Furetto stava controllando le trappole quando il cielo si spaccò con un frastuono assordante. Lasciò cadere il coniglio morto che aveva in mano e s'infilò istintivamente nei cespugli. Troppo impaurito perfino per aprire gli occhi, s'addentrò più che poté, e poi s'immobilizzò, trattenendo il fiato e cercando di vincere il tremito che lo scuoteva.
Qualche minuto dopo un altro suono lacerante scosse il mondo. Gli uccelli si zittirono. Tutta la foresta rimase paralizzata dalla paura. Furetto affondò la faccia nella terra umida e cercò di scomparire, di annullarsi completamente perché il mostro che scuoteva il mondo non riuscisse a trovarlo.
Rimase là per molto tempo. O così almeno gli parve. Poco per volta la vita nei boschi tornò alla normalità. Gli uccelli ricominciarono a cinguettare. La brezza faceva sospirare le foglie degli alberi. Qualcosa gli sfiorò scivolando la gamba nuda. Lentamente, con estrema cautela. Furetto sollevò la testa e guardò. Non vide niente di insolito, niente di cui avere paura. Evidentemente il mostro se n'era andato. Però forse non era lontano. Strisciando sul ventre, Furetto si portò verso il margine del bosco, dove si trovavano i vecchi edifici di cemento e i lunghi sentieri pure di cemento. Se un mostro gigantesco si avventurava nei boschi, forse poteva vederlo da là.
Decise di rischiare. Si mise carponi e attraversò così il tratto che divideva il cespuglio dove stava nascosto dal tronco di un grosso albero sul bordo della radura. Quando trovò il coraggio di sbirciare da dietro all'albero, rimase stupito da quello che vide. Due strani oggetti d'argento, enormi, di una forma che ricordava quella delle cartucce, stavano posati sulle piste di cemento, dove quella stessa mattina non c'era niente. Non parevano mostri.
Poi spalancò ancora di più gli occhi. Intorno a quei cosi d'argento c'erano molti uomini! Uomini come lui. Erano vestiti meglio e avevano strane pentole di metallo in testa, ma erano indubbiamente uomini. Armati. E poi c'erano diversi veicoli che trasportavano avanti e indietro gli uomini, muovendosi su ruote grosse e cedevoli.
Una banda di razziatori invade il nostro territorio, pensò Furetto. Devo avvertire Billy-Joe. Ma lui vorrà sapere quanti sono gli uomini e che genere di armi portano.
Tutte le fibre del corpo minuscolo e nervoso di Furetto lo spingevano a scappare, nascondersi nei boschi, lontano da quei minacciosi stranieri. Ma gli pareva di vedere la faccia di Billy-Joe se il suo rapporto non fosse stato esauriente. E quando Billy-Joe cominciava ad arroventare il coltello sul fuoco, tutte le altre paure svanivano dalla mente di Furetto, anche se non aveva mai subito personalmente la punizione.
Deglutendo a fatica, fin quasi a soffocare, uscì dal riparo del tronco, strisciando lentamente verso uno degli edifici di cemento, più vicino al posto dove si trovavano gli invasori. Gli pareva che fossero passate ore, ma le ombre gettate dal sole non si erano quasi mosse quando arrivò all'angolo della costruzione.
I membri della banda di invasori si erano sparpagliati in modo da formare uno scudo protettivo intorno agli strani oggetti d'argento. I veicoli continuavano ad andare avanti e indietro. Gli uomini avevano armi pesanti, grosse, a canna lunga. Furetto moriva dalla voglia di averne una anche lui. Forse Billy-Joe gliene avrebbe lasciata prendere una come premio per avere attirato gli invasori nell'imboscata.
Furetto si passò la lingua sulle labbra e ricordò che la sua unica arma era un coltello da caccia; per di più con l'impugnatura svitata e traballante. Decise quindi di aver visto abbastanza. Era ora di tornare a riferire.
Mentre si voltava strisciando per allontanarsi una sventagliata di mitra crepitò dietro di lui. Dall'angolo del muro si staccarono frammenti di cemento e Furetto si appiattì sull'erba.
Kobol rimase sorpreso quanto Alec. Anche tutti gli altri s'immobilizzarono, stupiti.
— Cos'è stato? — chiese Kobol facendo inconsciamente un passo verso la navetta.
Alec si portò il microfono alla bocca. — Qui Morgan. Chi ha sparato, e perché?
— Kurowsky — gli rispose una voce nell'auricolare. — Ho visto qualcosa muoversi accanto alle costruzioni sulla sinistra.
— Un uomo? L'hai colpito?
— Non lo so. Era qualcosa… Adesso non lo vedo più.
Anche Kobol aveva ascoltato. — Forse era un animale — disse a Alec. — Ce ne sono di tutte le specie da queste parti.
— Kurowsky, dove ti trovi? — chiese Alec.
— Nella posizione assegnata. Cento metri dalla navetta, sul lato sinistro. Non c'è molta copertura, qui, sono sdraiato bocconi in una specie di fossatello coi bordi di cemento.
— È un canale di scolo per la pioggia — spiegò Kobol.
— Va bene. Resta dove sei — ordinò Alec. — Gli altri arriveranno fra poco con le armi più pesanti. Se vedi ancora qualcosa spara solo se ti sembra ostile. Non sprecare munizioni. Ma avvertimi immediatamente.
— Sissignore.
— Voglio che quegli edifici vengano perquisiti — disse Alec a Kobol.
— Provvederò perché lo facciano tutti gli uomini disponibili.
— Dopo aver disposto i camion lungo il perimetro, possiamo fare a meno di metà degli uomini dotati di armi pesanti.
— Ma sono solo sei.
— Sono gli unici disponibili. Guiderò io la perquisizione non appena saranno sistemate le armi lungo il perimetro.
Alec si avviò verso la postazione di Kurowsky lasciando a Kobol la sorveglianza della sistemazione delle armi. Gli edifici erano bassi, grigi e con fori per finestre. Da quello principale svettava una torretta smozzicata e bruciacchiata. Lì dentro potrebbero nascondersi un centinaio di uomini, pensò Alec. E un altro migliaio tra quelle colline.
Kurowsky, sdraiato nel canale di scolo, stringeva fra le mani il fucile automatico. Alec scese strisciando e si portò vicino a lui.
— Visto altro?
— Non ne sono sicuro. Qualcosa si è mosso laggiù per qualche istante. Ma si allontanava e non camminava come un uomo.
— Va bene. Fra poco sarà pronta una squadra che perquisirà quegli edifici. Intanto noi due staremo qui a sorvegliare la zona.
Non era sgradevole starsene lì sdraiati, e Alec cominciò a provare dell'affetto per quel mondo enorme che si chiamava Terra. La brezza sussurrava e sospirava. Ricordi di vecchie poesie imparate a scuola cominciarono ad avere per la prima volta un senso. E oltre ai sospiri e ai sussurri della brezza c'erano anche altri rumori. Alec sapeva che gli uccelli cinguettano e gli insetti ronzano, ma non li aveva mai sentiti.
— Ecco… Là!
Kurowsky indicava un punto vicinissimo al suo naso. Un insetto camminava frettolosamente in mezzo all'erba.
— Credo che sia una formica — disse Alec. — O forse un'ape.
— Ma le api non volano?
— Forse sì… credo.
I mezzi dotati di armi pesanti raggiunsero finalmente le loro postazioni. C'erano sei autoblindo con pneumatici a bassa pressione e col motore elettrico, armati di potenti laser. Parte degli uomini portava mitragliatrici e lanciarazzi che cominciarono subito a montare.
Alec, seguito da sei uomini, condusse un'accurata ma infruttuosa perquisizione all'interno degli edifici. Trovarono solo pareti annerite dal fuoco, pavimenti sconnessi, tetti squinternati.
Verso la metà del pomeriggio Alec ordinò che il perimetro venisse allargato. Quasi tutti i lanciarazzi e le mitragliatrici pesanti erano stati sistemati sui tetti insieme a sensori agli infrarossi per la visione notturna. Una autoblindo munita di laser fu piazzata davanti all'edificio centrale. Le altre si portarono ai limiti dell'aeroporto, mentre squadre armate di fucili sorvegliavano gli spazi fra l'una e l'altra.
Alec, risalito sulla prima navetta, fece il punto della situazione insieme a Kobol, che pareva esausto.
— Dobbiamo presumere di essere stati avvistati — disse Kobol.
— Giusto. È la prima cosa da tenere presente — disse Alec pensando che non si era mai reso conto di quanto fossero rumorose le navette. Ormai, pensò, tutti sapranno che siamo arrivati.
— Sarebbe stato molto più facile nascondere le navette se fossimo scesi in una delle valli vicine — proseguì Kobol.
— Qui sono al sicuro — ribatté Alec scrollando la testa. — I barbari non dispongono di armi che possano arrivare a colpirci dai bordi del campo.
— Ne sei certo?
— E finora il satellite non ha individuato gruppi consistenti di barbari diretti da questa parte. Quindi siamo al sicuro da un attacco in massa per un paio di giorni almeno.
Kobol era scettico, ma non ribatté.
— Bene — proseguì Alec. — Ci muoveremo stanotte…
— Stanotte? Al buio?
— Sì. Abbiamo sensori agli infrarossi. I barbari non li hanno. Noi possiamo muoverci al buio, loro no, e non si aspetteranno che noi lo facciamo. Voglio una dozzina di uomini e un'autoblindo munita di laser. Disponiamo di mappe della zona prese dall'alto, e le strade fra qui e il complesso di Oak Ridge sono chiaramente segnate. Possiamo arrivare prima dell'alba e cogliere di sorpresa gli eventuali difensori.
Kobol non era d'accordo. — Gli uomini non se la sentiranno di muoversi di notte, e quelli lasciati qui avranno ancora più paura sapendo che un quarto del contingente è lontano.
— Martin, non sono qui per discutere — disse brusco Alec alzandosi. — Gli uomini obbediranno ai miei ordini. Domani a quest'ora staremo già tornando a casa.
— Il capo sei tu — disse Kobol stringendosi nelle spalle. — Immagino che vorrai guidare di persona la spedizione a Oak Ridge.
— Infatti. E voglio che venga anche tu.
Le cespugliose sopracciglia di Kobol si sollevarono di un centimetro. — Non preferisci che rimanga qui?
— Basterà Jameson a sorvegliare il campo. Voglio che tu venga con me… perché sai riconoscere i materiali fissili.
— Ah, capisco. — Alzandosi lentamente Kobol disse: — Sai, se non si è abbastanza prudenti al buio, può anche capitare di essere colpiti da uno dei nostri.
— Hai ragione — rispose con la massima calma Alec. — Ci ho già pensato. Se può capitare a me, può capitare a chiunque, anzi è più probabile che capiti a qualcun altro.
Kobol sfoderò un sorriso tutto denti. — Già, è quello che penso anch'io.
— Finché siamo d'accordo tutto va bene — concluse Alec senza sorridere.
La notte era diversa. Non si trattava solo di spegnere le luci, come sulla Luna. Qui era buio. E la notte era viva.
Alec viaggiava sul paraurti anteriore dell'autoblindo che avanzava silenziosa con una dozzina di uomini a bordo, compreso lui e Kobol. Il conducente, chiuso nell'abitacolo blindato fra i paraurti, guidava lungo la strada tortuosa aiutato dai raggi infrarossi e dai sensori. Di notte, all'aperto, pareva che tutte le vecchie leggende di fantasmi e lupi mannari fossero storie fin troppo reali.
Tutte leggende, si disse Alec.
Pure, c'era qualcosa nel buio. Cose che gracchiavano e gracidavano, cose che sospiravano, grida improvvise e strani suoni spettrali.
— Scommetto che quello era un gufo — disse una voce alle spalle di Alec.
Le nuvole avevano cominciato a diradarsi prima del tramonto, offrendo ad Alec e ai suoi uomini lo spettacolo più stupefacente che mai avessero visto: un tramonto sulla Terra, vibrante di rossi e fiammeggianti arancioni che lentamente scolorivano nell'azzurro e poi nel viola, per cedere infine il posto al buio trapuntato di stelle.
Adesso il cielo era sereno, e le stelle, a parte il tremolio cui non erano abituati, sembravano normali. Quando la strada, dopo una curva, raggiunse la zona alberata, anche le stelle scomparvero. Adesso Alec riusciva solo a distinguere i neri rami contorti che frusciavano al sussurro del vento sullo sfondo appena meno scuro del cielo. Rabbrividì e non solo per il freddo.
L'autoblindo frenò bruscamente fermandosi, e mancò poco che lui perdesse l'equilibrio.
— Cosa c'è? — chiese ansioso nel microfono.
— Qualcosa si muove là davanti — rispose la voce del conducente dell'abitacolo.
— Qualcosa? Cosa?
— Non saprei. Emana abbastanza calore da apparire sullo schermo. Grande come un uomo. Forse di più.
Alec esaminò rapidamente le alternative. — Va bene. Non dobbiamo fermarci. Tutti gli uomini scendano e camminino ai fianchi dell'auto. Non sparate se prima non vi attaccano. Joe, procedi a passo d'uomo. Informami se compare qualcosa sullo schermo.
— D'accordo.
La corsa sull'autostrada tutta crepe si ridusse a una lenta camminata. Alec preparò il mitra tenendosi pronto a sparare. Camminava qualche passo avanti all'autoblindo, a una distanza di sicurezza dalla spalletta sinistra della strada, che era larga abbastanza da permettere a parecchi camion di procedere affiancati. Purtroppo i cespugli e gli alberi che la fiancheggiavano e in certi punti la invadevano potevano nascondere anche un esercito. Ma Alec non vide niente.
— Qualcosa proprio davanti. — La voce del conducente risuonava stridula negli auricolari.
— Io l'ho vista! — aggiunse un altro. — Era veloce… Ha attraversato la strada da sinistra a destra.
— Mitragliere — ordinò Alec. — Spara sul lato destro… a che distanza, Joe?
— Cinquanta metri circa.
L'autoblindo si fermò. Il sommesso ronzio del motore elettrico fu sostituito dal sibilo acuto del generatore del laser. Nel buio, Alec riusciva a malapena a distinguere lo specchio ovale di metallo del laser mentre girava lentamente nella sua direzione catturando sulla liscia superficie di rame il baluginio delle stelle.
Poi il sibilo andò aumentando e i boschi, una cinquantina di metri più avanti sulla destra, esplosero in una vampata. Quando l'invisibile laser riversò energia infrarossa nei cespugli si udì un'esplosione sorda seguita da un rombante crepitio. Nella vivida luce delle fiamme due grossi animali balzarono sulla strada, l'attraversarono al galoppo e scomparve fra la fitta vegetazione del lato opposto. Erano quadrupedi, e avevano le gambe sottili.
— Cervi — commentò uno.
— I cervi hanno le corna.
— Non sempre.
— Cessare il fuoco! — ordinò Alec.
Le fiamme si spensero con la stessa rapidità con cui erano divampate, lasciando una chiazza di bracci rossastre sul lato destro della strada. Alec percepì un odore strano ma gradevole. Gli veniva da tossire, ma nello stesso tempo quell'odore faceva vibrare in lui una corda che non aveva mai saputo di avere. Legno bruciato? Perché emanava un così buon odore?
— Bene — ordinò. — Risalite tutti a bordo. Se anche c'era gente nei paraggi ormai se la sarà data a gambe.
Kobol rimontò sul parafango sinistro con un borbottio, poi disse abbastanza forte perché tutti lo sentissero: — Bella imboscata! Hai fatto spaventare due cervi.
Tutti risero e l'autoblindo si rimise in moto. Ma Alec non poteva fare a meno di pensare: Lui è lì, da qualche parte, che ci aspetta. E non è solo.
Nelle ore successive chiamò due volte Ron Jameson all'aeroporto. Laggiù tutto era tranquillo, e gli uomini dormivano a turno.
Alec scoprì che anche i suoi uomini sonnecchiavano aggrappati alle varie parti dell'auto, o sdraiati se trovavano una superficie abbastanza grande. Dopo avere chiamato Jameson per la seconda volta, prese la guida del mezzo perché il conducente potesse riposarsi un po'. Anche Kobol si era appisolato, con la testa china sul petto che ciondolava a ogni scossa.
Nello schermo agli infrarossi che gli stava davanti la strada si stendeva come un nastro arancione punteggiato di crepe e buche. Il fogliame ai due lati era rosa, e i piccoli animali che comparivano ogni tanto erano rossi.
— Chi è all'arma? — chiese al microfono.
— Gianelli.
— Sei sveglio?
— Per forza. Gli occhiali agli infrarossi sono così pesanti che mi danno il mal di testa. Non potrei dormire neanche se volessi.
— Bene.
— Lieto di sentire che il capo si preoccupa per me.
Alec rise. — Tu bada a tenere gli occhi aperti. Io guardo avanti, tu guarda dietro.
— Sì, lo sto già facendo. Tutto immobile, salvo qualche altro cervo.
— Sei sicuro che fossero cervi?
Gianelli ridacchiò piano. — A meno che ci siano uomini che attraversano la strada saltando sulle quattro zampe.
Alec era ancora alla guida quando raggiunsero la sommità di un'altura e i sensori captarono il calore irradiato dal complesso di Oak Ridge, che poco dopo si delineò sullo schermo. Alec guardò l'orologio; mancava un'ora e mezzo all'alba.
Rimase per un momento indeciso se svegliare gli uomini. Rinunciò. Si cacciò in bocca una pastiglia di stimolante, aprì il portello sul tettuccio, e si arrampicò fuori. Rimase qualche istante sul tetto dell'autoblindo per stiracchiarsi e respirare a pieni polmoni l'aria fresca della notte. Ovunque c'erano uomini sdraiati, appena visbili nell'oscurità. Un altro suono, uno strano urlo, risuonò nei boschi facendo rabbrividire Alec.
Scavalcando uno degli uomini che dormivano raggiunse la postazione del laser. — Gianelli — chiamò sottovoce.
— Sì.
— Fai un sonnellino. Sto io di guardia.
Gianelli non fece obiezioni. Alec si arrampicò sul suo seggiolino e si fece dare gli occhiali agli infrarossi. Il laser ronzava sommessamente. Invece che come arma funzionava da riflettore, regolato su una sonda ad ampia portata.
Gli occhiali erano davvero pesanti. Alec doveva fare uno sforzo per tenere la testa eretta mentre faceva compiere un giro completo all'affusto. Il debole ronzio dei motori gli dava un certo qual senso di sicurezza contro gli strani rumori della notte.
Le lenti agli infrarossi facevano sembrare gli alberi simili a bianchi fantasmi, mentre gli edifici di cemento del complesso erano di un vivido arancione. Il complesso era istallato in un'ampio spiazzo della valle sottostante, distante parecchi metri dagli alberi più vicini. La zona circostante era buia, arida. Forse ci cresceva un po' di erba, ma niente di più.
Mentre Alec faceva ruotare lentamente il laser, per scandagliare tutta l'area circostante, cominciò a provare la sgradevole sensazione che qualcuno lo stesse osservando. Dapprima fu solo una vaga sensazione di disagio, ma poco per volta la sensazione si accentuò facendolo rabbrividire.
Forse dovrei svegliare qualcuno, pensò. Ma subito si rimproverò: No, sei solo nervoso! Hai paura perché sei fuori all'aperto, da solo.
Stringendo i denti continuò a fare ruotare lentamente l'affusto del laser, con una sensazione di gelo che continuava ad aumentare. Davanti c'era la strada e giù, nel fondovalle, gli edifici. Girando, gli alberi si avvicinavano, misteriosi, coi loro bianchi rami che si protendevano verso di lui o si levavano al cielo. Continuando a ruotare ecco di nuovo la strada, il tratto che portava all'aeroporto, alle navette, alla salvezza. Poi di nuovo gli alberi, e infine gli edifici.
E se lui fosse là? Avrà i rivelatori agli infrarossi? Se li ha allora noi siamo come un faro, un grosso bersaglio luminoso.
D'improvviso Alec premette a fondo i pedali per fare ruotare in senso inverso l'affusto. I motori elettrici protestarono per un istante, l'affusto sobbalzò, poi cominciò a girare nella direzione opposta.
Là! Fra gli alberi!
Scomparve prima che lui potesse distinguere cos'era. Chiazze di calore, parecchie chiazze, fra gli alberi. Erano svanite dal suo campo visivo proprio nell'attimo in cui il laser le aveva evidenziate.
Animali, disse fra sé Alec. Ancora un'ora prima dell'alba, ma il cielo oltre il complesso di Oak Ridge cominciava a schiarire. Possibile che i nostri orari della levata del sole siano sbagliati? Poi, ricordando il magnifico tramonto che si era protratto a lungo la sera prima, nonché quanto gli avevano insegnato sugli effetti dell'atmosfera terrestre, capì che il cielo impallidiva ben prima che il sole comparisse all'orizzonte.
Coi nervi tesi, continuò a scrutare per un quarto d'ora, continuando a cambiare per non ripetere sempre le stesse posizioni. Non vide niente. Poi cominciò ad esserci abbastanza luce per potere fare a meno del laser e degli occhiali.
Via via che la luce aumentava, gli uomini cominciarono a svegliarsi, e Alec non sapeva se fosse più contento perché adesso non era solo o perché la lunga e minacciosa notte era finalmente terminata.
Si avviarono a piedi verso il complesso con Alec all'avanguardia, Kobol alla retroguardia con tre uomini, e l'autoblindo in mezzo alla formazione sparsa degli uomini.
Il terreno intorno alle costruzioni era arido e cosparso qua e là da radi ciuffi di erba stenta. Intorno al complesso c'era una pavimentazione di cemento e asfalto, qua e là screpolata. In alcuni tratti il terreno era coperto di ghiaia.
Mentre si avvicinavano, Alec cominciò a capire perché Kobol si era offerto di stare alla retroguardia. Era l'unico di tutti loro ad essere già stato lì, l'unico che conoscesse la zona. Alec avrebbe voluto chiedergli se gli edifici avevano subito dei cambiamenti, ma per farlo, avrebbe dovuto chiamarlo, e di conseguenza gli uomini si sarebbero resi conto che aveva bisogno dei suoi consigli.
All'inferno! Alec continuò a camminare verso gli edifici immersi in un silenzio di morte, impugnando il mitra. Il tragitto fu più lungo del previsto. Regnava una tranquillità irreale. Non tirava un alito di vento. Dagli alberi non veniva il cinguettio degli uccelli. Il sole stava spuntando oltre la cresta delle colline, ma faceva già molto più caldo del giorno prima. Che il calore provenisse da quegli edifici? La paura della radioattività lo fece rabbrividire, ma continuò a camminare voltandosi di tanto in tanto per guardare gli altri.
Quando raggiunsero il bordo dei vialetti di cemento che correvano fra gli edifici, diede l'alt. I muri erano coperti da striature scure e chiazze variegate.
— Fermate qui l'autoblindo, dove può coprire tutta l'area. Mettetevi in formazione davanti al mezzo.
Kobol lo raggiunse zoppicando, con la tuta chiazzata di sudore alle ascelle e sul petto. Aveva un aspetto grottesco col pesante elmetto sferico piantato sulla testa.
— Cosa ne pensi? — gli chiese Alec indicando con un ampio gesto gli edifici.
Kobol sollevò le sopracciglia tanto da farle sparire sotto il bordo dell'elmetto. — È passato molto tempo da quando sono venuto qui. Ma mi pare che non siano cambiati.
— Quello è l'ingresso principale, vero?
Kobol annuì.
— Bene. Gianelli, prendi due uomini e seguici. Gli altri restino qui. Tenete gli occhi bene aperti.
I cinque si avviarono lentamente verso l'ingresso, in preda a una crescente tensione. Alec vedeva le finestre, fracassate tanto tempo prima, che lo fissavano come occhi ciechi. Anche le porte erano andate distrutte e le pareti recavano i segni di un antico incendio. L'interno era immerso nell'ombra.
Alec sentiva il battito del proprio cuore mentre salivano i gradini che portavano all'ingresso. La mano sudata scivolava sull'impugnatura dell'arma, ma nell'intimo era freddo e calmo.
L'interno dell'edificio era cosparso di frammenti di cemento e di intonaco, di foglie morte e macerie. Il locale era ampio e spoglio.
— Era l'atrio — spiegò Kobol. — Tutto quello che conteneva è stato distrutto o rubato da tempo.
— E i materiali fissili? — chiese Alec allarmato.
— Non preoccuparti — rispose Kobol ridendo. — Non è facile arrivarci… anche se i barbari sapevano della loro esistenza, e posto che li volessero. Il che è sommamente improbabile perché il materiale radioattivo è circondato da leggende e tabù. I barbari hanno una tremenda paura di quella roba.
Ispezionarono tutto l'edificio abbandonato. I locali erano ampi, ma recavano i segni del fuoco e delle distruzioni. Quasi tutti i tetti erano spariti e il sole nascente filtrava fra le travi smozzicate. Solo qualche muro divisorio era ancora intatto. Non c'erano indizi che lì dentro fossero entrati degli esseri umani.
C'era ovunque una grande sporcizia ed escrementi di animali. Kobol indicò un ciuffo d'erba secca incuneato in una crepa. — È il nido di un uccello — spiegò.
— Io ho la pelle d'oca — mormorò Gianelh.
— I barbari hanno portato via tutto quello che si poteva asportare e hanno bruciato il resto.
Raggiunsero una porta di metallo che si apriva su un lungo tunnel puntellato da travi pure di metallo.
— Questo è il corridoio che collegava la sede dell'amministrazione, dove siamo entrati, con uno degli impianti di lavorazione dove si ricavavano i materiali fissili dai minerali grezzi a bassa gradazione. — La voce di Kobol, che parlava come un professore in aula, risuonava nell'andito angusto. — Nell'edificio attiguo vedrete i macchinari, e più avanti ci sono le camere blindate dove sono immagazzinati i materiali che cerchiamo.
Aprirono la porta in fondo al corridoio, e si trovarono nella stanza più grande che Alec avesse mai visto. Il sole filtrava attraverso il tetto sconnesso. La stanza era vuota.
I giganteschi macchinari erano stati asportati, e non erano rimaste che le nude pareti. Kobol rimase esterrefatto.
— Ma qui non c'è niente! — esclamò Alec.
— Hanno portato via tutto — mormorò con voce rotta Kobol.
— I materiali fissili!
Corsero verso la pesante porta metallica al capo opposto dello stanzone. Alec aveva l'impressione di vivere un incubo. Continuava a correre, ma gli pareva di non progredire di un passo, in quell'enorme scatolone di cemento. Quasi inconsciamente si accorse che il pavimento era segnato da infissi metallici, nei punti dove prima i macchinari erano stati inchiavardati al cemento. Gli infissi erano lucidi e puliti, segno che i macchinari erano stati asportati di recente.
Raggiunsero ansimando la porta. Era socchiusa.
— Le stanze blindate… — ansò Kobol cercando di spalancare il pesante battente. Alec e Gianelli si fecero avanti per aiutarlo.
Dall'altra parte c'era un piccolo locale, in cui riuscirono a entrare a malapena tutti e cinque. Tre pareti erano coperte da compartimenti di metallo della grandezza di una grossa scatola, disposti uno sull'altro come scaffali, ma con spesse suddivisioni fra uno scaffale e l'altro.
— Vuoto!
Kobol continuava ad ansimare ed era pallidissimo. — Non… sono… stati i barbari.
Alec si voltò verso di lui.
— Solo un uomo… sapeva… Solo un uomo conosceva il valore… dei materiali fissili… Tuo padre — disse Kobol.