Quando il sole emanò il suo super-bagliore, sulla Luna morì un uomo, sulla Terra ne morirono miliardi. Il sole tornò alla normalità brillando nel solito modo pacifico e regolare, come se niente fosse successo. Nel lontano passato aveva emesso altre volte enormi ondate di luce e di calore; questo prima che la civiltà umana riempisse la Terra di paesi, fattorie e città. Probabilmente il fenomeno non si sarebbe ripetuto prima di altri centomila anni.
Il Vecchio Mondo era tutto ridotto a una rovina carbonizzata, a un'intera distesa nera e bruciata. Dall'Islanda all'estremo lembo orientale della Siberia il paesaggio si era ridotto ad un'unica silenziosa, fumante devastazione. Le orgogliose città della storia umana erano ridotte a pire riarse gremite di morti. La Torre Eiffel montava la guardia a una Parigi carbonizzata. La rocca dell'Acropoli era circondata da un'Atene bruciata. Il lezzo dei corpi in decomposizione saliva oltre le rovine del Partenone che era crollato sotto il calore insopportabile della micidiale vampata.
Mosca, Delhi, Pechino, Sydney non esistevano più. La tundra dell'Asia settentrionale era annerita per migliaia e migliaia di chilometri, e gli unici animali sopravvissuti erano quelli che si erano scavati una tana abbastanza profonda da sfuggire al calore soffocante e agli incendi.
L'intera Africa era immersa in un silenzio di morte. Uomini, elefanti, foreste, insetti, savane erano ridotti a neri brandelli che la dolce brezza estiva andava riducendo in polvere. Le antiche piramidi erano rimaste intatte, ma il deserto che si stendeva al di là di esse si era trasformato in centinaia di chilometri di vetro scintillante.
Le Americhe erano sfuggite all'improvvisa esplosione solare, ma non all'ira dei sovietici terrorizzati. Missili con testata nucleare erano caduti sull'America Settentrionale e quasi tutte le città erano esplose nell'oblìo sotto una nube a fungo. Il fallout radioattivo aveva ricoperto il continente da un oceano all'altro: dalle foreste del Canada alle giungle dello Yucatan.
L'America Latina era rimasta quasi indenne dalla vampata solare, ma era tagliata fuori dal resto del mondo dagli oceani e dalle distese di terreno radioattivo che inibivano il passaggio a nord. Le grandi città di Rio de Janeiro, San Paolo, Buenos Aires, Lima cominciarono ben presto a disintegrarsi quando l'eccesso di popolazione costrinse gli abitanti a ritirarsi nelle campagne dove la terra consentiva ancora margini di sovravvivenza. Anche nel «fortunato» Sud, senza gli scambi commerciali col resto del mondo, le città morirono. Tornarono in auge gli antichi sistemi di vita: per ottenere il cibo necessario a sopravvivere bisognava lavorare dall'alba al tramonto con utensili fabbricati a mano. La sottile vernice della civiltà si screpolò e scomparve rapidamente.
Le poche centinaia di uomini e donne che vivevano sulla Luna osservavano con crescente orrore la fine del pianeta natale. Loro erano al sicuro sottoterra, protetti anche contro il bagliore normale del sole. Attraverso i telescopi videro il Vecchio Mondo scomparire sotto gigantesche nuvole di fumo e di vapore. Attraverso le radio sentirono i gemiti e le grida dei moribondi. Poi sopravvennero le esplosioni di luce che contrassegnavano la morte nucleare delle città del Nordamerica.
Guardavano e ascoltavano in silenzio, attoniti. E l'orrore andò a poco a poco trasformandosi in un senso di colpa. Sulla Terra morivano tutti. La razza umana veniva spazzata via dalla superficie del proprio pianeta. Loro invece si trovavano sulla Luna, protetti e sicuri nelle sue viscere. Vivevano, mentre le loro madri, i fratelli, gli amici, le persone amate morivano.
Dopo tre giorni di attonito orrore e di un senso di colpa sempre crescente, si guardarono l'un l'altro, e cominciarono a chiedersi: come potremo continuare a sopravvivere senza i rifornimenti di viveri, strumenti, medicine della Terra?
Tutti, uomini e donne, si sentivano colpevoli. L'orrore che provavano era inesprimibile. Nessuno riusciva a esprimere i sentimenti che provava in cuor suo. Le notti si popolarono di incubi. Ma più forte di ogni altra cosa era l'istinto della sopravvivenza. Sepolto nell'intimo di ognuno c'era il bruciante segreto: Io sono vivo, e felice di esserlo. Non importa cosa ne è stato degli altri. Sono contento che non sia capitato a me.
Non tutti i membri della colonia lunare riuscirono a sopportare il peso di quel segreto. Alcuni si rifugiarono nel coma catatonico, qualcun altro si uccise. Altri ancora tentarono di suicidarsi, ma in modo da poter essere scoperti in tempo dagli amici. Persuasi dagli psicologi che non dovevano espiare in quel modo il peccato di essere ancora vivi, tornarono fra i ranghi di quelli che avevano mantenuto l'equilibrio mentale. Due disperati cercarono di sabotare i sistemi di sussistenza, per uccidere se stessi e gli altri, ma furono fermati in tempo, e tutti e due morirono in un letto d'ospedale: uno perché gli era stata somministrata una dose sbagliata di un medicinale, l'altro per un improvviso e imprevisto attacco cardiaco. Il medico che li aveva in cura si strinse nelle spalle e la mattina dopo fu trovato morto per una overdose di barbiturici.
Douglas Morgan, seduto sul bordo del lettino d'ospedale, osservava la faccia di sua moglie che stava dormendo. L'ospedale della colonia lunare disponeva solo di sei letti e due sale operatorie scavate nel solido basalto della crosta lunare. Prima dell'esplosione solare i problemi che i quattro dottori avevano dovuto risolvere erano stati la riduzione di qualche frattura riportata dai minatori, o la cura delle depressioni fra quelli che avevano difficoltà ad adattarsi alla vita sotterranea.
A parte Lisa, non c'erano altri pazienti per il momento. I lavori minerari erano stati sospesi dopo l'esplosione. I casi di depressione erano considerevolmente aumentati, ma nessuno di quelli che ne erano affetti era stato ricoverato. L'ultimo paziente a occupare un letto era stato il sabotatore che era morto in seguito all'attacco cardiaco.
Il viso di Lisa era pallido e tirato. Con gli occhi chiusi pareva quasi una maschera mortuaria. Ma, pensò Douglas, se la morte fosse così bella nessuno la temerebbe. I capelli corti le incorniciavano il viso delicato e parevano più scuri e lucidi in contrasto col bianco della federa e delle lenzuola.
Douglas abbassò lo sguardo e vide che la sua mano sinistra, appoggiata sul letto, era vicina a quella di Lisa. Il contrasto fra le due mani lo affascinava. La mano di lei era così piccola, delicata, quasi fragile accanto alla sua zampa massiccia dalle dita tozze. La mano di Lisa era quella di una ballerina, di una pittrice, di una musicista. La sua pareva creata apposta per scavare la roccia nelle cave lunari, per punzonare equazioni in un computer, per dare indicazioni e sottolineare ordini. Ma sapeva di quale forza fossero capaci quelle mani in apparenza tanto fragili; aveva sentito quelle dita artigliargli il braccio anche attraverso il tessuto spesso e rigido di una tuta pressurizzata.
Si alzò con un sospiro, e stirò i muscoli della schiena sollevando le braccia fino a sfiorare il soffitto con le dita.
Lisa aprì gli occhi e lo guardò. Lo sguardo di quegli occhi scuri smentiva la fragilità del viso. Rivelava un carattere deciso. Nonostante l'apparenza, Lisa era forte come una lama d'acciaio.
— Sei sveglia — disse lui.
— Parti? — chiese lei.
— Sì — rispose Douglas dando un'occhiata all'orologio. — La nave parte fra due ore e devo preparare la mia roba…
— Perché proprio tu?
Lui rimase interdetto. Non gli era mai passato per la testa che potesse essere qualcun altro a guidare la missione.
— E poi, che scopo ha questa spedizione? — continuò Lisa. — È una cosa assurda. Nessuno di voi tornerà vivo.
— Non credo.
Lisa girò lo sguardo sulle pareti di roccia della stanza, che il laser aveva fuso e levigato e che poi erano state tinteggiate di verde pastello. Poi guardò i cinque letti vuoti e infine tornò a guardare il marito.
— È una pazzia — disse. — Vuoi solo tentare di dimostrare quanto sei coraggioso.
Lui abbozzò un sorriso. I terribili avvenimenti. degli ultimi giorni non avevano smorzato lo spirito polemico di Lisa.
Douglas tornò a sedersi sul bordo del letto e disse, soppesando con cura le parole: — Noi siamo una comunità di cinquecentosettantatré persone, fra uomini e donne. Per lo più siamo tecnici e ingegneri minerari. Abbiamo tre medici, cinque psicologi…
— Quattro medici — lo corresse Lisa.
— Tre. Haley è morto la notte scorsa.
Lei accolse la notizia senza scomporsi.
— Data la situazione che si è venuta a creare — riprese Douglas — non siamo in grado di sopravvivere da soli. E non ci arriveranno più rifornimenti dalla Terra… a meno di andare a prendere quello che ci serve.
— Se vai sulla Terra morirai.
— Può anche darsi — ammise lui con un'alzata di spalle. — Forse hai ragione e noi tutti stiamo inconsciamente cercando di sopprimerci con un gesto drammatico invece di starcene qui ad aspettare la morte in questa tomba.
Lisa sospirò di stanchezza e impazienza: — Sei sempre così logico! La Terra è stata distrutta, miliardi di persone sono morte, e tu resti freddo e logico come un computer.
— Noi non siamo morti. Non ancora, almeno. — Il tono era duro, amaro. — E io voglio vivere. Voglio che tu viva, Lisa. Per questo devo guidare la missione che scende sulla Terra. Dobbiamo farlo. Quello che è certo è che prima faremo scalo sulla stazione spaziale in orbita. Quanto poi ad andare sulla Terra… si vedrà.
— Non voglio che tu muoia — disse Lisa con voce atona.
— Perché?
— Perché sei necessario qui. Io ho bisogno di te qui. Tu hai il carattere di un capo. Ho bisogno che tu resti qui per mantenere unita la comunità.
Lui ci pensò sopra per un momento prima di rispondere: — Quello che vuoi dire è che tu hai bisogno che io resti per potere governare la comunità tramite mio.
Lei continuò a fissarlo, ma non rispose.
Fu Douglas a rompere il silenzio carico di tensione. — A me non importa, Lisa. Tu vuoi il potere. Io no.
— Tu sei uno stupido — disse lei senza sorridere.
— Sì, lo so. — Si alzò lentamente. — Il bambino… era di Fred, non mio, vero? — disse guardandola.
Un breve lampo di sorpresa le illuminò il viso. Poi disse: — Che differenza fa, ormai? Fred è morto e io ho perso il bambino.
— Per me fa un'enorme differenza.
Lisa distolse lo sguardo.
Con un gesto impulsivo, Douglas le afferrò il mento costringendola a guardarlo. — Perché? — chiese. — Perché l'hai fatto? Io ti amo.
Lei lo guardò fulminandolo con gli occhi, finché Douglas non lasciò la presa. Poi disse: — Va' sulla Terra e ammazzati. Così come hai ammazzato lui. Come hai ammazzato il mio bambino.
— Possiamo farcela — disse Martin Kobol, cupo in viso. — Possiamo sopravvivere…
Stavano pigiati in sei nell'angusta camera da letto che, come tutti i locali dell'installazione sotterranea, era stata scavata nella roccia lunare e progettata in origine come camera standard per un tecnico minerario o uno scienziato. L'arredo consisteva in un letto, un mobile a muro che serviva da armadio, comò, scrivania e libreria, e una toletta del tipo ideato per le stazioni spaziali.
William Demain divideva la stanza con la moglie Catherine, ma adesso vi si erano riuniti, oltre ai Demain, Kobol e altri tre uomini. I Demain e uno di costoro sedevano sul letto. Kobol sull'unica sedia, e gli altri due accovacciati sulla moquette.
— Ciascuno di noi dirige una sezione chiave dell'installazione — disse Kobol indicandoli uno per uno. — Idroponica, comunicazioni, sistemi di sussistenza, medicina, miniere — e infine, puntandosi il pollice contro il petto, aggiunse — ed energia elettrica.
— Hai dimenticato l'amministrazione.
Si voltarono sorpresi verso la porta a fisarmonica che dava nel corridoio. Sulla soglia c'era Lisa, che si appoggiava allo stipite come se stesse per svenire. Era pallidissima. Indossava una tuta nera imbottita cosicché era difficile accorgersi di quanto fosse smagrita.
— Chi ti ha detto di lasciare l'ospedale! — esclamò Kobol, alzandosi di scatto e andandole vicino. Anche Catherine Demain si alzò e la raggiunse. Insieme l'accompagnarono a una sedia.
— Sto bene — protestò Lisa. — Solo un po' debole, dopo tanti giorni di letto.
— Sei venuta fin qui a piedi dall'ospedale? — le chiese Catherine Demain. E, al cenno affermativo di Lisa, aggiunse: — È anche troppo, per il primo giorno. Sei ancora in convalescenza.
Kobol la guardò con un sorriso strano. — Come hai saputo che ci eravamo riuniti qui?
Fissando la sua faccia lunga e malinconica, Lisa rispose: — Il giorno in cui voi potrete riunirvi senza che io venga a saperlo, rinuncerò alla carica di capo dell'amministrazione.
LaStrande, l'uomo che sedeva sul letto, disse serio: — Siamo felici di rivederti in piedi.
— Grazie — disse Lisa. — Martin, poco fa hai commesso un errore. Non sei tu il capo del sistema elettrico, ma Douglas.
Kobol annuì imbarazzato. — Hai ragione, il capo è Douglas… quando è qui. — Aveva una voce nasale, acuta, che diventava stridula quando era agitato. — Ma sono quasi due settimane da che è sceso sulla Terra. E sono tre giorni che manchiamo di sue notizie.
— Tornerà — disse Lisa.
— Certamente, e allora riprenderà il suo posto. Ma finché lui è assente, il capo sono io.
— Infatti — ammise Lisa con un sorriso.
Kobol era alto. Alto quasi quanto Douglas. Cadaverico, pensò Lisa. Sembra una di quelle mummie che gli archeologi hanno dissepolto dalle piramidi egiziane. Per un attimo provò una fitta di rimpianto al pensiero che i templi, i musei, gli scavi, la popolazione dell'Egitto, dell'Inghilterra e di tanti altri paesi non esistevano più, morti, bruciati, fusi dalla furia del sole e dalle vampate ancora più micidiali della rappresaglia umana.
Represse quel sentimento come aveva represso il dolore che le attanagliava il ventre, sforzandosi invece di concentrarsi sui presenti, su quelle persone che si autodefinivano i capi della piccola colonia lunare isolata.
Demain sedeva sul letto con la schiena appoggiata al muro di pietra e le gambe piegate contro il petto, in posizione fetale. Il cranio tondo, calvo, gli conferiva un'aria infantile, ma gli occhi erano astuti. Occhi da contadino, da fattore. E lui è proprio questo, pensò Lisa, anche se la sua fattoria è un complicato sistema di vasche idroponiche alimentate da prodotti chimici, elettricità ed energia solare filtrata dalla superficie attraverso tubature in fibre ottiche.
Sua moglie Catherine lavorava nell'ospedale. Aveva rinunciato a una brillante carriera sulla Terra per seguire il marito sulla Luna.
LaStrande era uno gnomo, semicieco nonostante la chirurgia a laser avesse tentato di guarire i suoi occhi. Ma aveva un carattere energico, portato alla discussione senza tuttavia essere mai offensivo, un genio nel campo della manutenzione e anche in quello del miglioramento dei sistemi di sussistenza.
Blair stava morendo di cancro. Lo sapevano tutti, anche se era bianco e roseo e continuava a lavorare instancabile e sempre di buonumore alle comunicazioni. Marrett era un diamante grezzo, atticciato, con un vocione rimbombante; aveva smesso di fare il meteorologo per passare gli ultimi giorni sulla Luna, e poiché era dotato di talento, era infaticabile e aveva il carisma del capo. Ora dirigeva le squadre dei minatori, cosa non facile dato il carattere aspro e difficile di quegli uomini.
E poi c'era Kobol. Lisa lo guardo. Stava in piedi vicino alla sedia deciso a presiedere la riunione, a impadronirsi del potere per poterli comandare, avido come un bambino che vuole arraffare un barattolo di biscotti.
Cosa penserebbero, si chiese Lisa, se sapessero che è Kobol il padre del bambino che ho perso, e non Fred Simpson? Cosa farebbe Douglas se mai glielo dicessi? Chiuse gli occhi per un istante. Catherine Demain se ne accorse e pensò che dovesse soffrire molto; Lisa, invece, si sforzava di dominare l'ira che provava nei confronti di Douglas, l'uomo che aveva sposato cinque anni prima con l'intenzione di farne un capo, un gigante, un condottiero che fosse in grado di guidare quella minuscola comunità lunare e servirsene come base di lancio per acquistare potere politico sulla Terra.
Scosse la testa nel tentativo di scacciare questi pensieri. La Terra non c'era più. Non restava niente. Non che Douglas avrebbe seguito comunque le sue direttive; si era rivelato troppo cocciuto ed egocentrico per poter essere influenzato da chiunque. Che sbaglio ho commesso!, si disse. E pensare che credevo di potere forgiare quell'uomo mite e semplice per trasformarlo in un capo… Ma anche lui se n'è andato. Non tornerà. Probabilmente a quest'ora è già morto. Cosa strana, questo pensiero la rattristò.
— …e se la produzione idroponica potesse essere aumentata del quindici per cento — stava dicendo Kobol con la sua voce stridente — saremo in grado di tirare avanti senza importare viveri dalla Terra, per un tempo indefinito.
Se la popolazione lunare non aumenta, pensò Lisa.
Demain continuava a sollevare e abbassare la testa sulle ginocchia contratte. — Lo posso fare — disse con voce appena percettibile. — Posso, se mi date più spazio e più energia. Occorre energia.
— Possiamo scavarti tutto lo spazio che ti occorre — disse Marrett.
— Ascoltate — intervenne LaStrande agitando una mano per richiamare l'attenzione. — So come possiamo risolvere il problema dell'energia. I margini di sicurezza che abbiamo stabilito per l'alimentazione dei sistemi di sussistenza sono ridicolmente larghi. Posso fare funzionare i sistemi di aerazione e riscaldamento con metà dell'energia che viene fornita attualmente.
— Metà? — lo interruppe Kobol. — Ne sei certo?
LaStrande lo sbirciò con gli occhi miopi. — Se dico che posso, posso. I riciclatori non hanno bisogno di tanta energia. Non c'è motivo perché non la si possa dirottare nell'idroponica.
Kobol si fregò il mento, pensoso.
Lisa sorrise fra sé. Anche lui non è facile da plasmare, pensò, ma almeno vuole il potere. Ha quell'ambizione che manca a Douglas. Ma è infido. Come un serpente. Non sfiderebbe mai apertamente Douglas. Però non ha esitato a infilarsi nel mio letto quando l'ho invitato a farlo. E adesso sta cercando di ottenere il comando della comunità.
Con un sospiro di rimpianto, Lisa si disse che ormai questo era tutto ciò che le restava. Martin può diventare un capo, e io lo manovrerò.
— Allora è tutto sistemato — stava concludendo Kobol. — L'energia in sovrappiù verrà immessa negli impianti idroponici. Marrett, i tuoi minatori dovranno provvedere subito ad ampliare il reparto idroponico. Jim…
Ma Blair e gli altri non gli badavano. Guardavano verso la porta. Lisa si voltò e vide sulla soglia una giovane in tuta. Era un addetta alle comunicazioni.
— Sì? Cosa c'è? — le chiese Blair.
La faccia della ragazza era rossa per l'eccitazione. Entrò nella stanza, si fece strada fra Kobol e la sedia di Lisa e porse a Blair un foglio di sottilissima plastica, il materiale riciclabile che, sulla Luna, sostituiva la carta.
Blair lesse il messaggio, e s'illuminò in viso.
— È di Douglas — disse, rileggendo il foglio come se non riuscisse ancora a credere a quello che c'era scritto. — Sta tornando. Arriverà fra quarantacinque ore.
Le sue parole furono accolte da mormoni di sorpresa. Lisa provò un assurdo senso di gioia che la irritò. Idiota!, si disse con rabbia. Douglas rovinerà tutto. Tutto.
Ma nonostante questo era contenta. Kobol era impallidito.
— E non è tutto — riprese Blair. — Douglas dice che porterà altre venticinque persone… la maggior parte in pessime condizioni, per cui dovranno essere subito ricoverate.