8

Era nato in un fosso lungo la strada che serpeggiava attraverso le colline boscose fra Knoxville, distrutta dai bombardamenti, e Oak Ridge, abbandonata dagli abitanti. Sua madre lo aveva abbandonato in una pozza d'acqua piovana sul fondo melmoso del fosso. L'unico gesto misericordioso che aveva compiuto per lui era stato di strappare con un morso il cordone ombelicale e legarlo. Lui non la vide mai.

Sarebbe morto se una coppia di razziatori non fosse passata di lì poche ore dopo. Sarebbe morto se la donna — in realtà una ragazzina in quanto aveva compiuto da poco i quattordici anni — non avesse perso pochi giorni prima il suo bambino di una settimana: e forse fu proprio per questo che lei notò il neonato; e sicuramente fu per questo che lei lo raccolse, nonostante le proteste del suo compagno che le disse: — Lascialo ai vermi!

Ma lei cominciò a piangere, e l'uomo cedette.

I due stavano seguendo una banda di razziatori, una dozzina fra uomini e donne male in arnese che battevano la campagna raccogliendo e rubando tutto quel che di commestibile, indossabile e commerciabile riuscivano a scovare. La banda aveva poche armi, un capo duro e intelligente esperto nel tendere imboscate, e la disperazione della fame. I due avevano cercato di unirsi alla banda, ma erano stati brutalmente scacciati e minacciati di morte se mai si fossero avvicinati troppo. Così si tenevano a distanza, ma seguivano gli spostamenti della banda contentandosi di quello che i banditi lasciavano o dimenticavano. Il che non era molto. Quando la banda assaliva una fattoria o un villaggio, bruciava tutto quello che non riusciva a portare via.

— Sua mamma dev'essere una di loro — disse la ragazza.

— Forse il suo uomo non voleva avere il peso di un neonato, e l'ha costretta ad abbandonarlo.

L'uomo annuì e borbottò qualcosa fra sé. Dare da mangiare a una bocca in più gli pesava. Inoltre il pianto del bambino li obbligava a seguire la banda ancora più da lontano.

Un giorno si allontanò — era passato poco più di un anno — mentre le piogge autunnali cominciavano a spogliare gli alberi. Due settimane dopo la ragazza lo trovò inchiodato a un albero, col ventre squarciato. Dall'espressione della faccia si capiva che l'avevano sottoposto a quella tortura mentre era ancora vivo.

Lei smise di vagabondare e costruì una rozza capanna di sterpi e fango per sé e il bambino. Quell'inverno rischiarono di morire di fame; solo le sue furtive incursioni fra le rovine della periferia di Knoxville li salvarono. La ragazza si arrischiava ad andarci per pura disperazione. Infatti tutti sapevano che case e strade nascondevano insidie mortali. Una morte invisibile aleggiava sulle rovine. Ma lei sgattaiolava nell'ombra, di notte, per prendere le scatolette di cibo sugli scaffali dei negozi abbandonati: cibo che altri non osavano toccare per paura. Una leggenda, forse non creduta ma comunque temuta, diceva che tutto quello che si trovava nelle città era pericoloso, inquinato, "avvelenato". Ma, a volte, la fame e la disperazione la vincono sulle leggende.

Quando il bambino raggiunse i sei anni, lei era già rosa dal cancro. Tirò avanti per altri quattro anni, fra inaudite sofferenze che le deformavano il corpo in modo orribile. Il bambino la seppellì e poi affrontò il mondo con le sue sole forze. Era magro, con la faccia smunta e sapeva solo correre e nascondersi nei boschi.

Dopo avere vissuto per alcuni mesi in completa solitudine, catturando piccoli animali selvatici ed evitando ogni contatto umano, fu catturato da una banda di ragazzi che si era staccata dall'altra, più numerosa, di adulti, e andava in giro a caccia di cibo, divertimento e donne. Quando lo trovarono, aveva un paio di conigli infilati nella cintura dei calzoncini strappati. Il loro primo impulso fu di prendere i conigli e di arrostirlo insieme a loro sul fuoco. Ma il capo, più maturo della sua età, chiese al ragazzetto sparuto come avesse catturato i conigli.

Una volta resisi conto della sua esperienza nel cacciare e sopravvivere nei boschi, lo accolsero nella banda. Fu battezzato "Furetto", in parte per l'aspetto e in parte perché si muoveva furtivamente, ma soprattutto perché uccideva la selvaggina azzannandola alla gola.

E Furetto rimase. A vent'anni era il vicecapo della banda, che ora si componeva di una cinquantina di individui, fra uomini e donne, ed era la banda più temuta delle colline boscose che circondavano Oak Ridge.


La stazione spaziale ruotava in modo da mantenere la gravità a un regolare g. Negli ultimi cinque anni, Alec aveva trascorso almeno un'ora al giorno nella grande centrifuga dell'istallazione lunare, dove il suo peso aumentava sei volte. I muscoli, fatti per la Terra, rispondevano a un g di gravità senza fatica.

Ma qui sulla stazione spaziale, dopo quasi un mese di gravità sei volte superiore a quella della Luna, cominciò a preoccuparsi. La mattina si svegliava stanco e indolenzito. Gli doleva la schiena, il sangue gli rombava nelle orecchie dopo la minima fatica come salire le scale che dal ponte-dormitorio portavano all'osservatorio.

Fortunatamente l'osservatorio si trovava nel mozzo della grande ruota, dove la gravità era zero. Alec si faceva un punto d'onore di restarci il meno possibile: sarebbe stato fin troppo facile consentire al corpo indolenzito di prevalere sulla volontà.

Kobol era già nell'osservatorio quando Alec vi entrò attraverso il portello del pavimento. Stava seduto davanti a un oblò, con la cintura di sicurezza affibbiata in vita, e guardava attraverso un telescopio inserito nella paratia.

L'osservatorio aveva forma circolare ed era dotato di quattro oblò disposti a distanza regolare intorno al perimetro. Il pavimento era quasi interamente occupato da una serie di schermi e di quadri-comando disposti a ferro di cavallo, dove tre tecnici prestavano servizio a turno alle apparecchiature che sorvegliavano la Terra.

Alec risalì fluttuando senza peso e con una spinta del piede richiuse il portello. La spinta lo mandò verso una consolle. Alec ne afferrò il bordo, si diede un'altra spinta e fluttuò verso un oblò.

La vista della Terra così vicina lo lasciò senza fiato. Un'enorme immensità curva, azzurra, striata di bianco abbagliante, in continuo mutamento gli scorreva davanti attraverso gli oblò dell'osservatorio, coi colori che si avvicendavano, e nuove diverse composizioni si offrivano ai suoi occhi attoniti. È così grande!, pensò Alec. E così…viva.

— Quella è la costa orientale del Nordamerica — disse Kobol. La sua voce, simile al suono acuto di un flauto, troppo raffinata per essere sgarbata, aveva però il timbro annoiato di chi deve dare una spiegazione a un ignorante.

— Lo so — ribatté brusco Alec. — È la nostra prima meta.

— Guarda al telescopio, l'ho collegato col mio.

Alec si mise a sedere sul seggiolino girevole e si chinò per guardare dal telescopio alla sua destra.

— Nuvole… — borbottò Kobol.

Attraverso uno squarcio nel biancore, Alec scorse alcune ondulazioni brune e verdi simili a un torrente di lava rappresa sul bordo di una catena montuosa. Ma qui non c'erano crateri. Quelle ondulazioni erano creste impervie alte centinaia di metri. Così almeno gli avevano detto.

— Là… nella spianata…

Alec scorse una specie di X obliqua, grigia.

— Quello è l'aeroporto — disse Kobol mentre le nuvole tornavano a coprire il panorama. Alec si staccò dal telescopio, e si voltò verso di lui. — Il complesso di Oak Ridge — stava spiegando Kobol — dista pochi chilometri dall'aeroporto. Se è ancora intatto troveremo materiali fissili grezzi e raffinati sufficienti per almeno cinquant'anni.

Alec annuì, poi si diede una spinta e arrivò alla consolle. — Attività nella zona? — chiese al tecnico seduto nella sedia di mezzo.

— Non molto… per lo meno a quanto possiamo vedere. Niente veicoli, ovviamente, e neanche fuochi o segni di vita rilevabili con gli infrarossi. La zona è boscosa, non credo che si riescano a distinguere le persone che vi si possono trovare, tanto più che non dovrebbero essere molte.

— Siamo in grado di far fronte a un numero esiguo di malviventi. Voi state all'erta. Cercate di scoprire se in quella zona si aggirano gruppi più numerosi.

Il giovane sorrise: — Sissignore.

Il sorriso irritò Alec. Avrà un anno o due meno di me, ma io sono il capo, per ordine del Consiglio, e lui mi chiama "signore". Non avrebbe sorriso così a Kobol.

Poi si accorse che Kobol lo fissava impassibile al di sotto delle folte sopracciglia e, sempre più irritato, si spinse fino al portello, e lasciò l'osservatorio.


— E io dico di andare adesso!

Si trovavano nella piccola sala mensa della stazione spaziale, che serviva anche per le riunioni. Nell'angusto locale dalle pareti metalliche c'erano solo quattro tavoli, e a quell'ora della notte gli altri tre erano vuoti.

Seduti intorno al tavolo insieme ad Alec, c'erano Kobol, Ron Jameson e Bernard Harvey. Jameson era uno dei pochi militari di carriera della base lunare, esperto in armamenti e tattica, che prestava servizio sulla Luna già da vent'anni quando si era verificata l'esplosione solare. Dopo di allora aveva preso parte a tutte le spedizioni che erano scese sulla Terra, e adesso aveva la funzione di aiutante di campo, col compito di tradurre i progetti strategici in ordini per gli uomini. Era alto, freddo, asciutto, con occhi grigi risoluti e naso aquilino in una faccia magra da cacciatore. Era un uomo che ben difficilmente si lasciava prendere dal panico. Harvey invece era un Consigliere dalla faccia tonda e molliccia, che sarebbe tornato alla base appena la spedizione fosse atterrata.

— Ma secondo il progetto dovreste partire fra tre settimane — obiettò Harvey.

Kobol unì la punta della dita portandosi le mani davanti alla faccia: — Allora saranno finite le piogge primaverili, il terreno si sarà asciugato e sarà molto più facile attraversare la campagna — disse.

— Se atterriamo all'aeroporto — ribatté Alec — dovremo percorrere solo un paio di chilometri su strada asfaltata. Potremo andare e tornare nel giro di una nottata.

— Ma i piani di battaglia…

— Ron, cosa dicono i piloti? — chiese Alec a Jameson.

— Preferirebbero l'aeroporto. Abbiamo puntato le sonde al massimo ingrandimento sul campo di aviazione come hai suggerito tu. Le piste sono in pessimo stato, ma c'è spazio a sufficienza per le due navette. E comunque è più sicuro l'aeroporto che qualsiasi atterraggio in aperta campagna.

— All'aeroporto le navette saranno come bersagli fissi — obiettò Kobol. — È così che ne abbiamo persa una, l'ultima volta.

— C'è qualche segno della presenza di bande di barbari nella zona? — chiese Alec.

Jameson fece un cenno di diniego.

Battendo l'indice sul tavolo per dare maggiore vigore alle parole, Alec disse: — Le piogge primaverili costringono gli indigeni a starsene chiusi nelle loro tane. Impediscono che si spostino. Fra tre settimane invaderanno le foreste e noi dovremo farci strada combattendo all'andata e al ritorno. Adesso gli unici indigeni presenti eventualmente nella zona sono i locali, e questi non costituiscono una grave minaccia. Inoltre non conta dove atterreremo. Le navette saranno vulnerabili ovunque.

Kobol restò impassibile. Harvey invece era turbato.

— Se andiamo adesso — insisté Alec — atterrando all'aeroporto, possiamo compiere la missione in un paio di giorni al massimo, prima che le orde dei barbari abbiano il tempo di riunirsi e di raggiungerci.

— Ma questo non è il progetto approvato dal Consiglio — protestò Harvey. — È il tuo…

— Il Consiglio mi ha dato il comando, e io decido di partire adesso. Domani, se è possibile. Al massimo dopodomani.

— È un errore — asserì con voce pacata Kobol.

— Può darsi — ribatté Alec. — Ma è uno sbaglio mio.

Rimasero seduti nella luce azzurrina dei tubi fluorescenti senza parlare per qualche istante.

— Va bene — disse poi Alec. — È deciso. Ron, per favore, voglio che gli uomini siano pronti a imbarcarsi al più presto. Informa i piloti e gli addetti alla manutenzione.

Jameson annuì.

Poi, rivolgendosi ad Harvey, Alec continuò: — Se vuoi, puoi riferire al Consiglio.

— Credo che dovrò farlo — disse Harvey visibilmente turbato.

Alec si alzò, salutò con un cenno e lasciò la mensa. Il corridoio principale della stazione era immerso nella penombra notturna. Mentre si avviava verso il suo alloggio, Alec esultava: l'aveva spuntata!


Ci vollero due giorni. Due giorni per controllare le armi, le apparecchiature, gli indumenti e i viveri occorrenti. Due giorni di attenta osservazione delle condizioni meteorologiche del Nordamerica, culminanti con la previsione che a Oak Ridge il tempo sarebbe stato asciutto e limpido. Due giorni di frenetiche comunicazioni fra la stazione spaziale e la base lunare. Gli uomini, prima convinti di avere ancora tre settimane a disposizione, ora disponevano di sole quarantott'ore per comunicare con parenti e amici. Richieste di informazioni da parte del Consiglio. Dati tecnici forniti alla stazione dal computer principale della base. Due giorni di vaccinazioni e controlli medici. Alec rimandò il suo all'ultimo momento, quando tutto era ormai già pronto.

I cinquanta uomini, preceduti dai quattro piloti, si avviarono verso le due navette scivolando lungo gli stretti tunnel d'accesso che collegavano il mozzo della stazione spaziale ai portelli delle aeronavi. Prima salirono a bordo i piloti, in tuta blu, poi i militari, che parevano spaesati nell'uniforme colore oliva e l'elmetto di metallo, coi pesanti zaini sulla schiena e le armi a tracolla.

Alec, galleggiando nell'ambiente privo di gravità davanti al portello principale della stazione, sorvegliava l'imbarco degli uomini che gli sfilavano davanti silenziosi e cupi in volto. L'unico rumore era lo struscio degli stivali. Quando infine l'ultimo fu inghiottito dal tunnel Alec vi entrò a sua volta dandosi una spinta e salì sulla navetta.

Ventiquattro uomini stavano affibbiando le cinghie dei sedili. Zaini e armi erano stati stivati in un altro locale. Alec si soffermò un momento sulla soglia. Aveva ispezionato una dozzina di volte le navette nel corso delle ultime settimane, ma questa era la prima volta che ne vedeva una con uomini a bordo da quando erano arrivati sulla stazione spaziale. I caratteristici odori di plastica e ozono erano sopraffatti dall'odore di sudore e di lubrificante per le armi. Mentre si avviava verso il doppio sedile vuoto a prua del compartimento passeggeri, Alec si rese conto con una stretta al cuore di quanto fossero vecchie le navette. Il pavimento di plastica era logoro, le pareti di metallo così sverniciate da sembrare quasi levigate. Le navette erano state costruite molto tempo prima dell'esplosione solare, e i tecnici lunari avevano provveduto alla loro manutenzione con una cura che rasentava la fede.

Sono il nostro legame con la Terra, pensò Alec. E il nostro unico mezzo per tornare a casa.

Fermandosi nella corsia accanto al sedile sfilò il pesante zaino, chiedendosi se avrebbe dovuto dire qualcosa ai suoi uomini. Sapeva che molti avrebbero preferito che fosse Kobol a guidare la spedizione, e molti avevano criticato anche pubblicamente la sua decisione di anticipare la partenza.

— Buona fortuna a tutti — disse a voce abbastanza alta da farli sussultare per la sorpresa. Improvvisamente fu il silenzio e tutti gli sguardi si levarono verso di lui.

— Se la fortuna ci assisterà — continuò — ci ritroveremo a bordo di questa tinozza fra trentasei ore o anche meno. Per questo ho anticipato la partenza… per potere tornare tutti più presto… sani e salvi.

Gli uomini sorrisero, annuirono e ripresero a parlottare fra loro. Ma parevano più sollevati. Alec si mise a sedere e affibbiò la cintura.

— Separazione fra cinque minuti — disse all'altoparlante la voce del pilota. — Accensione fra sette minuti.

Alec si contrasse involontariamente. Se davvero riusciremo a sbrigarcela in così poco tempo, che probabilità avrò di trovare mio padre? Ma nel suo subconscio sapeva che lui e suo padre si sarebbero incontrati sulla Terra, in un modo o nell'altro. E uno dei due sarebbe morto.


Separazione e accensione avvennero con tale delicatezza che se il pilota non li avesse avvertiti Alec non se ne sarebbe accorto. Non c'erano finestrini nel compartimento passeggeri, e lui percepì solo una leggerissima pressione e la vibrazione dei retrorazzi.

— Siamo in rotta e tutti i sistemi funzionano alla perfezione — comunicò con voce soddisfatta il pilota.

Alec sfibbiò la cintura e si alzò. Tenendosi con una mano al sostegno inserito nella paratia, bussò al portello che divideva il compartimento dalla cabina di pilotaggio.

Il copilota aprì e Alec s'infilò nell'abitacolo gremito di pannelli dove brillavano luci verdi intermittenti, gli schermi proiettavano dati, e quadranti e interruttori circondavano letteralmente da ogni lato i due piloti. Attraverso i finestrini Alec poteva vedere la massa luminosa della Terra.

— Tutto in regola — disse allegramente il copilota. — Rientro fra dieci minuti.

— E la nave di Kobol? — chiese Alec.

— Ci hanno comunicato che tutto fila alla perfezione.

— Possiamo vederli?

— Non visivamente. — Il copilota indicò uno schermo circolare inserito nel pannello fra i due sedili, percorso da un luminoso raggio giallo. In basso a destra c'era un grosso punto, e altri punti più piccoli spiccavano verso il bordo.

— Sono loro, dritto dietro di noi — spiegò il copilota. — Gli altri puntini sono la stazione spaziale e i satelliti più piccoli che attraversano questa zona.

— Capisco.

— Spiacenti di non avere posto per voi qui — disse il pilota senza distogliere lo sguardo dagli strumenti.

Alec afferrò al volo. Comandante o no, a bordo era il pilota a comandare e Alec gli stava fra i piedi. — Quando atterreremo — disse con un sorriso — avrò troppo da fare per ringraziarvi. Così ho voluto farlo adesso.

— Grazie a voi! — disse il pilota con un largo sorriso.

Mentre tornava al suo posto, Alec pensava fra sé: Velocità. Velocità e sorpresa. Se laggiù ci sono dei nemici non dobbiamo dare loro il tempo di pensare.

Tuttavia aveva dei dubbi. E se mi prende il panico? Se al momento di scendere non ho il coraggio di farlo?

Guardò Jameson che sedeva dall'altro lato della corsia, così rilassato da sembrare che stesse dormendo.

Alec si alzò di scatto, e staccò lo zaino dal gancio. Spingendo l'equipaggiamento privo di peso si portò fino all'ultimo sedile, quello più vicino al portello.

— Vuoi andarti a sedere nel primo sedile? — chiese allo stupefatto giovanotto che vi stava seduto. — Porta con te la tua roba.

L'altro obbedì palesemente perplesso, e Alec prese il suo posto.

— Il rientro inizierà fra un minuto. Legatevi stretti — disse l'altoparlante.

Alec scoprì di dovere lottare anche con altre paure. Sentì la navetta forare la pesante e turbolenta atmosfera terrestre e l'impatto con la forza di gravità che gli affondò le cinghie nel corpo diventato improvvisamente pesante. Le mani si erano fatte troppo massicce per afferrare i braccioli. I muscoli del collo e delle spalle furono contratti dai crampi nello sforzo di tenere sollevata da testa. Gli sudavano le mani. La temperatura all'interno della navetta era diventata insopportabilmente calda.

Tutte sciocchezze!, si disse Alec. È colpa della mia immaginazione. Ma tutti, a bordo, sapevano che la superficie esterna della navetta era diventata rovente per l'attrito con l'atmosfera che stava attraversando a grandissima velocità.

È un perfetto bersaglio per il radar, pensò Alec. Chissà se ci sono ancora radar in funzione laggiù?

La navetta sobbalzò e traballò. Alec si sentì sprofondare nel sedile, poi ebbe la sensazione di cadere e gli si contrasse lo stomaco.

— Scusate — disse la voce del copilota, non più allegra. — Stiamo volando negli strati più bassi dell'atmosfera, non è facile filare lisci, ma un po' di sobbalzi non fanno troppo male. Tutto a posto.

Tremando, sudando, sussultando, soffrendo, gli uomini a bordo trascorsero in un atterrito silenzio cinque minuti lunghi come l'eternità.

— Ecco l'aeroporto! Atterraggio fra un paio di minuti. Forse sarà un po' brusco.

Gli sportelli del carrello si aprirono sotto di loro con un rombo terrificante. Nonostante l'addestramento molti furono colti di sorpresa.

— Preparatevi a scendere — gridò Alec per farsi sentire al di sopra del sibilo del vento. — Non appena il pilota darà il via, apriremo il portello e scenderemo.

Si accorsero tutti quando le ruote toccarono terra. La navetta traballò, si sollevò, tornò a toccare la pista, e infine avanzò rullando con un assordande stridio di freni accompagnato dal rombo dei retrorazzi. Poi, d'improvviso, cessarono rumori e movimento.

— O.K. Ci siamo — disse il pilota.

Alec sentì alle sue spalle il cigolìo del portello che si apriva. Aspirò a fondo, quindi afferrò la fibbia dell'imbracatura. Si alzò e afferrando elmetto, zaino e mitra, ordinò agli altri: — Muoviamoci!

L'uomo che gli sedeva di fronte si alzò e spalancò il portello. Alec gli impose con un gesto di stare indietro.

— La scaletta è incastrata — borbottò l'uomo.

Alec annuì, e senza pensarci due volte si portò sull'orlo del portello e saltò giù. Ebbe appena il tempo di rendersi conto di quanto fosse rapida la caduta prima di toccare il terreno con un tonfo che gli fece piegare le ginocchia. Allargò le braccia per tenersi in equilibrio e non cadere. Poi sfilò dalla spalla il mitra e si spostò. Gli altri lo seguirono con una successione regolare di tonfi ed esclamazioni soffocate.

— Bene, sapete dove mettervi — disse. — Sparpagliatevi per formare un perimetro.

Gli uomini si allontanarono di corsa. Qualcuno zoppicava visibilmente. Finalmente la scaletta si aprì e gli ultimi dieci poterono scendere agevolmente. L'ultimo fu Jameson, lindo e azzimato come se uscisse di chiesa dopo un matrimonio… se non fosse stato per l'arma che teneva puntata in avanti, pronta a sparare.

Alec si portò a prua per sorvegliare gli uomini che stavano aprendo il portello della stiva. Notò che il muso e la parte inferiore della navetta erano bruciacchiati e segnati da lunghe striature, a causa del passaggio attraverso l'atmosfera.

E poi, d'improvviso, lo colpì una constatazione: Sono sulla Terra. Mi muovo, sto in piedi, respiro sulla Terra!

Si voltò. Il cielo era grigio, non azzurro, e le nuvole nascondevano il sole. L'aria non era così luminosa come aveva pensato, e quindi non abbassò il visore antiabbagliante dell'elmetto. Non faceva nemmeno tanto caldo, pressappoco la stessa temperatura della base lunare. Ma c'era dell'altro, una cosa strana: l'aria si muoveva attorno a lui e contro il suo corpo come se ci fosse un ventilatore. Qui però era più lieve, più dolce, e a tratti cessava per poi ricominciare, come se giocasse.

La navetta non era atterrata sulla pista sconnessa, ma sull'erba verde che la fianchegiava. Il cemento era spezzato e bucherellato, l'erba corta e irregolare. Il carrello di atterraggio della navetta non aveva riportato danni. Potevano ripartire.

L'area intorno all'aeroporto era completamente libera e sgombra. Si aveva l'impressione che la terra continuasse all'infinito. L'orizzonte era molto più lontano di quanto Alec avesse immaginato. In distanza si scorgeva una linea di verdi colline ondulate.

— Alec. — Era Jameson, che lo aveva raggiunto.

— Il perimetro è stato completato, e il materiale pesante scaricato.

— Bene. — Alec controllò l'ora: erano trascorsi cinque minuti dall'atterraggio. — Molto bene. Una ventina di uomini possono sorvegliare il campo muniti solo di armi a mano.

— Osservazione sensata — commentò Jameson, e si allontanò per impartire ordini.

Un acuto stridio lacerò il cielo. Alec guardò in alto e vide la seconda navetta che stava arrivando seguita da una piumosa scia di vapore. Sorvolò una volta il campo, poi scese sul lato opposto della pista, stridendo e rombando, ed emettendo lingue di gas bluastro dai retrorazzi; nel toccare terra sollevò pietre e zolle d'erba.

Appena ebbe finito di rullare Alec si avviò di corsa, ma ancora prima di raggiungerla il portello fu aperto, la scaletta sistemata e gli uomini cominciarono a scendere e a portarsi nelle posizioni assegnate. L'ultima a comparire fu la figura alta e magra di Martin Kobol. Kobol, a causa della maggiore forza di gravità, zoppicava più che sulla Luna.

— Benvenuto sulla Terra! — gli gridò Alec.

Una raffica di mitra sottolineò il suo saluto.

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