Passarono cinque anni. La comunità lunare crebbe. I minatori scavarono senza sosta la roccia, ampliando con quanta più celerità potevano le istallazioni. La roccia scavata, fusa col laser o fatta esplodere per ottenere spazio sottoterra, divenne materiale grezzo per le fabbriche. Dalla roccia si ricavarono alluminio e vetro, silicio per i pannelli solari, ossigeno per il sistema di sussistenza, elementi con cui produrre, sinteticamente, concimi e vitamine. Dal suolo scavato in superficie dai bulldozers si ricavò ferro meteorico, carbonio, l'idrogeno incastrato nel terreno dall'incessante vento solare, quell'idrogeno che, unito all'ossigeno, fornì l'acqua, l'elemento più caro e prezioso sulla Luna.
Molte spedizioni scesero sulla Terra. Dapprima ogni due o tre mesi, poi due all'anno e infine una all'anno. Modificarono i razzi da trasporto costruiti sulla Terra in modo che funzionassero con un nuovo carburante a base di alluminio e ossigeno. Spesso facevano tappa sulla gigantesca stazione spaziale che continuava ancora a orbitare a poche centinaia di chilometri dalla Terra. Il personale della stazione era stato ucciso dall'esplosione solare, e molte apparecchiature elettroniche erano state gravemente danneggiate. Nella stazione c'erano quattro navette, che la catastrofe aveva risparmiato e con le quali era possibile andare e tornare dalla Terra.
Le prime spedizioni consentivano l'approvvigionamento di medicinali, sementi, parti elettroniche, fertilizzanti e bombole di azoto. E superstiti. Pochi uomini e donne affamati, stracciati, malati, che erano riusciti a farsi passare come abili tecnici utili alla comunità lunare.
Fu la sesta spedizione a incontrare per la prima volta una resistenza armata. Dodici uomini vennero uccisi o abbandonati. Quattro furono ricondotti sulla Luna feriti. Kobol, che guidava la spedizione, riportò una ferita d'arma da fuoco alla coscia, in seguito alla quale rimase lievemente zoppo.
Dopo questi «incidenti», le spedizioni diminuirono, e ogni volta si cambiò il punto di atterraggio. Bande di saccheggiatori si radunavano nell'antico Centro Spaziale Kennedy, per tendere un'imboscata alle navette che scendevano sulla pista lunga cinque chilometri.
Ma scegliere i punti adatti dove atterrare non era cosa facile. La maggioranza dei più importanti aeroporti era troppo vicina alle città distrutte perché non sussistesse il pericolo delle radiazioni.
Passarono quattro mesi prima che un'altra spedizione scendesse all'Aeroporto Internazionale Dulles, a più di quindici chilometri dal cratere dove un tempo sorgeva Washington. I membri della spedizione razziarono una base militare che si trovava nelle vicinanze per procurarsi armi e munizioni, stando all'erta nel timore che sopraggiungesse qualche banda di predoni, e con un occhio ai rilevatori di radiazioni che ognuno portava appuntato alla tuta.
Quella spedizione fu una delle ultime. Quando ricorse il quinto anniversario dell'esplosione solare, era passato un anno da quando l'ultima navetta era scesa sulla Terra.
— Perché andarci? — si chiedeva la gente. — Ci sono solo delinquenti e morti. Noi ce la caviamo benissimo qui. Non abbiamo bisogno della Terra.
Douglas tentava di convincerli che erano debitori verso il mondo dove erano nati. — Dovremmo aiutarli a ricostruirlo. Dovremmo stabilire una base permanente sulla Terra, dove la gente possa ripararsi e stare al sicuro, un punto d'appoggio dove sia possibile iniziare la ricostruzione della civiltà.
Sorridevano e si congratulavano con lui per i suoi ideali, ma quando si veniva al voto lo mettevano in minoranza.
Verso la metà del sesto anno inviarono una piccola spedizione che doveva scendere in quello che un tempo era il Connecticut. Fra le colline ondulate della parte occidentale erano annidate tre centrali nucleari perfettamente efficienti e funzionanti; tre centrali che le bombe che avevano distrutto Boston e New York non avevano toccato. La spedizione non incontrò ostacoli, ma trovò scarse quantità di materiale fissile; soltanto uranio, poco, sufficiente a fare funzionare le fabbriche lunari per qualche anno. Al ritorno, due membri della spedizione si ammalarono e poi morirono per effetto delle radiazioni.
— Devo condurre io una spedizione — disse Douglas a sua moglie.
Aveva qualche ciocca grigia alle tempie, ormai, mentre i capelli di Lisa si mantenevano neri e lucidi come sempre. Lei s'irrigidì: alla fine era arrivato il momento del confronto, quel momento che lei aspettava da tempo.
— No, Doug — disse con dolcezza. — Non ti lascerò andare. Sei troppo importante qui.
Stavano seduti uno di fronte all'altra al tavolo da pranzo nel loro nuovo alloggio, composto di tre locali. In qualità di presidente del consiglio, Douglas era stato costretto ad accettare il primo degli alloggi più ampi, che comprendeva un soggiorno dove potevano prendere posto cinque o sei persone, una zona pranzo con annesso cucinotto e una camera da letto di grandezza spropositata.
Douglas allungò la mano sul tavolo di pietra e strinse quella sottile di lei. — Lisa, è inutile discutere. Devo andare. Nessun altro può farlo. Devo assumermi io la responsabilità.
— Hai molte responsabilità qui.
— Se i generatori nucleari non avranno più combustibile, andremo a catafascio.
— Ci sono altri in grado di guidare la spedizione.
— Io sono il responsabile, quindi tocca a me — insisté lui.
Lisa lo fissò a lungo nei gelidi occhi azzurri e capì che non c'era modo di smuoverlo. Salvo uno. Lisa sapeva di avere un asso nella manica, una carta vincente che l'avrebbe costretto a cedere.
— Doug… non parlo per me — disse con un sussurro quasi infantile. — Io… be', aspetto un figlio.
— Sei incinta? — disse lui stupidamente.
Lisa annuì e si concesse un largo sorriso.
— Davvero? — disse lui sorridendo a sua volta.
— L'hanno confermato stamattina le analisi di Catherine.
— Un figlio — disse lui, stringendole forte la mano. — Credi che sarà un maschio?
Lei rise. — Lo spero.
— Un figlio. — Era raggiante. — Andrà bene anche se sarà una femmina. Per me non fa differenza.
Non è vero, pensò Lisa. Come sei trasparente, Douglas… e malleabile.
Lisa aveva temuto che l'allusione alla gravidanza risvegliasse in lui i ricordi di sei anni prima, quando il loro matrimonio era entrato in crisi. Le bruciava ancora la guancia, quando ripensava allo schiaffo che lui le aveva dato. Ma in tutti quegli anni gli era stata fedele, dimostrandosi una moglie modello come si addiceva al capo della comunità, in modo da non destare il minimo sospetto né dare adito ai pettegolezzi che si propagavano con la velocità di un fulmine in quel piccolo mondo. Per quasi sei anni aveva fatto di tutto per renderlo felice. E per quasi sei anni lui le era stato devoto e grato, e senza avvedersene si era lasciato guidare da lei. Douglas Morgan era il presidente del Consiglio, ma chi comandava era Lisa.
— Io, Doug… — balbettò. — Credi che non potresti rinviare la spedizione finché non sarà nato il bambino?
— Nove mesi? — Il sorriso si spense per lasciare il posto a un'espressione perplessa e pensosa. — Nove mesi — ripete. — Dovrò controllare. Ma il margine sarà molto ristretto.
Ma lei sapeva che avrebbe aspettato. E dopo la nascita del bambino avrebbe trovato un altro sistema per dominarlo. Specialmente se fosse nato un maschio.
Ma aveva fatto i conti senza Martin Kobol.
Cinque mesi trascorsero senza incidenti. Pur brontolando, Douglas rinviò la spedizione sulla Terra. Kobol osservava e aspettava mentre le riserve di carburante andavano lentamente assottigliandosi.
— Di questo passo — disse a Douglas — dovremo ricorrere alle riserve di emergenza fra meno di un anno.
Si trovavano nel piccolo vano che fungeva da ufficio, attiguo alla sala di controllo della centrale nucleare. Attraverso la finestra a vetri piombati, Douglas poteva vedere l'ampio banco di controllo, con le sue file di quadranti e interruttori, a cui sedevano due tecnici stanchi e assonnati. Al di là delle porte di piombo che dividevano il locale si trovava il generatore nucleare che silenziosamente convertiva l'energia degli atomi scissi di uranio in elettricità.
Douglas annuì preoccupato. — Lo so. Dobbiamo andare sulla Terra per procurarci altro materiale fissile.
— E non possiamo aspettare ancora molto — disse Kobol indicando lo schermo del computer che riportava i dati relativi alla quantità del carburante.
— Pochi mesi ancora… — mormorò Douglas.
Kobol si mise a sedere sul bordo della scrivania per riposare la gamba che gli faceva male. — Avremmo dovuto andare tre mesi fa, in primavera. Adesso siamo in piena estate. Fra pochi mesi sarà inverno.
— Conosco le stagioni! — esclamò irritato Douglas.
Kobol chiuse gli occhi per un attimo. Pareva che stesse pregando. — Si tratta di Lisa, non è vero? Vuole che tu aspetti finché non sarà nato il bambino.
— Sono io che voglio aspettare finché non sarà nato — precisò Douglas.
— E intanto finirà il combustibile.
— Non finirà, Martin. Non farmi fretta.
— Doug, si tratta di una cosa molto seria. Se non ti muovi porterò la questione davanti al Consiglio.
— Fallo! — sbottò Douglas.
— Fa' pure tutto quello che credi. Guida tu la spedizione sulla Terra. Ci hai già provato una volta e non ti è andata bene. Vero o no?
Si accorse di avere alzato troppo la voce. I due tecnici avevano alzato la testa e si erano voltati a guardarlo.
Kobol non aprì bocca.
Con un sospiro di esasperazione Douglas lo afferrò per le spalle ossute. — Mi dispiace, Marty. Hai ragione tu. Avremmo dovuto partire tre mesi fa. È che… che Lisa ha perso il suo primo bambino, e le radiazioni che l'hanno colpita… be', voglio restare qui per essere sicuro che tutto vada bene.
Kobol si liberò dalla stretta e si avviò zoppicando alla porta. Senza voltarsi, disse: — Perché questo dovrebbe essere tanto speciale? Lisa ha già abortito tre o quattro volte.
Era una cosa così strana, talmente incredibile, che Douglas credette di avere frainteso.
— Cos'hai detto? — chiese con voce soffocata.
Kobol posò una mano sulla maniglia e si voltò di sbieco per guardarlo. — Questa volta non ha abortito per poterti dominare. Tu sei la marionetta e il bambino il filo.
Douglas si sentì raggelare il sangue. — Cosa hai da dire a proposito di quei tre o quattro aborti? — chiese con voce mortalmente calma.
— Niente — rispose Kobol alzando le spalle. — Non avrei dovuto parlarne. Non sono affari miei.
— Ma sono affari miei, Marty. — Senza avvedersene Douglas gli si avvicinò stringendo i pugni.
— Si tratta… voci che ho sentito — rispose l'altro. — Chiedi a Catherine Demain. Lei sa.
Spalancò la porta, e si avviò di buon passo, lasciando solo Douglas.
— È vero dunque? — disse Douglas a sua moglie.
Lisa era sdraiata sul letto, avvolta in una vestaglia nera. A Douglas pareva più bella che mai, come illuminata da una luce interiore. Si cominciava appena a notare che aspettava un bambino.
Lei si limitò a fissarlo coi suoi occhi da incantatrice, senza rispondere.
— Ho chiesto a Catherine. Lei non voleva ammetterlo, ma finalmente ha ceduto. Quattro aborti nel corso degli ultimi cinque anni. Quattro figli o figlie che avremmo potuto avere. Perché? Perché li hai uccisi?
— Non li volevo — rispose lei con lo stesso tono con cui avrebbe potuto leggere un elenco di numeri. — C erano altre cose più importanti.
— E io ho continuato a preoccuparmi per cinque anni pensando alle radiazioni a cui sei rimasta esposta durante l'esplosione solare… Gesù, Lisa, perché non hai almeno chiesto il mio parere?
— Non era affare tuo. La decisione spettava a me.
Lui si lasciò cadere in fondo al letto, chinando la testa, con gli occhi pieni di lacrime per la delusione. — Quattro bambini — mormorò. — Quattro bambini miei… e non me ne hai mai parlato.
— Avevi cose più importanti da fare che non parlare di bambini — disse Lisa.
Lui si voltò a guardarla. Era calmissima, pienamente padrona di sé.
— Erano miei, vero? Non di Demain o di Blair o del tuo Marty? — sbottò lui con acredine. — O erano di qualche altro? Sai almeno chi erano i padri?
Anche questi insulti la lasciarono indifferente. — Erano tuoi, Douglas. Solo tuoi. Ma la decisione se tenerli o no spettava a me.
Annuendo lui si alzò a fatica, pieno di amarezza, barcollando come se fosse ubriaco.
— D'accordo — disse. — Tu hai preso le tue decisioni. Adesso io prendo la mia. Guiderò una spedizione sulla Terra, non appena sarà pronta. Tu puoi restartene qui a ingrossare fino a esplodere, per quel che me ne importa. Non credo che questo bambino sia mio figlio. Non crederò mai più a una sola parola di quello che dici. Mai più!
Uscì furibondo dalla stanza, e Lisa rimase immobile ad ascoltarlo mentre rovistava per qualche minuto nelle altre stanze, poi sentì la porta che dava sul corridoio aprirsi e quindi sbattere.
Tornerà, pensò. Adesso è arrabbiato ma poi gli passerà. Tornerà vergognandosi di quello che ha detto e io gli chiederò di perdonarmi. Resterà qui finché non sarà nato il bambino. Tornerà. Presto. Non starà via a lungo.
Invece Douglas non tornò mai da lei.
Ci vollero tre mesi per organizzare la spedizione così come la voleva Douglas. Tre mesi di frenetici preparativi di meticoloso lavoro di controllo di tutti i minimi particolari, di incessante addestramento degli uomini che aveva scelto di portare con sé.
Lisa seguì il decollo del razzo da trasporto sullo schermo della sua camera, e quando i razzi si accesero e la navicella si staccò dalla superficie della Luna, provò un'improvvisa fitta lancinante all'addome.
Il bambino stava per nascere, con cinque settimane di anticipo.