Prima di rispondere Alec si costrinse ad aspirare a fondo qualche boccata d'aria.
— Credi che abbia deliberatamente saccheggiato l'impianto?
— E chi altri avrebbe potuto farlo? — ribatté Kobol con gli occhi che mandavano lampi. — I barbari non sarebbero in grado di organizzare uomini e attrezzi necessari. Inoltre non sapevano certo cosa fossero tutte queste macchine. Fuggono questo impianto come l'inferno.
Gianelli tirò un calcio al muro. — Maledizione, siamo venuti qui per niente!
— Tuo padre — riprese Kobol, e lo disse come se volesse accusare Alec — sapeva che a noi occorrono quei materiali. Per questo li ha portati via. Vuole farci morire tutti.
— Quanto credi che potranno durare ancora le nostre scorte? — chiese Alec senza alterarsi.
— Un anno. Forse un anno e mezzo. Ma che differenza fa?
— Prima di allora avremo quei materiali. Dovessi mettere sottosopra tutto il pianeta, li troverò.
Kobol si limitò a rispondere con una risatina ironica.
Tornarono lentamente sui loro passi. La stanca marcia degli uomini sconfitti, pensò Alec. Ma in realtà non si sentiva sconfitto, anzi, era eccitato, quasi felice. Mio padre mi costringe a cercarlo. È il suo primo sbaglio.
Si trovavano a metà del corridoio quando l'auricolare di Alec cominciò a crepitare. — C'è qualcuno… verso di noi… — la voce era debole e resa meno comprensibile dalle continue interferenze.
— Cosa?
— …sola persona… a piedi… noi… qui sull'autoblindo…
Alec si mise a correre e quando fu all'aperto e non ci furono più interferenze, sentì dire con chiarezza: — Ehi ma è una ragazza!
Adesso vedevano anche loro la figuretta snella che si avviava in direzione dell'autoblindo, camminando con passo lento, ma deciso. I cinque raggiunsero il mezzo prima di lei.
— È disarmata — disse Kobol.
— E carina — aggiunse Gianelli.
Piccola e magra, indossava una camicia bianca macchiata e un paio di calzoni lunghi che sottolineavano la curva dei fianchi. Aveva la faccia lunga, seria, e gli occhi grandi. La brezza agitava i capelli biondi, e lei continuava a scostare le ciocche che le ricadevano sulla faccia.
— Pare che abbia un motivo preciso per venire da noi — disse Alec.
— Forse si sente sola — sghignazzò Gianelli.
— Non è per te, nasone — lo rimbeccò un altro.
— Non si vede nessun altro intorno — disse Kobol che esaminava col binocolo i boschi circostanti. — Ma in mezzo a quegli alberi potrebbe nascondersi un intero esercito.
Come l'esercito di Annibale al lago Trasimeno, pensò Alec.
Guardò la ragazza che si stava avvicinando. Aveva una faccia volitiva, con la mascella prominente e gli zigomi sporgenti, e un piccolo naso aristocratico. La bocca era una sottile linea, ferma e decisa. Ma gli occhi erano incerti, un po' impauriti.
— Gianelli — sussurrò Alec — tieni d'occhio gli edifici. La ragazza potrebbe essere un'esca.
— Controlla anche sui fianchi — aggiunse Kobol.
— Preferirei guardare quelli di lei — mormorò Gianelli.
La ragazza alzò la mano destra e si fermò a una ventina di passi dall'autoblindo. Alec le andò incontro. Kobol lo seguì.
— Mi chiamo Angela — disse lei, seria, con voce ferma.
— Io sono Alec e questo è…
— Alexander Morgan e Martin Kobol — disse lei.
— Tu conosci mio padre — asserì Alec. Non era sorpreso.
— È lui che mi ha mandato. Per mettervi in guardia.
Per un attimo Alec ebbe l'impressione che il tempo si fosse fermato. Sentiva il calore del sole sul collo e sulle spalle, vedeva il cielo azzurro e il verde primaverile dei boschi in lontananza, sentiva la voce della ragazza, ma era come se lui si trovasse altrove, più lontano della Luna, e osservasse la scena da una distanza enorme.
— Non ci lasciamo spaventare dagli avvertimenti — disse Kobol.
— Aspetta — lo tacitò Alec. — Metterci in guardia da cosa? — chiese alla ragazza.
— C'è una banda di razziatori che sta dirigendosi verso l'aeroporto. Hanno visto atterrare le vostre navi…
— Perché mai dovrebbero attaccarci? Non hanno paura di noi?
Un pallido sorriso aleggiò sulle labbra di Angela. — Paura di una dozzina di uomini? Sapete quanti sono loro?
— Abbiamo armi sufficienti…
— Lo so. Lo sanno anche loro. Ed è proprio delle vostre armi che vogliono impadronirsi.
— Tu menti — disse Kobol facendosi avanti. — Se ci fosse tanta gente da queste parti l'avremmo scoperta coi nostri sensori…
— Non dire stronzate. — La ragazza tornò a rivolgersi ad Alec. — Senti, tuo padre mi ha raccontato tutto della piattaforma che avete su in cielo. Di là non possono vedere chi si nasconde fra gli alberi. Ci sono almeno duecento banditi a pochi "clic" dall'aeroporto. Noi stiamo cercando di tenerli a bada…
— È un trucco — insisté Kobol.
Lei lo guardò storto.
— Dov'è mio padre? — le chiese Alec.
Angela fece un gesto vago con la mano. — Su a nord. A sette o otto "clic" da qui.
— E i materiali fissili?
— I cosa?
Dunque suo padre non le aveva detto tutto. — Le macchine e le altre cose che erano in quei fabbricati. Mio padre li ha portati a nord con lui?
— Non lo so — rispose lei alzando le spalle. — Quelle case sono vuote da anni.
Ci avrei scommesso, pensò Alec, e a Kobol: — Andiamo. Dobbiamo tornare all'aeroporto. Se davvero ci sono centinaia di…
— Forse non è vero — disse Kobol.
— Non mi piace che mi si dia della bugiarda — sbottò la ragazza. — Specialmente da una testa di merda che non sa distinguere un albero da uno stronzo.
Alec si morse il labbro per non ridere. Kobol arretrò di un passo allibito. Era ridicolo, così alto, magro, con elmetto e stivali vederlo arretrare davanti a una ragazzina.
— Andiamo — ripeté Alec sforzandosi di mantenersi serio. — Non possiamo permetterci di ignorare il suo avvertimento. Qui tanto non c'è più niente da fare. Muoviamoci. — Afferrò Angela per un braccio. — Tu vieni con noi.
Lei si divincolò: — Posso camminare da sola.
Senza mollare la presa, Alec le disse: — Saliremo su quel veicolo, così faremo più presto che non a piedi.
Angela smise di protestare.
Quando si furono ammucchiati sull'autoblindo e partirono, Alec chiamò via radio Jameson. — Qui è tutto tranquillo — gli rispose l'anziano militare. — Nessun segno di movimento, fatta eccezione per qualche uccello.
— Controlla col satellite — ordinò Alec. — Di' che scandaglino questa zona coi sensori più sensibili.
— Il satellite si trova dall'altra parte del pianeta. Non ci sorvolerà che fra quattro ore.
— Accidenti — borbottò Alec. — Be', state in guardia. Attenzione alle navette.
— Stai tranquillo — rispose Jameson.
Furetto tremava di eccitazione e di paura accovacciato con gli altri nel bosco a osservare le strane navi ferme sulla pista dell'aeroporto, sorvegliate da un pugno di uomini.
— Ricordate bene — sussurrò Billy-Joe passandosi un dito sulla cicatrice che gli sfregiava il mento, come faceva sempre prima di un'aggressione. — Dopo avere messo fuori combattimento gli uomini, dobbiamo prendere le armi. In fretta. Ci sono una dozzina di altre bande sparse intorno all'aeroporto e tutte vogliono quelle armi.
Furetto annuì e mostrò i denti in quello che per lui era un sorriso. Ma dentro di sé moriva di paura. Una cosa era fare fuori i pochi uomini di guardia alle macchine volanti, ma la vera battaglia si sarebbe svolta fra le bande rivali, una volta eliminati gli stranieri.
Afferra un'arma più svelto che puoi, si disse, e poi nasconditi nei boschi e resta nascosto finché Billy-Joe non darà l'ordine di tornare al campo.
I primi rumori dello scontro raggiunsero l'orecchio di Alec quando erano ancora a diversi chilometri dall'aeroporto.
— Che cos'è?
Era un rumore strano, smorzato, che proveniva dalla parte opposta del colle che stavano per risalire.
Alec stava seduto sull'affusto del laser, con le gambe penzoloni sul bordo della piattaforma girevole. Angela sedeva accanto a lui. Sentendo il rumore la ragazza s'irrigidì. — Mortai — disse. — Will dev'essere entrato in contatto…
— Accelera al massimo! — gridò Alec al conducente.
I motori elettrici cigolarono più forte, ma il veicolo sovraccarico non accelerò di un passo mentre s'inerpicava sulla cresta della collina.
— Will Russo è un amico di tuo padre — gridò Angela per farsi sentire al di sopra del rumore del vento e degli spari. — Guida un gruppo dei nostri qui nei paraggi cercando di tenere a bada i banditi per darvi il tempo di ripartire.
— William Russo — commentò Kobol, accovacciato dietro di loro. — Dunque non è morto. È diventato un traditore come Doug.
Alec si voltò strizzando gli occhi al sole ormai alto. — Sarà meglio alzare le fiancate blindate — disse. — È probabile che questi boschi siano pieni di barbari.
— No, non da questa parte dell'aeroporto — disse Angela.
Fu un tragitto affannoso. L'autoblindo avanzava con lentezza snervante. Gli uomini impugnavano le armi e sbirciavano fra il fogliame. Alec notò che sudavano nonostante il vento fresco che soffiava fra gli alberi.
Ogni tanto guardava Angela. Pareva preoccupata ma non impaurita. Evidentemente, pensò, non si aspetta difficoltà in questo punto, così anche noi non dobbiamo temere. Ma si scoprì le mani viscide di sudore.
Kobol si manteneva in contatto radio con le navi. Alec si era tolto l'elmetto e lo aveva appeso per il sottogola alla ringhiera della piattaforma.
— Conosci bene mio padre? — chiese ad Angela.
Lei annuì. — È anche mio padre.
Alec ebbe l'impressione di avere ricevuto un calcio nello stomaco. Non riusciva a parlare.
— Patrigno — corresse lei accorgendosi dell'effetto provocato dalle sue parole. — Lui e mia madre, prima che lei morisse… — lasciò la frase in sospeso e distolse gli occhi.
Alec si riprese con uno sforzo. Aveva stretto i denti tanto forte che provava un dolore lancinante alla mascellla.
Angela tornò a voltarsi verso di lui. — Amava molto mia madre — disse. — Non è come quando un uomo prende una donna. Erano come marito e moglie. E lui si è preso cura di me fin da quando ero piccola.
Alec non aprì bocca. Il nodo allo stomaco diventava sempre più stretto.
— Vivi davvero sulla Luna? — gli chiese lei.
— Sì — la sua voce risuonò come un gemito alle sue stesse orecchie.
— Ho detto qualcosa che non va?
— No. Niente… È solo che… non mi aspettavo di incontrare una sorellastra. Sarà un bel colpo per mia madre.
— Già, immagino. Capisco.
— Davvero?
— Sì.
— Non credo.
— Ecco l'aeroporto — disse la voce di Gianelli. — Come sono belle le navi!
Alec si alzò in piedi proprio mentre un'esplosione deflagrava fra gli alberi in fondo all'aeroporto levando al cielo volute di rumo nero striate di fuoco. Il rombo assordante lo colpì un attimo dopo con lo stesso effetto di un pugno in piena faccia.
— Si avvicinano — disse Angela. Per la prima volta c'era un'ombra di paura nella sua voce. — Will non riuscirà a tenerli a bada ancora per molto.
L'autoblindo correva lungo la strada e puntava a tutta velocità verso le navi, che scintillavano argentee sotto il sole abbagliante.
Gli altri automezzi dotati di laser erano raccolti a semicerchio al di là delle navette. Per quanto Alec poteva vedere, non avevano ancora sparato.
Alec si voltò al richiamo di uno dei suoi, e vide tre uomini che erano sbucati dalla boscaglia sulla destra delle navi. Anche senza binocolo riuscì a distinguere che portavano un fucile in spalla.
Si fermarono e agitarono in alto le braccia.
— Aspettate! — gridò Angela vedendo che un soldato puntava l'arma contro il terzetto. — Non sparate. È Will! Non sparate!
Prima che qualcuno riuscisse a fermarla saltò a terra e corse verso i tre.
— Non sparate! — ordinò Alec. Si sporse, chinandosi e batté sul tettuccio dell'abitacolo. — Raggiungi quegli uomini — disse al conducente. E agli altri: — Voialtri andate tutti alle navi, eccettuato Kobol. Via!
Dall'espressione si capiva che agli uomini non andava molto l'idea di correre per un chilometro e più allo scoperto, coi boschi così vicini. Tuttavia obbedirono.
L'autoblindo si affiancò ad Angela, che smise di correre, mentre i tre uomini le andavano incontro. Erano vestiti di stracci: calzoni corti sfrangiati che una volta erano lunghi, vecchie camicie grigie sbiadite, uno indossava un gilé, e solo uno aveva gli stivali. Ma le armi erano lustre e tutti portavano in spalla cassette di munizioni.
Alec scese dall'autoblindo. Kobol invece rimase sull'affusto, con lo specchio di rame dell'arma puntato sulla schiena di Alec. Potrebbe farci fuori tutti in mezzo secondo, pensò Alec.
Angela sorrideva come una bambina. Prese Alec per un braccio, come a sollecitarlo a camminare più in fretta.
Uno degli uomini si era fatto avanti e Angela disse: — Alec, questo è Will Russo… Will, Alec Morgan.
— Oh! Così tu saresti il figlio di Doug.
Non c'erano mai stati cani o cuccioli alla base lunare, ma Alec aveva visto molti film per bambini, anni prima, e adesso gli tornò improvvisamente alla memoria l'immagine di un grosso, bonario cucciolo di San Bernardo: ricordava come si fosse imposto su tutti gli altri personaggi col suo entusiasmo ben intenzionato che provocava disastri a non finire. Will Russo era un grosso cucciolo di San Bernardo, allegro, sorridente, dinoccolato. Come tutti gli uomini grandi e grossi teneva le spalle un po' curve per l'abitudine di chinarsi quando si trovava con uomini più bassi di lui. Aveva la faccia tonda, con gli occhi un po' sporgenti, le guance rubizze, capelli ricci rossastri impastati di sudore e un sorriso accattivante.
— È un piacere conoscerti — disse con morbida voce tenorile, ma la mano che strinse con vigore quella di Alec pareva una grossa zampa. — Spiacente di non avere potuto fare di più, ma loro sono molto più numerosi di noi. Se ti pare il caso, potremmo cercare di tenerli a bada ancora per una mezz'ora.
Un'altra esplosione sottolineò le sue parole.
— I boschi pullulano di banditi. Vogliono prendere le vostre armi.
— Perdite? — chiese Angela.
— Qualcuna. Finora abbiamo fatto a spara e scappa. Ma adesso loro cominciano a fare sul serio.
Un'altra esplosione, più vicina, fece rintronare le orecchie di Alec.
— Un momento — disse poi a Russo. — Devo saperne di più su quello che sta succedendo…
— Buon Dio, non è il momento adatto per le spiegazioni. Devi solo…
Alec si piantò i pugni sui fianchi. — Non mi muovo di qui finché non avrò saputo…
Un lungo sibilo lo fece tacere.
— Arrivano! — gridò uno degli uomini.
Russo si buttò su Alec gettandolo a terra. Prima che Alec potesse dire o fare qualcosa una serie di esplosioni scatenò l'inferno. Il suolo tremava, zolle di terra ricaddero su di loro. Alec sentì l'odore acre del fumo.
Stava sdraiato a pancia in giù, con la faccia nell'erba umida. Gli girava la testa, ma si sforzò di sollevarla un po'. Angela era in ginocchio, e un filo di sangue le colava lungo il braccio. Russo, accovacciato sui talloni, le stava vicino.
— A quanto pare hai ragione — disse Russo senza la minima traccia di paura o d'ira. — Ho paura che avrete delle difficoltà per tornare sulla Luna. — Così dicendo indicò l'aeroporto, e Alec vide che una navetta era ormai in preda alle fiamme.