17

Quella notte Alec dormì con lei. Senza essersi messi prima d'accordo, si allontanarono insieme dal fuoco da campo e andarono a prendere le coperte sul carro. Fianco a fianco, sempre senza parlare, si allontanarono nel buio.

Lui fu tenero, dolce, gentile con Angela, perché non voleva farle del male. Lei lo tenne abbracciato, lo carezzò, lo baciò, finché tutt'e due scordarono le sue ferite.

Al mattino fecero il bagno insieme in un lago gelido largo parecchi chilometri, e quando si furono vestiti e si avviarono verso l'accampamento, lei disse: — Devi tornare sulla Luna, non è vero?

Alec non riusciva a staccare gli occhi dal bel viso di lei, serio, turbato, incorniciato dai capelli biondi.

— Non senza di te — le rispose.

— Lo so. Dovrò lasciarlo.

— Chi?

— Papà.

— Vuoi dire mio padre.

— Esiste l'incesto fra parenti acquisiti?

— Verrai con me?

— Sì — rispose lei senza esitare, ma a una voce tanto bassa che Alec l'udì appena.

Tornarono all'accampamento. Gli uomini si stavano dando da fare per cuocere le uova prese al villaggio, badare ai cavalli, pulire le armi.

— Ho bisogno di un generatore di energia elettrica per comunicare via radio coi miei. Mi bastano un paio d'ore.

Angela ci pensò su un momento. — Non ci riuscirai senza combattere. Il più vicino, che io sappia, si trova in un avamposto a circa venti "clic" da qui, sulle colline, lontano dalla strada. Se ti aiuto, tornerai sulla Luna?

— Con te?

— Rinuncerai all'idea di procurarti quei materiali e tornerai indietro:

Lui esitò un attimo, poi mentì. — Sì. — Capiva che Angela agiva così per proteggere Douglas, ma una voce interiore continuava a ripetergli: Vuole proteggere te.

Con riluttanza, come se intuisse che qualsiasi cosa avesse fatto avrebbe sbagliato, Angela disse: — D'accordo. Ti dirò dove si trova l'avamposto. C'è una radio che serve a comunicare con la base che dista una cinquantina di "clic".

— Dovrebbe esserci energia sufficiente anche per la nostra radio — disse Alec cercando di parlare con indifferenza.


— Non mi piace — disse Jameson guardando le colline lontane. Annusava l'aria come se sentisse odore di pericolo.

Lui e Alec si trovavano sul limitare di un prato in leggera salita che terminava ai margini di un pendio boscoso. La strada su cui avevano viaggiato era montana, al di là del colle. Il sole era alto, ma tirava un vento freddo.

— Ci siamo inoltrati di parecchio nel loro territorio. Devono sapere che siamo qui, non sono stupidi. E adesso c'inoltreremo ancora di più.

Alec non era d'accordo. — Non ti rendi conto della situazione, Ron. Sì, ci troviamo nel loro territorio, ma guarda com'è vasto. Non hanno uomini bastanti per sorvegliare ogni metro. Noi ci terremo al riparo nei boschi continuando a spostarci, finché non ci manderanno i rinforzi.

Continuando a scrutare in distanza, Jameson ribatté: — E tu pensi che lui lascerà atterrare qualche navetta a meno di cinquanta chilometri dal suo quartier generale senza muovere un dito?

— Prima che riescano a organizzare un'offensiva noi ci saremo impadroniti di una zona abbastanza vasta da consentire alle navette di atterrare e decollare senza pericolo… E prima che riescano a organizzare un contrattacco in forze noi avremo raggiunto la sua base e trovato i materiali.

— Forse… e con un bel po' di fortuna.

— No. Non abbiamo bisogno di fortuna. Solo di uomini e di tempo.

— Bene… — Jameson si voltò per guardarlo e gli tese la mano. — Comunque, auguri. Vai dritto nella tana dell'orso.

Alec gli strinse la mano. — Tornerò domani. E fra un paio di settimane al massimo saremo a casa.

— Già. — La voce di Jameson era atona, come se la parola "casa" cominciasse ad assumere un significato diverso.

Alec ci ripensò quel pomeriggio, mentre lui e Angela cavalcavano nei boschi, risalendo i dolci pendii delle colline, verso l'avamposto.

Casa è la base lunare. Dove si sta al sicuro. Dove c'è mia madre. Ma un'altra parte della sua mente aggiungeva: Dove manca lo spazio, dove tutto è limitato. Dove la vita è rigidamente determinata dalla quantità di aria e acqua disponibili. Dove i colori sono il bianco, il grigio o le tinte pastello. Dove ci si comporta con rigido formalismo e si aspetta il proprio turno nella gerarchia che comanda tutto e tutti.

Girandosi sulla sella per godersi lo splendido paesaggio autunnale della Madre Terra e il fulgore anche più spettacolare del fiammeggiante tramonto Alec capì perché qualcuno dei suoi desiderasse restare lì. Uno stormo di uccelli che volava in formazione a V indusse Angela a commentare: — Sta arrivando l'inverno.

Alec annuì. Gli uccelli si dirigevano a sud. Li seguì con lo sguardo finché non scomparvero nel cielo rosso e viola del giorno morente.

Riprese con uno sforzo il filo dei propri pensieri. Lassù non c'è l'inverno. Come se la cava mia madre? Riesce ancora a dominare Kobol? Il Consiglio continua a esserle sottomesso?

Ma mentre si poneva queste domande Alec si ritrovò a guardare Angela che gli cavalcava accanto, ondeggiando lentamente, semi-assopita mentre il cavallo procedeva sul versante della collina coperto da un tappeto di foglie.

Raggiunsero la sommità dell'ultimo colle, e di lassù Alec poté scorgere l'avamposto. Era piccolo. Non poteva contenere più di venti uomini. Una palizzata di tronchi sormontata da filo spinato lo recingeva. Il cancello era aperto ma sorvegliato da due giovani dall'aria sveglia, con una carabina in spalla.

Anche nell'incerta luce del crepuscolo riconobbero Angela, quando lei si avvicinò.

— Angie! Credevamo che ti avessero fatto prigioniera al villaggio. Ci sono molti banditi da queste parti…

— Sto bene — rispose lei con un sorriso smontando di sella. — I banditi se ne sono andati. Questo è Alec. Viene dal villaggio. Mi ha accompagnato per proteggermi.

I due giovani scambiarono una stretta di mano con Alec. Erano ragazzi, non potevano avere più di quindici anni, ma avevano un piglio sicuro, e nonostante le assicurazioni di Angela scrutarono attentamente Alec.

All'interno del recinto c'erano due vecchi pezzi d'artiglieria montati su ruote di legno, col muso tozzo puntato verso il cielo. Alec aveva visto la foto di quel tipo di armi nei microfilm di storia. Sparavano voluminosi proiettili inerti pieni di esplosivo ad alto potenziale. Accanto ad ogni pezzo c'era un certo numero di bombe. Alec stimò che dovessero occorrere un paio di uomini per sollevarne una. Le contò, erano dodici in tutto. Dovevano essere antiche come i cannoni, e di difficile fabbricazione. Inoltre c'erano molte altre armi più piccole: mitragliatrici piazzate sui muretti, piccoli lanciarazzi, canistri con la scritta INFIAMMABILE dotati di manichette che terminavano con boccagli a forma di impugnatura.

Dissellarono i cavalli e si caricarono in spalla le sacche. In quella di Alec c'era anche la radio. Uno dei ragazzi portò i cavalli in un ricovero coperto pieno di fieno.

L'altro li scortò lungo una stretta gradinata scavata nel terreno, che portava a un complesso di bunker al di sotto dell'avamposto.

Il comandante era un uomo anziano, dai capelli grigi. — Tuo padre ha sguinzagliato dozzine di uomini per cercarti — disse in tono di rimprovero ad Angela, come se parlasse a una bambina scappata nei boschi.

— Allora è meglio che gli comunichi subito per radio che sono qui e sto bene — disse lei.

Il comandante annuì e li accompagnò in sala radio. Le apparecchiature erano antiquate e voluminose. Alec rimase sulla soglia insieme al comandante a osservare il generatore e i cavi di collegamento, mentre Angela diceva al marconista di mettersi in comunicazione col quartier generale. Quando ebbe finito di parlare, si tolse la cuffia e si voltò. — E già uscito con Will Russo — disse rivolta ad Alec. — Gli mandano un uomo per dirgli che sto bene.

— Immagino che passerete la notte qui — disse il comandante senza entusiasmo.

— Sì, preferisco non viaggiare di notte.

Il comandante cedette ad Angela la sua branda, situata in una nicchia della stanza più grande del bunker. Poi accompagnò Alec in un altro locale collegato al precedente da un angusto tunnel basso e lungo pochi metri, dove c'era una fila di lettini, e gliene indicò uno.

Mangiarono nella stanza grande col comandante e gli altri sei uomini. Pareva che tutti conoscessero bene Angela, ma nessuno le chiese cosa fosse successo al villaggio. Dopo mangiato ognuno se ne andò per i fatti suoi. Alec si sdraiò sul lettino e si addormentò subito.

Si svegliò sentendo russare. La stanza era buia. Quando i suoi occhi si adattarono alla luce fievole che veniva dall'imbocco del corridoio vide che gli altri lettini erano occupati da uomini immersi nel sonno, e che in quello vicino al suo dormiva il comandante.

Con circospezione, senza far rumore, Alec si alzò e prese la sacca che aveva infilato sotto al letto. Poi, tenendosi chino, scivolò in punta dei piedi nel corridoio e arrivò nella stanza principale. Era vuota, illuminata da una lampadina nuda appesa a un filo che pendeva dal soffitto. Il generatore ronzava sommessamente, e Alec sorrise a quel rumore amico. Trasse di tasca un orario consunto scritto a mano e controllò con cura i dati. Fra mezz'ora il satellite sarebbe salito sopra l'orizzonte.

Dopo aver esitato per qualche secondo, Alec risalì i gradini di terra e sporse la testa dall'unico ingresso del bunker. Quattro uomini montavano la guardia, annoiati e infreddoliti, e altri due sedevano parlando a bassa voce fra loro accanto al fuoco.

Alec tornò indietro. Angela dormiva dietro la tenda che isolava la nicchia. Tutto andava per il meglio.

Alec tornò nella stanza dove si trovava la radio, e chiuse la porta constatando con disappunto che non c'era serratura. Infine posò la ricetrasmittente sul banco, e la collegò al generatore. Infilò la cuffia e si portò il microfono alla bocca. Aspettò un'eternità prima di udire il segnale automatico del satellite, sui sibili e i crepitii della statica, ma finalmente quell'eternità ebbe termine. — Pronto, pronto — disse senza alzare troppo la voce. — Pronto, satellite, rispondete. Qui Alec Morgan.

Un'altra eternità lunga qualche secondo, poi: — Alec… Alec… Sei proprio tu?

— Sì, mi senti?

— Debole ma chiaro. Parla.

Alec diede le coordinate approssimative della sua posizione, e continuò: — Avverti il Consiglio che mi mandi tutti i rinforzi che può radunare, il più presto possibile. Al massimo entro la settimana. Possiamo localizzare i materiali e prenderli, se fate presto. Di' a mia madre che una mossa decisiva da parte nostra può risolvere tutto per il meglio. Inviatemi batterie, armi e munizioni. Le troverò se potrete lanciarle in un raggio di dieci chilometri dal punto dove mi trovo.

— Va bene, ma…

— Niente ma. Voglio quanti più uomini potete mandarmi. Uomini, armi, veicoli…

— È quello che stavo cercando di dirti. Kobol è partito con cento uomini, un paio di settimane fa — disse la Voce dal satellite. — Autoblindo, razzi, tutto. Con cinque navette.

— Kobol! Due settimane fa? Dove? Dove sono scesi?

— Molto a sud…

— A Oak Ridge?

— No, più a sud. In un posto che mi pare si chiami Florida.

Alec era sbalordito.

— Ehi, Alec, sei ancora lì?

— Sì, sì… ascolta. Riferisci a mia madre che mi trovo a poche ore di marcia dal quartier generale di Douglas, dove si trovano i materiali. Dille che mandi qui i rinforzi. Che ordini a Kobol di farlo, perché io sono ancora il capo della missione, per ordine del Consiglio.

— Sissignore — la voce prese un tono formale.

— Bene, e fatemi avere subito un generatore. È indispensabile che ristabilisca le comunicazioni entro ventiquattr'ore, e senza energia non posso farlo.

— Provvederemo.

Alec chiuse la comunicazione, e rimase lì seduto a lungo, chiedendosi cosa stesse facendo Kobol e perché. Ma era troppo stanco per concentrarsi. Staccò la ricetrasmittente, e uscì lasciando la porta aperta come l'aveva trovata.

Appena entrato nella stanza principale, vide Douglas seduto al tavolo, con accanto Angela, che gli scoccò un'occhiata di fuoco.

— Vedo che ce l'hai fatta a resistere per tutta l'estate — disse Douglas. Sorrideva, ma la voce era mortalmente seria.

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