti di una fiammata o un’esplosione nel caso un esperimento andasse storto, le spiegò Lurt.

A quanto pareva, Lurt lavorava in staff con altre sei neanderthal. A Mary veniva già spontaneo suddividerle per generazione, anche se, invece di classificarle come 146, 145 eccetera (dall’inizio dell’Era moderna), come faceva Ponter, preferiva considerarle trentenni, quarantenni, e così via. Per quanto le donne lì invecchiassero in modo diverso rispetto alle sapiens, dato che la pressione dell’arcata sopracciliare sulla pelle preveniva le rughe, tuttavia Mary non ebbe difficoltà ad assegnare a ogni neanderthal la giusta età.

Ma non ci volle molto perché Mary smettesse di pensare a loro come neanderthal e cominciasse semplicemente a considerarle donne. Avevano, sì, un aspetto curioso: fisico da giocatori di football americano, volti pelosi… E sebbene fosse difficile considerare femminile il loro comportamento, quella parola portava con sé troppe aspettative, di certo erano donne quanto a piacevolezza, spirito di collaborazione, gusto per le chiacchiere, assenza di competitività: e alla fine stare con loro era un gran divertimento.

Mary apparteneva a una generazione (l’ultima, c’era da augurarsi) in cui nel campo scientifico operavano molte meno donne che uomini. Non aveva mai visto un laboratorio in cui ci fossero più femmine che maschi, anche se all’Università di York ci si stava avvicinando a quel risultato; ma un team interamente femminile, mai. Forse, in quel caso, l’ambiente di lavoro sarebbe risultato molto simile anche sulla sua Terra. Mary era cresciuta nello Stato dell’Ontario in cui, per ragioni storiche, esistevano due sistemi scolastici finanziati dal governo: quello pubblico e quello cattolico. Siccome la religione cattolica era insegnata solo negli istituti confessionali, molti genitori credenti mandavano i figli alla scuola cattolica; i genitori di Mary però, soprattutto su insistenza del padre, avevano optato per la scuola pubblica. Quando ebbe compiuto i 14 anni, si discusse se trasferirla a un istituto cattolico riservato alle ragazze. Mary aveva dei problemi con la matematica, e qualcuno aveva detto ai suoi genitori che si potevano ottenere risultati migliori in una classe separata. Alla fine, comunque, era stata lasciata nel sistema pubblico perché, come aveva sottolineato papà, dopo le superiori avrebbe dovuto frequentare i maschi, quindi era meglio che ci si abituasse. Perciò Mary aveva trascorso gli anni del liceo all’East York Collegiate Institute, invece che al Santa Teresa. Alla fine, pur in ambiente promiscuo, aveva superato le difficoltà con la matematica, eppure qualche volta si era chiesta come sarebbe andata in un collegio femminile. Era infatti vero che di lì erano uscite alcune delle migliori studentesse a cui lei, in seguito, avesse fatto lezione alla York.

Chissà, forse sarebbe valsa la pena ipotizzare di estendere la divisione tra sessi anche nell’età adulta, ai luoghi di lavoro. Le donne avrebbero potuto dedicarsi al “travaglio” (parola che, per un pasticcio linguistico, aveva assunto un significato diverso se riferito ai maschi o alle femmine) in ambienti privi di uomini e relativi egocentrismi.

I neanderthal suddividevano la giornata in dieci parti uguali, iniziando il computo dal momento in cui sorgeva il sole nell’equinozio invernale; sul display del Companion di Mary comparivano anche delle cifre misteriose, ma lei preferiva affidarsi al proprio swatch. Del resto, per alieno che fosse quel mondo, il fuso era lo stesso.

Mary era abituata ai ritmi lavorativi gliksin: colazione al mattino e pausa caffè al pomeriggio, con in mezzo un’ora di pausa pranzo. Viceversa, il metabolismo dei neanderthal non avrebbe consentito di digiunare per troppe ore di seguito. Perciò erano previste due lunghe soste durante l’orario di lavoro: una verso le 11 antimeridiane, l’altra verso le 3 del pomeriggio, e in entrambi i casi il cibo era abbondante, carne cruda inclusa. La stessa tecnologia laser che polverizzava i virus rendeva sicuri gli alimenti non cotti; e le mascelle dei neanderthal erano robuste a sufficienza, lo stesso non si poteva dire dello stomaco di Mary; accompagnò in mensa Lurt e le colleghe, ma fece del suo meglio per non assistere al pasto.

Avrebbe anche potuto trovare una scusa per non andarci, però era il momento libero di Lurt e Mary desiderava scambiare qualche parola con lei. Era affascinata dalle conoscenze neanderthal nel campo della Genetica; e d’altra parte Lurt sembrava più che disposta a condividerle.

In quelle brevi pause Mary imparò così tanto da cominciare a pensare che l’impossibile non esistesse. Soprattutto in assenza di uomini.

In vita sua Mary aveva partecipato a dieci o dodici matrimoni: molti di rito cattolico, uno ebraico, uno tradizionale cinese e qualcuno civile. Perciò supponeva di poter già immaginare, a grandi linee, come si sarebbe svolta la cerimonia del Legame.

Si sbagliava.

Certo, già sapeva che non si sarebbe svolta in un luogo di culto, per il semplice fatto che l’universo neanderthal ne era privo. Però ci sarà pur stato qualche edificio pubblico. No, invece: il rito si tenne in aperta campagna.

Quando Mary atterrò su un cubo volante, Ponter era già lì. Erano stati i primi ad arrivare sul posto, quindi si concessero un lungo abbraccio.

— Ed eccoli! — disse Ponter, al termine dei convenevoli. C’era un sole abbagliante. Mary scoprì di aver scordato gli occhiali scuri dall’altra parte, per cui dovette ripararsi gli occhi con una mano mentre esaminava il corteo. Era composto di tre donne: una sopra i 35 anni, a giudizio di Mary, un’adolescente e una bambina di 8 anni. Ponter osservò Mary, poi il gruppetto in avvicinamento, poi di nuovo lei. Mary tentò di decifrare la sua espressione: in un gliksin, avrebbe indicato un profondo senso di disagio, come di uno che fosse capitato nel bel mezzo di una situazione spinosa.

Le tre arrivavano a piedi da est, cioè dal Centro. La più anziana e la più piccola non portavano nulla con sé; la giovane aveva un grosso pacco legato alla schiena. Quando furono più vicine, la bambina gridò: — Papino! — e corse verso Ponter, che la sollevò tra le braccia.

Le altre due si mossero più lentamente; la più anziana precedeva la giovane, la quale sembrava affaticata sotto il peso.

Ponter posò a terra la piccola, tenendola per mano; si voltò verso Mary. — Mèr, questa è mia figlia Mega Bek. Mega, ti presento la mia amica Mèr.

Mega non aveva ancora staccato gli occhi dal padre; a quel punto, squadrò l’ospite da capo a piedi. — Però — articolò alla fine. — Tu sei una gliksin, vero?

Mary sorrise. — Proprio così — disse, lasciando al Companion l’incombenza di tradurre.

— Verresti alla mia scuola? — chiese Mega. — Mi piacerebbe farti vedere ai miei compagni!

Mary restò interdetta. Non aveva mai pensato a se stessa come a un oggetto di curiosità. — Uhmmm — rispose — vediamo. Se troverò il tempo.

Intanto si erano avvicinate le altre due. — E lei è mia figlia Jasmel Ket — disse Ponter, indicando la diciottenne.

— Ciao — disse Mary. Osservò la ragazza, ma non aveva idea se, per gli standard neanderthaliani, fosse considerata una bellezza. Era vero, però, che non aveva occhi d’oro come il padre. — Io sono… — decise di non fornire un nome impronunciabile — sono Mèr Vaughan.

— Ciao, scienziata Vaughan — disse Jasmel, che doveva già aver sentito parlare di lei, altrimenti non avrebbe potuto azzeccare il cognome al primo colpo. Sospetto confermato dalla frase successiva di Jasmel: — Sei quella che ha dato a papà quell’oggetto metallico.

A Mary ci volle un attimo per fare mente locale. Ah già, il crocifisso. — Proprio io — confermò.

— Ti avevo già vista, sai? — aggiunse Jasmel. — Su un monitor, mentre stavamo recuperando papà. Ma… — scosse la testa, in preda alla meraviglia — nonostante quello, ancora non riesco a crederci.

— Be’ — fece Mary — eccomi qua. — Pausa. — Spero che non ti dispaccia se partecipo alla cerimonia.

Che le spiacesse o meno, Jasmel dimostrò di avere ereditato la cortesia del padre. — No, assolutamente. Sei la benvenuta.

Ponter si intromise bruscamente nella conversazione. Forse (pensò Mary) aveva notato un segreto rincrescimento della figlia e, prima che esplodesse all’esterno, voleva sollecitare il rito. — Questa infine è… era… la tutrice di mia figlia. — Fissò la donna. — N… non mi aspettavo che… partecipassi.

Lei sollevò un sopracciglio, rivolgendo uno sguardo di traverso a Mary. — Già, non te lo aspettavi — disse.

— Sì, ecco, be’ — disse Ponter — lei è Mèr Vaughan… la donna di cui ti ho parlato, quella che abita al di là del varco. Mèr, ti presento Daklar Bolbay.

— Mio Dio — mormorò Mary. Il suo traduttore emise un bip.

— Prego? — disse Daklar, incoraggiandola a fare un secondo tentativo.

— Sono… voglio dire, sono lieta di conoscerti. Ponter mi ha parlato tanto di te.

— E a me di te — rispose Daklar, senza scomporsi.

Mary si costrinse a sorridere, ma rivolse altrove lo sguardo.

— Daklar — spiegò Ponter — era la compagna della mia compagna Klast, per questo è stata nominata tutrice di Jasmel. — Si rivolse alla donna, scandendo le parole: — Almeno, finché Jasmel non ha raggiunto la maggiore età, al compimento dei 225 mesi la scorsa primavera.

Mary cercò di cogliere i sottintesi. Pareva che, secondo Ponter, siccome Daklar ufficialmente non aveva più nessun ruolo nella vita di Jasmel, non avrebbe dovuto essere lì. Un’irritazione facile da giustificare: era stata proprio Daklar a tentare di far castrare Adikor.

Qualunque fosse il malcontento di Ponter, lo interruppe l’arrivo di altre persone: un uomo e una donna, entrambi sulla cinquantina.

— Sono arrivati i genitori di Tryon. Bal Durban — Ponter indicava l’uomo — e Yabla Bol. Bal, Yabla, questa è la mia amica Mèr Vaughan.

Bal aveva una voce tonante: — Non c’è bisogno di presentarla, l’avevo giù vista sul voyeur.

Mary si trattenne dal sobbalzare. Aveva notato gente in abiti d’argento, ma non aveva preventivato di finire nell’obiettivo degli Esibizionisti.

— Ma guardati un po’! — esclamò Yabla. — Tutta pelle e ossa. Non avete cibo a sufficienza sul vostro pianeta?

Nessuno mai l’aveva definita pelle e ossa. Fu una piacevole novità. — Oh sì — rispose, arrossendo leggermente.

— Be’, stasera faremo festa — continuò Yabla. — Certo, un solo pasto non potrà compensare decine di mesi di privazioni, ma sarà un buon inizio.

Mary sorrise educatamente.

Bal si rivolse alla compagna: — Che cosa starà trattenendo tuo figlio?

— E chi lo sa — disse lei, contraccambiando l’ironia. — La puntualità l’ha presa da te.

— È lui! È lui! — esclamò Jasmel, che aveva ancora il pesante zaino.

Mary guardò nella direzione indicata dalla ragazza. In lontananza s’intravedeva una figura che arrancava verso di loro con un grosso carico sulle spalle. Ci sarebbero voluti alcuni minuti prima che li raggiungesse. Mary sussurrò a Ponter: — Come fa di cognome il promesso di tua figlia?

Ponter si accigliò, Hak intanto cercava di capire la domanda. — Ah — disse alla fine. — Tryon Rugai.

— Non capisco — disse Mary. — Mi spiego: “Vaughan” è il mio nome di famiglia, è lo stesso per i miei genitori, per i miei due fratelli e per mia sorella. — Si riparò gli occhi con la mano per dare un’altra occhiata al giovane che si avvicinava.

Anche Ponter guardava in quella direzione, ma le arcate sopracciliari erano sufficienti per ripararlo dal sole. — Il cognome — le spiegò — cioè il nome usato dagli estranei, viene scelto dal padre; la madre decide il nome che useranno amici e conoscenti. Il motivo è chiaro, no? I padri vivono in periferia, le madri in centro. Mio padre ha scelto per me il nome Boddit, che significa “straordinariamente bello”; e mia madre, Ponter, che significa “straordinariamente intelligente”.

— Mi stai prendendo in giro!

Ponter allargò il suo enorme sorriso. — Va bene, chiedo scusa. Cercavo qualcosa di notevole come il tuo madre di Dio. Scherzi a parte, Ponter significa “luna piena” e Boddit è il nome di una città dell’Esvoy, famosa per i suoi artisti.

— Ah — approvò Mary. — Quindi… Oh Dio mio!

— Be’, mio no di certo — disse Ponter, ancora in vena di scherzare.

— Ma… guarda là! — disse Mary, indicando Tryon.

— E allora? — fece Ponter.

— Sta portando una carcassa di cervo!

— Non ti sfugge niente, eh? — Sorrise. — È la preda che ha cacciato per Jasmel. Nel suo zaino, Jasmel ha il dono per lui.

Ora la ragazza si stava togliendo lo zaino. Mary pensò che per tradizione lui dovesse vedere che la femmina l’aveva portato da sola. Quando Tryon fu vicino, Ponter andò ad aiutarlo a deporre il cervo dalle spalle.

A Mary si rivoltava lo stomaco. L’animale era lordo di sangue, con cinque o sei squarci sui fianchi. Quando Tryon si chinò, Mary vide che anche la schiena gli grondava ancora del sangue della preda.

— Verrà qualcuno a officiare la cerimonia? — chiese. Ponter trovò strana la domanda. — No.

— Da noi, lo fa un funzionario pubblico o un sacerdote — disse Mary.

— L’impegno reciproco di Jasmel e Tryon verrà automaticamente registrato negli archivi degli alibi — spiegò Ponter.

Mary annuì. Ovvio.

Liberatosi dal carico, Tryon corse verso la sposa. Jasmel lo accolse a braccia aperte, i due si strinsero leccandosi appassionatamente in viso. Mary, con tutta la buona volontà, non riuscì a trovarla una scena romantica.

— Su, su! — disse Bal, il padre dello sposo. — Ci vorranno decimi per arrostire il cervo. Meglio muoversi.

I due innamorati sciolsero l’abbraccio. Dalle mani di Jasmel, che avevano stretto la schiena di Tryon, colava liquido rosso. Mary fece una faccia disgustata; Jasmel, lungi dall’offendersi, rise.

Così, senza tanti preamboli, la cerimonia ebbe inizio. — Benissimo — disse Jasmel. — Si va! — Si voltò verso Tryon: — Prometto di tenerti nel mio cuore ventinove giorni al mese, e di tenerti tra le braccia ogni volta che i Due diventeranno Uno.

Mary guardò Ponter. I muscoli della sua poderosa mascella erano tirati. Era chiaramente commosso.

— Prometto — proseguì Jasmel — che per me la tua salute e la tua felicità saranno sempre importanti quanto le mie.

Anche Daklar era commossa. Del resto, se Mary aveva capito bene, lei e Jasmel avevano sempre vissuto insieme.

Jasmel continuò a recitare la formula del rito: — Se, in qualunque momento, tu ti stancassi di me, prometto di lasciarti libero senza acrimonia, e di porre come priorità il massimo bene dei nostri figli.

Mary ne fu impressionata. Come sarebbe stato tutto più semplice, se anche lei e Colm avessero stretto un contratto di quel tipo. Guardò di nuovo Ponter…

“Oh Signore!”

Daklar si era spostata accanto a lui, e… Mary non riusciva a crederci… i due si stavano tenendo per mano!

Intanto era venuto il turno di Tryon. — Prometto di tenerti nel mio cuore ventinove giorni al mese, e di tenerti tra le braccia ogni volta che i Due diventeranno Uno.

“I Due che diventano Uno” pensò Mary. Quel periodo era sicuramente capitato una volta, nel tempo trascorso tra il rientro di Ponter nel suo mondo e la sua seconda partenza per la Terra dei gliksin. Mary aveva dato per scontato che Ponter l’avesse trascorso da solo, ma…

— Prometto — stava dicendo Tryon — che, per me, la tua felicità e il tuo benessere saranno sempre importanti quanto i miei. E se un giorno tu ti stancassi di me, prometto di lasciarti andare senza provocare sofferenze, e di porre come priorità il massimo bene per i nostri figli.

Di per sé, quella parità assoluta negli impegni reciproci avrebbe dovuto deliziare Mary. Ricordava la battuta di Colm, che purtroppo il rito cattolico non includesse per la donna la clausola: “ed essere obbediente”. Ma quel pensiero fu completamente sommerso dallo shock di scoprire l’affetto tra Ponter e Daklar… e dopo quello che lei aveva fatto ad Adikor!

A farla riscuotere fu la piccola Mega, che batté le mani, una volta sola ma con energia. — Il Legame è compiuto! — strillò. Per un secondo, Mary pensò che si riferisse a Ponter e Daklar… “Adesso non essere ridicola…”

Bal batteva con entrambe le mani sul ventre. — E ora che abbiamo finito, tutti a preparare i festeggiamenti!

— Ma sei deficiente, o cosa? — esclamò Selgan, scuotendo la testa con aria incredula.

— Non era prevista la presenza di Daklar! — disse Ponter. — Alla cerimonia del Legame partecipano solo i genitori e i due giovani interessati. Non c’è posto per i compagni dello stesso sesso dei genitori.

— Daklar era la tabant delle tue figlie.

— Di Mega, non di Jasmel. Jasmel era maggiorenne, non aveva più una tutrice legale.

— Però tu ti eri fatto accompagnare da Mèr.

— È vero, ed era perfettamente lecito: avevo il diritto di portare con me una donna in sostituzione di Klast. — Ponter aggrottò le ciglia. — Era Daklar l’intrusa.

Selgan si grattò la testa, nella zona in cui non aveva più capelli. — Voi scienziati! — borbottò. — Vi aspettate sempre che la gente si comporti in modo prevedibile, in base a leggi immutabili. E invece non lo fa. Ponter grugnì. — Spiegamelo tu, allora.

Mary scoprì con orrore che allo scuoiamento del cervo dovevano partecipare tutti gli invitati. Bal e Yabla, in qualità di genitori dello “sposo” (alla fine Mary aveva deciso di adottare quel termine), avevano portato dei coltellacci metallici affilati; Bal praticò un’incisione dalla gola alla coda dell’animale. Mary non era preparata a vedere un simile diluvio di sangue, per cui chiese scusa e si allontanò di qualche passo.

Faceva freschetto nel mondo dei neanderthal; e, con l’approssimarsi del tramonto, la temperatura peggiorava.

Mary dava la schiena al gruppo. Dopo qualche istante sentì le prime foglie autunnali scricchiolare e passi che si facevano più vicini. Immaginò che fosse Ponter, che le volesse offrire qualche consolazione… e spiegazione. Ma Mary sussultò quando udì dietro di sé la voce di Daklar.

— Non sembri molto a tuo agio con le pratiche di spellamento — disse Daklar.

Mary si voltò verso di lei. — Non lo avevo mai fatto, prima. — In quel momento Yabla e la piccola Mega stavano raccogliendo legna per il falò.

— Non c’è problema. Comunque, la manodopera non c’è mancata.

All’inizio Mary la interpretò come un’allusione che Daklar faceva a se stessa, in quanto la sua presenza aveva sorpreso Ponter. Forse però la donna aveva lanciato una frecciatina contro l’ospite gliksin. — È stato Ponter a invitarmi — disse Mary, in un tono diffidente che non piacque neppure a lei.

— Capisco — disse Daklar.

Mary sapeva che se ne sarebbe pentita, ma non riuscì a trattenersi: — Io invece non capisco come facciate voi due a essere così rilassati dopo ciò che hai fatto ad Adikor.

Daklar tacque per alcuni istanti; Mary non riuscì a decifrare la sua espressione. Alla fine la neanderthal rispose: — Vedo che il nostro Ponter ti ha raccontato delle cose.

Mary non gradì quel “nostro Ponter” ma non fece commenti. Dopo un po’, Daklar riprese: — Che cosa ti ha raccontato, di preciso?

— Che, mentre Ponter si trovava nel mio mondo, tu hai accusato Adikor di averlo ucciso… Adikor! L’uomo che Ponter ama!

Daklar sollevò un sopracciglio. — Ti ha riferito quale fosse il principale indizio contro Adikor?

Mary sapeva che Daklar era una raccoglitrice di frutti spontanei, non un cacciatore, tuttavia ebbe l’impressione che la stesse attirando verso una trappola. Scosse solo lievemente la testa. — Non c’erano prove. Perché non era stato commesso alcun crimine.

— In quel momento, no. Ma prima. — Dopo una pausa, Daklar continuò in tono di sufficienza: — Sono sicura che Ponter non ti ha parlato della frattura alla sua mascella.

Mary sottolineò immediatamente il livello d’intimità che aveva con lui: — Mi ha raccontato tutto. Ho perfino visto la lastra.

— Bene, allora capirai. Adikor in passato aveva tentato di uccidere Ponter, perciò…

All’improvviso Daklar si bloccò. Strinse gli occhi per esaminare meglio l’espressione che si era dipinta in faccia a Mary. — O non sapevi che era stato Adikor? È così? Ponter non si è spinto fino a raccontarti anche questo, vero?

A Mary si era accelerato il battito cardiaco. Non trovò il coraggio di rispondere.

— Bene — disse Daklar — allora pare che io abbia qualche informazione inedita. Sì, fu Adikor a colpire Ponter. Come indizio in tribunale portai le immagini contenute nell’archivio degli alibi di Ponter, in cui era stato registrato l’assalto.

Mary e Colm avevano avuto i loro momenti bassi, ma lui non l’aveva mai picchiata. Anche se purtroppo era un fenomeno diffuso, lei non avrebbe resistito accanto a un marito manesco. Ma qui…

Qui era successo una volta sola, e…

No. Se Ponter fosse stato donna, Mary non avrebbe mai perdonato Adikor per aver alzato le mani, anche solo una volta, come…

Detestava ricordarlo. Ogni volta.

Come non aveva mai perdonato suo padre per aver picchiato sua madre, decenni prima.

Però Ponter era un uomo, e altrettanto forzuto di Adikor, quindi…

Un accidente! Niente poteva scusare la sua azione! Colpire la persona che dovresti amare.

Mary continuava a non articolare risposta. Dopo che fu trascorso un tempo ragionevole, Daklar aggiunse:

— Perciò, vedi che la mia accusa non era infondata. Oh sì, adesso me ne pento, ma all’epoca…

Tacque. Finora Daklar non aveva avuto pudori a esprimere i propri pensieri; Mary si chiese che cosa stesse chiudendo dentro di sé. Poi ebbe la soluzione in un lampo:

— All’epoca, eri furiosa all’idea di aver perso Ponter.

Daklar non annuì né scosse la testa, ma Mary fu sicura di avere fatto centro. — Allora, be’… — disse. Non aveva la più pallida idea se, e quanto, Ponter avesse raccontato a Daklar su ciò che era successo tra loro due durante il primo viaggio nel mondo gliksin.

E sicuramente Ponter non aveva avuto occasione di informare Daklar come si fosse evoluta la sua storia con Mary.

Ma Daklar era una donna. Magari pesava 100 chili, in palestra poteva sollevarne il doppio, e con la pellicetta sulle guance. Ma era una donna. Un esemplare femminile del genere Homo, capace di comprendere quanto Mary. Se prima di quel giorno Daklar non aveva sospettato nulla della relazione di Ponter con Mary, adesso non poteva più avere dubbi. E non solo per ragioni ovvie, come la partecipazione di Mary al rito in sostituzione di Klast, ma anche per il modo in cui Ponter la guardava, il modo in cui le stava vicino. Il linguaggio somatico di Ponter era eloquente per Daklar tanto quanto per Mary.

— Allora, be’ — le fece eco Daklar.

Mary spostò lo sguardo sulla festa nuziale. Ponter lavorava alla carcassa del cervo insieme a Jasmel, Tryon e Bal, ma continuava a lanciare sguardi nella loro direzione. Se Ponter fosse stato un gliksin, a quella distanza sarebbe stato forse impossibile capire la sua espressione, ma sulla sua faccia ampia e scolpita le emozioni erano riconoscibilissime. Era evidente che la conversazione tra le due donne lo rendeva nervoso. E a ragione, pensò Mary.

Tornò a osservare la neanderthal che aveva di fronte, con le braccia incrociate sul petto voluminoso ma non molto sporgente. Per quanto Mary avesse visto, nessuna donna neanderthal era, diciamo, ben carrozzata come una Louise Benoit. Probabilmente, dato che maschi e femmine trascorrevano separati gran parte della vita, i caratteri sessuali secondari non erano così fondamentali.

— Lui appartiene alla mia specie — dichiarò Daklar. Il che era indiscutibile. Ma…

Ma.

Rifiutandosi di guardare Daklar negli occhi, e senza aggiungere una parola, Mary Vaughan, donna, canadese, della specie Homo sapiens, tornò al gruppo intento a strappare strisce di pellame arrossato dalla carne di un animale che uno di loro aveva ucciso senza altri ausili che la propria lancia.

Mary dovette ammettere che la cena era squisita. Carne saporita e succosa, verdura fresca di stagione. Le tornò in mente un viaggio di lavoro, un paio di anni prima, in Nuova Zelanda, quando erano usciti tutti insieme per partecipare a un hangi maori.

Ma non durò molto, con stupore di Mary, Tryon se ne andò con suo padre. Lei sussurrò a Ponter: — Perché Tryon si allontana da Jasmel?

A Ponter la risposta pareva evidente. — Mancano ancora due giorni al periodo in cui i Due diventano Uno.

Mary ricordò i brutti presentimenti che aveva provato nel momento stesso in cui usciva di chiesa accanto a Colm, tanti anni prima. Se le avessero concesso l’opportunità di ripensarci, avrebbe fatto marcia indietro. In quel caso, non essendo ancora stato consumato il matrimonio, lei si sarebbe addirittura potuta permettere un autentico annullamento da parte del Vaticano, non quel ripiego posticcio che volevano farle accettare. Un momento… Due giorni?

— E quindi… — disse lentamente, cercando di farsi coraggio — quindi non tornerai nel mio mondo finché non sarà trascorso, vero?

— È un periodo molto importante per…— interruppe la frase. Mary si chiese se il seguito sarebbe stato “la mia famiglia” o “la mia specie”. A ben vedere, la differenza era enorme.

Mary inspirò. — Desideri che io torni indietro prima, da sola?

Ponter a sua volta inspirò profondamente, e…

— Papi! Papiii! — La piccola Mega lo raggiunse di corsa.

Lui si accovacciò per avere gli occhi all’altezza di quelli della figlia. — Dimmi, tesoro.

— Jasmel sta per riportarmi a casa.

Ponter la strinse tra le braccia. — Mi mancherai tanto.

— Ti voglio bene, pa’.

— Anch’io ti voglio bene, Megameg. Lei mise le manine sui fianchi.

Ops, scusa — fece Ponter, alzando la mano destra.

— Anch’io ti voglio bene, Mega.

La bambina sorrise. — Quando i Due diventano Uno, andiamo di nuovo a fare un picnic con Daklar?

Mary ebbe un colpo al cuore.

Ponter si voltò di scatto verso di lei, poi abbassò di nuovo gli occhi. L’arcata sopracciliare glieli nascose.

— Vedremo — disse.

Si avvicinarono Jasmel e Daklar. Ponter si rialzò, guardò sua figlia maggiore. — Sono sicuro che tu e Tryon sarete felici.

Il giro di frase colpì Mary. Sulla sua Terra, non sarebbe mancata la parola “insieme”; ma Jasmel e Tryon, sebbene legalmente uniti, avrebbero trascorso gran parte del tempo divisi. Anzi, nel futuro di Jasmel, appena lei avesse fatto la sua scelta, ci sarebbe stata un’altra cerimonia: quella del Legame con la sua compagna.

Mary scosse la testa. Forse avrebbe fatto davvero meglio a tornarsene a casa.

— Vieni — disse Daklar, guardando verso Mary — possiamo condividere un cubo volante per tornare al Centro. Sei ospite di Lurt, immagino?

Mary girò gli occhi verso Ponter. Ma neppure questa “sposa”, questa notte, sarebbe andata a letto con questo “sposo”. — Sì — rispose Mary.

— Molto bene. Andiamo — disse Daklar. Poi si accostò a Ponter e, dopo qualche attimo di indecisione, lui la accolse tra le braccia. Mary distolse lo sguardo.

Durante il viaggio di ritorno, Mary e Daklar scambiarono poche parole. A un certo punto, per rompere quel silenzio pesante, Dak Jar si mise a chiacchierare con l’autista. Mary guardava il paesaggio. Nel suo Ontario non era virtualmente rimasta nessuna estensione di foreste antiche, ma qui erano ancora rigogliose.

Alla fine, grazie al cielo, venne lasciata sotto casa di Lurt. La donna neanderthal e la sua compagna volevano sapere tutto della cerimonia, e Mary fece del suo meglio per accontentarle. Intanto il piccolo Dab sembrava così incredibilmente beneducato, seduto zitto in un angolino… ma Lurt spiegò che era tutto preso da una favola che gli stava raccontando il suo Companion.

Mary aveva bisogno di qualcuna a cui chiedere consigli, ma, per la miseria, qui i rapporti familiari erano un tale casino! Dunque: Lurt Fradlo era la compagna di Adikor Huld, il quale a sua volta era il compagno di Ponter Boddit. Però, se Mary non andava errata, non esisteva alcun particolare legame sociale tra Lurt e Ponter, come…

Come non avrebbe dovuto esserci tra Ponter, la cui compagna era stata Klast Harbin, e Daklar Bolbay, che era stata la compagna di Klast. E invece, tra quei due una relazione c’era eccome. Ponter non aveva parlato di Daklar a Mary durante il suo primo viaggio, sebbene avesse parlato spesso di tutte le cose che riteneva di aver perso per sempre, nella presunta impossibilità di tornare al proprio mondo. Aveva citato a più riprese Klast, che aveva già perso anche prima, e Jasmel, e Megameg, e Adikor, ma mai Daklar… o almeno, non come una persona di cui sentisse la mancanza.

Possibile che la loro relazione fosse così recente?

Ma, se lo era, perché Ponter si sarebbe allontanato dal suo mondo per un periodo così lungo?

Aspetta, aspetta. Non era affatto un periodo troppo lungo. Meno di tre settimane; le tre settimane che separavano un ricongiungimento dall’altro. Perciò, anche se fosse rimasto a casa, in quel periodo Ponter non avrebbe potuto incontrare Daklar lo stesso.

Mary scosse la testa. Non aveva bisogno solo di consigli: aveva bisogno di risposte.

Lurt sembrava l’unica in grado di fornirgliele nel poco tempo che restava prima che i Due diventassero Uno. Ma Mary doveva parlarle a quattr’occhi, e non ne avrebbe avuto occasione fino al mattino dopo, al laboratorio.

Ponter era disteso su uno dei divani che sporgevano dalle pareti di casa sua, immerso nella contemplazione dei murales sul soffitto. Accanto a lui, sul pavimento rivestito di muschio, Pabo schiacciava un pisolino.

La porta d’ingresso si aprì ed entrò Adikor. Pabo scattò sulle zampe e corse a salutarlo. — Non è un amore? — disse Adikor, dando una grattata al cane sulla testa.

— Ciao, Adikor — disse Ponter, senza alzarsi.

— Ciao, Ponter. Com’è andata la cerimonia?

— Mettiamola così: qual è la cosa peggiore che potesse capitare?

Adikor si accigliò. — Tryon si è piantato la lancia in un piede?

— No, no, Tryon se l’è cavata. La cerimonia, di per sé, è stata bellissima.

— E allora?

— C’era anche Daklar Bolbay.

Gristle — disse Adikor, accomodandosi su una sella. — Brutta faccenda.

— Sai com’è — rispose Ponter — si dice che siano i maschi ad avere l’istinto territoriale, ma…

— Insomma, che è successo?

— Non saprei neppure spiegarlo. Non che Mèr e Daklar abbiano litigato o roba simile, però…

— Però adesso una sa dell’altra.

Ponter rispose in un tono che, anche a lui, suonò apologetico. — Non stavo nascondendo niente a nessuna. Lo sai benissimo che l’interesse che Daklar ha manifestato nei miei confronti mi ha colto di sorpresa e… be’, all’epoca non sapevo se avrei mai rivisto Mèr. Solo che adesso…

— Dopodomani i Due diventeranno Uno. Garantito che Jasmel non la vedrai nemmeno per un istante. Ricordo il primo Due diventano Uno dopo il mio Legame con Lurt: quasi non trovavamo il tempo per respirare.

— Lo so —, disse Ponter. — E anche se Mega vorrà stare un po’ con me…

—… Devi ancora decidere con chi starai tu. In quale casa passerai le notti.

— Ma è ridicolo. Non ho alcun impegno ufficiale con Daklar.

— Neanche con Mèr, se è per questo.

— Lo so, ma non posso abbandonarla mentre i Due diventano Uno. — Ponter fece una pausa, sperando che Adikor non prendesse per offensive le parole seguenti: — Credimi, so quanto ci si senta soli in quella circostanza.

— Magari potrebbe tornare al suo mondo, prima di allora — suggerì Adikor.

— Non credo che l’idea la entusiasmerebbe.

— Tu: con chi vuoi stare?

— Con Mèr, ma…

— Ti ascolto.

— Ma lei ha il suo universo, e io il mio. Ci sono ostacoli paurosi.

— Se posso permettermi, vecchio mio: io che posto ho in tutto questo?

Ponter si mise seduto sul divano. — Che cosa vuoi insinuare? Tu sei il mio compagno, e questo non cambierà mai.

— No, eh?

— Certo che no. Io ti amo.

— E io amo te. Però ricordo cosa mi hai raccontato dei gliksin. Mary non sta cercando un compagno da frequentare pochi giorni al mese, e dubito fortemente che intenda trovarsi una compagna.

— Be’, sì, il suo popolo ha abitudini diverse, tuttavia…

— È come con i mammut e i mastodonti — disse Adikor. — Sicuro, si somigliano parecchio, ma prova a mettere insieme un mammut maschio con un mastodonte femmina!

— Lo so — disse Ponter. — Lo so.

— Non vedo proprio come potrebbe funzionare.

— Me ne rendo conto. Ma…

— Posso intromettermi? — disse Hak.

Ponter abbassò gli occhi sul polso sinistro. — Dì’ pure.

— Lo sai che di solito non m’immischio in queste faccende — disse il Companion — ma c’è un fattore che non stai prendendo in considerazione.

— Oh?

Hak aggiunse attraverso l’impianto cocleare: — Penso che sarebbe meglio parlarne in privato.

— Che razza di assurdità! — disse Ponter. — Non ho segreti per Adikor.

— E va bene — disse Hak, tornando a comunicare attraverso l’altoparlante esterno. — La scienziata Vaughan si sta riprendendo da un’esperienza traumatica. Le sue emozioni e il suo comportamento recenti potrebbero essere atipici.

Adikor protese la testa. — Quale esperienza traumatica? Voglio dire, so che consumare un pasto preparato da Ponter può avere effetti devastanti, ma…

— Mary è stata violentata — disse Ponter. — È successo nel suo mondo, poco prima che vi arrivassi io.

— Ah — disse Adikor, tornando serio. — Che cosa hanno fatto all’aggressore?

— Niente. È fuggito.

— Ma come è possibile…

Ponter sollevò il braccio sinistro. — Niente Companion, niente giustizia.

— Per mille ossa rinsecchite. In che razza di mondo vivono…

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