Il locale più ampio dell'installazione sotterranea era una specie di magazzino, deposito e garage situato subito dopo la pesante doppia porta metallica del compartimento stagno principale che portava in superficie. Vicino alle porte erano parcheggiati in file regolari, lungo le linee colorate dipinte sul pavimento, veicoli di vario genere: autogru elettriche, fuoristrada lunari con le ruote elastiche, bicicli per pedalare lungo i corridoi sotterranei.
In file e cataste altrettanto precise erano disposti casse e scatoloni su cui spiccavano le etichette che indicavano il contenuto: macchinari, generi alimentari, medicinali, indumenti, in una parola tutte cose che la base lunare non era in grado di produrre autonomamente.
Sono un memento, pensò Lisa entrando nello stanzone, un memento di quanto noi dipendessimo dalla Terra. Riusciremo a sopravvivere senza la Terra? Kobol dice di sì, ma sarà vero?
Insieme a lei c'erano Kobol e Catherine Demain. Aspettarono davanti al portello del compartimento stagno, in fondo all'ampia corsia che divideva le cataste di rifornimenti dalle file dei veicoli. Alle loro spalle c'era una squadra di volontari pronti a intervenire per accompagnare in ospedale i superstiti della Terra.
Kobol controllò l'ora: — Ancora qualche minuto al massimo.
Lisa si voltò a un rumore di passi. L'ascensore aveva sfornato una dozzina di persone che erano venute a unirsi a loro nell'attesa.
Anche Kobol si voltò, e una smorfia di disappunto si dipinse sulla sua faccia scarna: — Perché non sono al lavoro? Nessuno ha avuto il permesso di salire qui all'infuori di quelli…
Lisa gli pose una mano sul braccio per farlo tacere. Altra gente scendeva dall'ascensore chiacchierando, ridendo, ammassandosi per fare posto agli altri che via via arrivavano. Erano quasi tutti in abiti da lavoro, ma l'atmosfera era quella eccitata di un giorno di festa sulla Terra.
— Saranno un centinaio — osservò Catherine Demain sorridendo felice.
— E ne arrivano ancora.
— ATTENZIONE — la voce degli altoparlanti inseriti nel soffitto echeggiò lungo le pareti di pietra. — LA NAVE DA TRASPORTO È SCESA SULLA PISTA DI ATTERRAGGIO…
Dalla folla si levarono grida di gioia che impedirono di sentire parte delle parole di Blair. — …FRA CIRCA CINQUE MINUTI DOVREBBERO ARRIVARE AL COMPARTIMENTO STAGNO. IL PERSONALE MEDICO SI TROVI AI POSTI ASSEGNATI FRA CIRCA CINQUE MINUTI.
La folla continuava a ridere e parlare facendosi avanti. Lisa si sentì spingere verso le porte di metallo.
— Chi ha dato loro il permesso di lasciare il lavoro? — disse con ira Kobol. — Non si può permettere una simile ressa!
Catherine Demain lo guardò ridendo: — Cosa ci puoi fare? Sono tutti eccitati perché Douglas arriva coi superstiti.
La folla continuava a spingere. I bambini si erano arrampicati sui veicoli per poter vedere meglio. C'era una grande eccitazione nell'aria. Lisa si ritrovò tutt'a un tratto a rabbrividire di freddo. Si voltò e vide che la lucetta dell'indicatore del compartimento da rossa era diventata gialla.
Trattennero tutti il respiro, e un silenzio assoluto calò nell'enorme caverna. La luce finalmente diventò verde e la massiccia porta di metallo cominciò ad aprirsi lentamente. Kobol era teso come un cavo d'acciaio. Catherine Demain fece istintivamente un passo avanti.
— Aiutateli — ordinò Lisa. Due volontari lasciarono cadere la barella che portavano e corsero a spingere la porta per affrettarne l'apertura.
Il primo a uscire fu uno dei piloti, allegro e sorridente, che cercò con lo sguardo tra la folla finché una biondina che stava in prima fila non gli si gettò fra le braccia.
Poi uscì un giovane, nel quale Lisa riconobbe un tecnico delle comunicazioni. Aveva la tuta imbrattata di fango e la faccia sporca, ma anche lui sfoggiava un grande sorriso, un sorriso di soddisfazione, di sollievo, di appagamento.
La folla guardò ammutolita quando i sopravvissuti dalla catastrofe terrestre uscirono uno alla volta, quasi tutti sorretti dagli uomini di Douglas. I volontari accorsero e li accompagnarono all'ascensore per portarli nell'infermeria improvvisata allestita per loro. La folla si fece da parte per lasciarli passare. Erano in maggioranza uomini, magri, deboli, pallidi. Non si vedevano ustioni o ferite sotto gli abiti ridotti a brandelli.
Quando anche l'ultimo fu uscito, Catherine Demain seguì le barelle. Lisa invece non si mosse. La folla riprese a mormorare eccitata. Poi uscirono gli ultimi del gruppo che aveva seguito Douglas sulla Terra, e la folla li accolse con grida e applausi. Il frastuono echeggiava dalle pareti e dal soffitto di pietra. Appena uscivano, gli uomini che avevano partecipato alla missione venivano circondati dai familiari e dagli amici.
Per ultimo comparve Douglas Morgan. Non sorrideva così apertamente come gli altri. Sul suo viso non si leggevano tanto la gioia e il sollievo, quanto il dubbio e l'ironia. Ma soltanto Lisa se ne accorse. Gli altri lo accolsero con grida e applausi, circondandolo, e lo sollevarono caricandoselo in spalla.
Lisa girò la testa per osservare Kobol rimasto solo accanto al portello aperto. Martin Kobol aveva il viso contratto dall'ira e dall'invidia, e una luce omicida gli brillava negli occhi appannati.
Quando rimasero soli nel loro monolocale, Lisa si rivolse al marito dicendogli: — Così adesso sei un eroe.
Douglas si trattenne a stento dal ridere. L'accoglienza trionfale l'aveva colto di sorpresa. Per più di due settimane aveva sopportato il peso della responsabilità di una spedizione all'inferno. Aveva visto più morti di quanto avesse mai pensato, e si era costretto ad abituarsi a vivere a faccia a faccia con la morte. Era stato perfino sul punto di uccidere qualcuno degli sciacalli che avevano aggredito i suoi uomini non appena la navetta aveva toccato la pista della Florida.
Poi era seguito il lungo ritorno sulla Luna, coi superstiti malati e affamati, e il ricordo degli altri che era stato costretto ad abbandonare, troppo deboli per affrontare il viaggio, troppo vecchi per rendersi utili in seguito, troppo malati per essere salvati dalle limitate attrezzature mediche disponibili sulla Luna.
Douglas aveva l'impressione di essere invecchiato di dieci anni in meno di un mese. Aveva ancora nelle narici il lezzo dei corpi in decomposizione; gli pareva che quell'odore gli si fosse appiccicato agli abiti, alla pelle.
E poi l'accoglienza trionfale, il ritorno dell'eroe, il tumultuoso entusiasmo dei suoi amici e colleghi, che se l'erano issato in spalla, lodandolo, ridendo, festeggiandolo, benedicendolo. Per che cosa?, si chiese Douglas. Per aver aggiunto due dozzine di invalidi alle nostre già precarie attrezzature? O perché ho alimentato, in tutti gli abitanti della Luna, la speranza che un giorno potremo tornare sulla Madre Terra?
Ora Lisa gli stava davanti. Pallida e magra nella tuta nera, lo guardava con un'espressione indecifrabile. Douglas si rese conto che non l'aveva mai capita. L'amava, ma per quanto si sforzasse non riusciva a sondarne gli umori. Forse, gli sussurrò un'ironica voce interiore, tu non ami lei, la vera Lisa Ducharme Morgan, ma l'idea che ti eri fatta di lei. Questo è proprio del tuo carattere, Douglas: ti innamori di un'idea e vuoi che la realtà si pieghi alla tua fantasia.
— Cosa si prova a essere un eroe? — chiese Lisa.
Lui si limitò ad alzare le spalle.
Lisa sedette sul bordo del letto, rigida, con le mani strette e contratte. Douglas rimase accanto alla porta, sapendo che, se le si fosse seduto vicino, lei si sarebbe scostata.
— Abbiamo parecchie cose da dirci — disse lui.
— Non ho voglia di parlare.
— Prima o poi…
— Cosa avresti fatto se Fred non fosse morto? Lo avresti ucciso?
Douglas non sapeva cosa rispondere.
— E allora?
— Ci sono già stati troppi morti — rispose lui, rivedendo i resti insanguinati delle città vicine a Cape Canaveral. Il livello delle radiazioni si era rapidamente abbassato, ma le città si erano autodistrutte in un'orgia di avidità e terrore. In Fionda non c'erano posti da scavare, nessun posto dove nascondersi dal fallout. Ma anche nei ricoveri antiatomici del centro spaziale i superstiti si erano massacrati a vicenda per il possesso di una briciola di cibo o di un angolo più sicuro dove nascondersi.
— Il tuo onore è pago? — chiese con disprezzo Lisa. — Lui è morto, e anche il bambino.
— Cosa c'entra l'onore? — sbottò lui. — Quando mai ti sei preoccupata dell'onore? L'hai fatto qui, in questo letto, o su nel suo?
Un sorrisetto amaro le arricciò l'angolo delle labbra. — Che cosa ti fa pensare che l'abbiamo fatto qui o là? O che l'abbiamo fatto una volta sola? Solo nei melodrammi le ragazze restano incinte dopo una sola scopata.
Lui si avventò, senza quasi rendersene conto, e la schiaffeggiò. Il colpo risuonò nella stanzetta e Lisa cadde all'indietro sul letto. Si rialzò lentamente, con la guancia arrossata e bruciante.
— Grazie — gli disse adagio. — È proprio quello che mi aspettavo da te.
Lui si voltò e uscì furibondo dalla stanza.
Douglas girovagò per ore nei corridoi, camminando senza meta lungo quei tunnel scavati nella roccia che collegavano le diverse parti dell'installazione. Attraversò il reparto idroponico con le grandi vasche alimentate da tubi senza guardare né a destra né a sinistra, senza vedere niente all'infuori della faccia di sua moglie con l'impronta del suo schiaffo.
Avrei potuto ucciderla, pensò. Come ho potuto agire così, se l'amo?
Si fermò qualche minuto nel reparto dove venivano lavorate le rocce, assorbendo il frastuono e le violente vibrazioni delle grosse frantumatrici. Rumore e vibrazioni lo distrassero. Le pesanti macchine funzionavano tutte automaticamente: la roccia lunare entrava da una parte nelle massicce frantumatrici e sgretolatrici e usciva dalla parte opposta divisa in polvere di alluminio, titanio, ossigeno e altri minerali. Parte veniva incanalata verso le raffinerie di metalli. Il resto, mediante nastri trasportatori, veniva convogliato negli elettrolizzatoli di rame del reparto dove si produceva l'acqua.
Douglas si sentì battere sulla spalla. Si voltò e vide uno dei tecnici più giovani che gli porgeva un paio di auricolari, gridando per farsi sentire al di sopra del frastuono: — È il regolamento, signore. È proibito stare qui senza.
Douglas alzò gli occhi verso la grande finestra della sala di controllo, scavata in alto nella roccia. Dietro il vetro c'era Larry LaStrande che lo osservava con un binocolo. Douglas lo salutò con un cenno e uscì dalla caverna lasciandosi alle spalle il giovane coi suoi auricolari.
Alla fine, inevitabilmente, salì in superficie. Impiegò quasi un'ora per infilarsi nella tuta rigida, controllando le chiusure, il sistema di respirazione, la radio, il riscaldamento, costringendo la mente, per non pensare ad altro, a occuparsi dei mille particolari dell'abbigliamento nel vuoto.
Dopo essere passato sotto il controllo della squadra di sicurezza nell'ufficio apposito, entrò nel compartimento stagno e si chiuse alle spalle la pesante porta. Pochi minuti dopo la cavità metallica rimase completamente priva d'aria e la luce sull'indicatore accanto al portello esterno diventò verde. Douglas spinse il pulsante con la mano guantata e il portello scorrevole si aprì.
Fuori si stendeva un panorama strano e sterile, quasi incolore. Il terreno accidentato era un susseguirsi di grigi su grigi. Alle sue spalle s'innalzava la parete a terrazzi del bordo del cratere Alphonsus, massiccia, scabra, silenziosa. Attraverso il visore colorato del casco sbirciò oltre il bordo del cratere il cielo eternamente nero che spariva al di sotto dell'orizzonte vicino. I picchi centrali del cratere si ergevano corrosi da eoni di bombardamenti meteorici, ridotti a logori e smozzicati blocchi di pietra grigia.
Un mondo morto, pensò Douglas. Pietra congelata. Niente aria. L'unica acqua disponibile è quella che ricaviamo dalla frantumazione delle rocce. L'unica vita, e che vita precaria, è la nostra.
Il suo sguardo si posò sulla scintillante distesa dei pannelli solari che coprivano centinaia di acri del fondo butterato e arido del gigantesco cratere. Douglas vi si diresse con un sospiro rassegnato. Tanto vale controllare che qualche meteorite non li abbia danneggiati, pensò. Speriamo che l'esplosione solare non abbia provocato danni durevoli.
Mentre camminava con la lentezza di sogno dovuta alla bassa gravità lunare, sollevando piccole nubi di polvere a ogni passo, guardò il cielo. La Terra stava sospesa su di lui, enorme, gibbosa, bianca e azzurra, luminosa dove batteva il sole. Sei ancora viva, disse, nonostante tutto, sei ancora viva.
Si costrinse a riabbassare lo sguardo sulla nuda roccia della Luna.
— Come mi sembra inutile, logorante, monotono lo sfruttamento di questo piccolo satellite — mormorò fra sé.
Tornò a guardare la Terra. Ma stavolta non vide il luminoso globo bianco e azzurro lontano trecentottantaquattromila chilometri, ma il mondo che lo aveva accolto quando vi era sbarcato poco meno di tre settimane prima.
Nonostante le devastazioni provocate dal sole e dai missili nucleari, era ancora un mondo verde e vivo. Palme e cipressi ingentilivano ancora le spiagge della Florida. Uccelli selvatici sfrecciavano ancora nel cielo dolcemente azzurro. E la gente viveva ancora, anche se i superstiti soffrivano per l'effetto delle radiazioni, erano feriti, malati e affamati.
Fra poco sarebbe sopravvenuto l'inverno. Chi viveva nelle zone calde o temperate forse sarebbe riuscito a sopravvivere, ma cosa ne sarebbe stato di quelli che abitavano più a nord? Cosa avrebbero fatto quando avrebbe nevicato, quando per riscaldarsi ci sarebbe stata solo la legna che avrebbero dovuto procurarsi di persona: niente elettricità, né viveri, né medicinali?
— Non posso salvarli tutti — disse fra se, con la voce soffocata dal casco. — Non posso neanche tentare di salvarne l'uno per cento.
Ma pur dicendo questo sapeva che avrebbe tentato. Senza le nozioni e le capacità di quella manciata di persone che vivevano sulla Luna, l'intera civiltà terrestre sarebbe scomparsa in un batter d'occhio. Qualcuno sarebbe sopravvissuto vivendo come erano sopravvissuti i suoi progenitori cinquemila anni prima. Ma le cognizioni, l'arte, la libertà, le grandi opere della mente e del cuore umano costruite con tanta fatica lungo il corso dei millenni sarebbero scomparse per sempre. La civiltà sarebbe morta, e presto.
— A meno che noi non facciamo qualcosa — disse fra sé Douglas, e subito gli rispose una voce interiore. Non noi, tu. A meno che tu non faccia qualcosa moriranno tutti e tutto.
Douglas annuì nel casco sferico della tuta. Accettava le responsabilità.
— Devo salvarli. Costi quel che costi, devo tentare.