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Ora la grande nave interstellare è immobile, o almeno così sembra a tutti coloro che si trovano al suo interno. In realtà, naturalmente, si trova in orbita attorno al pianeta Terra, dove sta sfruttando la combinazione della sua stessa velocità orbitale con quella della Terra attorno al Sole… nonché il movimento del Sole all’interno della sua galassia, e la costante caduta della galassia verso il suo Grande Attrattore. Se messo in relazione con un riferimento stazionario, il movimento della nave sarebbe simile a quello di un cavatappi; solo che non vi è alcun riferimento stazionario con il quale metterlo in relazione. Comunque sia, per coloro che si trovano all’interno della grande nave è come se questa fosse perfettamente immobile. I motori sono fermi. La spinta non c’è più. L’accelerazione (o la “gravità”) di 1,4 G alla quale i componenti della nave si sono abituati per tutte le loro vite non esiste più, e gli hakh’hli e i loro oggetti galleggiano a mezz’aria. Di conseguenza, ogni movimento viene amplificato. Persino la spinta leggerissima dei rampini magnetici che lanciano il modulo di atterraggio verso la sua rotta viene percepito all’interno della nave. Tutti i 22.000 hakh’hli che si trovano a bordo della nave lo sentono, e tutti quanti gioiscono nel sentirlo. La Terra è il migliore pianeta che abbiano trovato in oltre 3.000 anni di viaggio, e ora è quasi già loro.


Vi erano diverse forze contrarie da contrastare: l’orbita ellittica solare andava trasformata in un’orbita planetaria polare, e la velocità di fuga iniziale andava annullata. I propulsori del modulo di atterraggio stavano spingendo a tutta forza. Dopo circa trenta secondi dal momento in cui il modulo si era staccato dalla nave madre, Sandy iniziò a vomitare. Non poté farne a meno. Non si era mai sentito male in vita sua per il movimento. In verità, non aveva mai provato un movimento del genere, almeno non in uno spazio chiuso.

I sei hakh’hli, il cui orecchio interno era strutturato in maniera completamente differente, non soffrivano di mal di mare. Alla lunga, però, questo particolare anatomico non li aiutava più di tanto, poiché dal momento in cui la navetta avrebbe fatto il suo ingresso nell’atmosfera, i loro corpi sarebbero stati sballottati più velocemente di quanto i loro stomaci potessero sopportare.

Come se tutto ciò non bastasse, all’interno della navetta vi era anche una certa animosità generale nei confronti di Sandy. — Cerca di controllarti, Mingherlino! — sbottò Demmy. — Woof! Augh! — si lamentò Elena.

— Maledizione, Sandy, perché non usi un sacchetto, o qualcosa del genere? — domandò Polly dal suo sedile di pilotaggio. Poi però Polly tacque, poiché erano appena entrati nella fascia dei relitti. Grazie all’approccio programmato erano riusciti a evitare gli oggetti più grandi in orbita intorno alla Terra, ma non vi era la certezza di evitarli tutti. Fortunatamente, la navetta era dotata di un radio localizzatore in grado di individuare qualsiasi oggetto che si trovasse sulla loro traiettoria e di azionare automaticamente i propulsori laterali per evitare la collisione. Quando anche questa misura non risultava sufficiente per l’elevata velocità, entravano in funzione i repulsori magnetici, che attutivano notevolmente l’impatto.

Ciò nonostante, tutti potevano sentire una serie di piccoli ma preoccupanti colpi, come se qualcuno stesse lanciando dei ciottoli sulla superficie esterna della loro navetta. Si trattava di frammenti metallici che colpivano la navetta a bassa velocità. Poi vi erano anche altri suoni, tonfi più deboli e secchi, dati da frammenti ancora più piccoli che riuscivano a perforare la pellicola esterna fissata attorno allo scafo. Un’ape-falco passò davanti alla faccia di Polly, facendola sbottare: — Toglietemi di torno quest’ape! Come cavolo posso pilotare questo arnese se ci sono insetti che mi volano negli occhi?

L’ape-falco però volò via da sola, non appena la navetta compì una secca virata per evitare un altro relitto. Un attimo dopo, si ritrovarono fuori dalla fascia di relitti pericolosi; il modulo di atterraggio imboccò la lunga traiettoria discendente che lo avrebbe portato fino alla pianura la cui immagine radioriflessa era già evidenziata sugli schermi. Per quanto frastornato e nauseato, Sandy percepì che Polly continuava a sibilare con fare agitato. Strano, pensò, poiché quella doveva essere la parte più facile del volo. La loro velocità era già diminuita notevolmente, e i rilevatori automatici avrebbero dovuto compensare tutti i vuoti d’aria e le variazioni di pressione in prossimità della superficie. Solo che, apparentemente, non stavano funzionando. — Per essere solo un piccolo, stupido pianeta — ringhiò Polly — questa tua maledetta Terra ha un clima realmente pessimo! — La navetta sussultò ancora una volta con violenza, come per sottolineare le sue parole. La velocità del modulo di atterraggio hakh’hli era scesa a poco più di cento chilometri orari, ma i venti esterni erano ancora più veloci, e facevano ballare il piccolo velivolo come se fosse un giocattolo.

Più che far atterrare la navetta, Polly la fece praticamente schiantare al suolo. Tuttavia, la navetta hakh’hli era stata costruita per resistere. Non appena toccò terra, i propulsori anteriori si accesero automaticamente per frenarne la corsa, schiacciando tutti i passeggeri contro le reti protettive dei sedili. La navetta si fermò nel giro di poche centinaia di metri, a una certa distanza dalla barriera di alberi spogli e striminziti.

— Siamo arrivati — annunciò Polly.

Non sembrava, però. Anche da fermo, infatti, il velivolo continuava a oscillare nel vento. Polly emise un paio di rutti preoccupati mentre premeva i pulsanti di accensione degli schermi per la visione esterna, che si illuminarono immediatamente sopra il pannello dei comandi. Uno mostrava una simulazione ripresa dallo spazio del punto dove erano atterrati, mentre l’altro mostrava le immagini dal vivo del paesaggio all’esterno della navetta. L’immagine virtuale era glaciale, completamente bianca e statica, mentre quella dal vivo mostrava una scena alquanto movimentata, caratterizzata da una forte pioggia quasi orizzontale e da un bosco di abeti in balia del vento.

La stella a sei punte che indicava la loro posizione si trovava nello stesso punto in entrambe le immagini, e appariva e scompariva a intermittenza per segnalare che l’atterraggio era avvenuto nel punto programmato. — Perché siamo in mezzo a una tempesta? — domandò Obie un po’ intimorito. — Sei atterrata nel punto sbagliato?

— Il punto è quello giusto — borbottò Polly con un tono a metà fra il perplesso e l’irritato. — Ma non capisco dove sia andata a finire tutta la “neve”.


Circa due ore dopo, Sandy si ritrovò davanti allo sportello aperto della navetta con indosso il pesante giaccone e gli stivali da neve. Si toccò la tasca dove aveva riposto la fotografia di sua madre, ma Polly non era certo in vena di sentimentalismi. — Datti una mossa, Mingherlino! — lo spronò, dandogli una leggera spinta.

Sandy si mosse. Mentre usciva si aggrappò alla ringhiera della scaletta. Il dislivello dallo sportello della navetta al suolo era di soli tre o quattro metri, ma nonostante la debole gravità terrestre avrebbe potuto comunque farsi male se si fosse lasciato cadere. Una volta a terra si incamminò verso il retro della navetta, sentendo una leggera zaffata di alcol proveniente dai propulsori. Si orientò, stabilendo la direzione in cui avrebbe dovuto trovarsi la strada più vicina, quindi iniziò a incamminarsi attraverso il fango e la pioggia.

La situazione non era come avrebbe dovuto essere.

Vi era qualcosa di decisamente sbagliato rispetto ai piani originali della missione. Del resto, non vi potevano essere dubbi sul fatto che la regione della Terra sulla quale erano atterrati fosse effettivamente l’Alaska; il dato era stato confermato dagli strumenti di navigazione della navetta. Ma allora perché il paesaggio non era quello previsto? L’Alaska, assieme a tutto il resto del pianeta, era stata osservata e studiata a fondo dagli esperti hakh’hli nel corso della loro prima visita a quel sistema solare. Secondo i risultati di quegli studi doveva trattarsi di una regione fondamentalmente fredda, a parte forse nel corso di un brevissimo periodo estivo o in certi punti particolarmente bassi. Gli studiosi hakh’hli avevano garantito loro che vi sarebbe stata “neve”, ma se una cosa del genere esisteva sulla Terra — e le migliaia di programmi televisivi ai quali avevano assistito sembravano testimoniare che fosse effettivamente così — non si trovava certamente in quel luogo.

In quel luogo infatti non vi era altro che un mare di fango, una temperatura abbastanza elevata da far sudare copiosamente Sandy nei suoi pesanti abiti e una tempesta terribile, accecante e spaventosa.

Una tempesta del genere non poteva essere una cosa di tutti i giorni, si disse Sandy. Nella sua ansiosa ricerca della strada, fu costretto a scavalcare e ad aggirare decine di alberi sradicati; si trattava di alberi enormi, lunghi anche fino a 30 metri dalla cima alle radici incrostate di terra che veniva lavata via costantemente dalla forte pioggia. I crateri lasciati dagli alberi sradicati sembravano essere freschi.

Sandy dovette anche lottare con le piccole bestie volanti che sembravano in grado di penetrare tutti i suoi abiti per pizzicarlo (che si trattasse di “zanzare”?) e a un certo punto iniziò ad avere dei seri dubbi sul suo destino. La situazione era decisamente preoccupante.

Come se non bastasse, Sandy trovava anche che tutto ciò non fosse affatto giusto. Nulla di ciò che gli era stato insegnato nel corso di quegli anni lo aveva preparato a una simile esperienza. Certo, aveva sentito parlare di “condizioni meteorologiche”; si erano tenute intere lezioni in proposito, e i vecchi programmi televisivi registrati erano pieni di informazioni al riguardo, con tanto di mappe con le “isobare”, le “perturbazioni” e così via. Trovarcisi in mezzo, però, non era esattamente la stessa cosa. Né Sandy né nessun altro fra i 22.000 hakh’hli a bordo della grande nave aveva mai provato un’esperienza del genere.

E non si trattava certo di un’esperienza emozionante o interessante per lui. Com’era possibile orientarsi in simili condizioni? Quando aveva studiato il percorso sull’astronave, gli era sembrato piuttosto facile da seguire. Vi erano le montagne, e vi era una valle che vi passava in mezzo. La strada alla quale avrebbe dovuto giungere si trovava esattamente in mezzo alla valle. Ma come poteva stabilire dove si trovavano le montagne se la pioggia gli impediva di vedere alcunché al di sopra degli alberi? Naturalmente, aveva già perso di vista la navetta, che doveva trovarsi alle sue spalle. Sandy si fermò ed estrasse faticosamente la radio dalla tasca interna del suo giaccone. — Sono Sandy — disse nel microfono. — Datemi la mia posizione.

Rispose immediatamente la voce di Tania. — Sei fuori strada — disse seccato. — Devi andare a sinistra di tre dodicesimi. Come mai ci stai mettendo tanto? Dovresti già essere sulla strada asfaltata.

— Credevo di esserci — rispose Sandy amareggiato chiudendo il contatto. Pensò che avrebbe avuto nuovamente bisogno di usare la radio per stabilire la sua posizione, quindi decise di fissarsela al collo con la cinghia, piuttosto che infilarla nuovamente nella tasca interna. Continuando a sudare e borbottando fra sé, riprese il suo faticoso cammino fra il fango, la pioggia e i rami inzuppati d’acqua che gli frustavano il volto in continuazione.

Non si era assolutamente aspettato un simile ritorno al suo pianeta d’origine.


Se le condizioni erano pessime alla luce del giorno, diventarono ancora peggiori non appena cadde la notte. Il sole scomparve rapidamente dietro l’orizzonte, e gli ultimi bagliori del cielo vennero sostituiti altrettanto rapidamente da una minacciosa oscurità. Non vi era alcun tipo di luce. Oscurità completa! Anche questa era un’esperienza completamente nuova per Sandy, e forse si trattava della peggiore in assoluto fino a quel momento.

E fu proprio allora che Sandy scivolò su una pozzanghera di fango particolarmente viscido e si ritrovò a rotolare in un ammasso di cespugli pungenti e inzuppati d’acqua.

Ma questo non era nulla in confronto a quanto scoprì un attimo dopo. Quando prese la radio per ottenere un nuovo rilevamento della sua posizione, si rese conto che non funzionava più. Nel corso della caduta si era bagnata, e ora non dava più segni di vita.

La tempesta proseguiva imperterrita, ma in uno strano, solenne silenzio. Sandy si tastò l’orecchio e si rese conto che anche il suo apparecchio acustico era stato danneggiato nella caduta. Lo estrasse e lo batté ripetutamente sui pantaloni zuppi di pioggia e sudore, ma non servì a nulla. Con un gesto irritato, si infilò in tasca l’apparecchio e si guardò attorno.

Secondo i rilevamenti della navetta, la strada che passava attraverso la valle doveva trovarsi a non più di tre chilometri di distanza dal punto in cui erano atterrati. E non vi potevano essere dubbi riguardo al fatto che, nel giro di cinque ore di faticosa marcia a zig-zag, Sandy avesse percorso un tratto almeno equivalente. Di conseguenza, non vi potevano essere dubbi nemmeno riguardo al fatto che avesse deviato nuovamente dal suo percorso ottimale.

In quel momento, Sandy Washington si rese conto di essersi perso.

Tuttavia, non si trattava di una constatazione molto utile. Non poteva farci proprio nulla. Non vi era modo di tornare alla navetta, poiché a quel punto non aveva la benché minima idea di dove si trovasse. Certo, poteva andare avanti, e in fondo era proprio quello che voleva fare a tutti i costi, solo che a quel punto non aveva più nemmeno una pallida idea di dove potesse essere “avanti”.

Con un po’ di ritardo, ricordò anche che secondo gli studiosi hakh’hli in Alaska vi erano diversi animali selvaggi, alcuni dei quali (si chiamavano “lupi” e “orsi grizzly”) erano anche piuttosto pericolosi per l’uomo.

Sandy si guardò attorno; la rabbia che già provava da tempo iniziò a trasformarsi in paura.

Fu allora che si rese conto che, in lontananza alla sua destra, vi era un punto in cui l’oscurità non sembrava essere così solida e impenetrabile come da tutti gli altri lati. Non si poteva parlare di una luce. Certamente non era nulla di particolarmente luminoso, e mentre guardava si rese conto che era di colore leggermente scarlatto. Comunque fosse, si trattava di qualcosa di diverso rispetto all’impenetrabile oscurità che lo circondava.

Sandy non vide l’edificio finché non vi sbatté contro. La luce che aveva visto in lontananza non era altro che un disco color cremisi appeso sopra la porta d’ingresso che emetteva un debole bagliore simile a quello di una brace ardente. Mentre camminava lungo il muro esterno dell’edificio, sbatté dolorosamente contro qualcosa di metallico dotato di ruote. Che si trattasse di un’automobile”? Sandy sapeva che cosa erano le automobili, ma non ne aveva mai vista una con attaccato dietro uno strumento pieno di punte acuminate. Il dolore gli fece sbattere le palpebre violentemente, ma proseguì comunque zoppicando.

Non appena trovò la porta, la spinse e questa si aprì.

All’interno dell’edificio vi erano altri tre dischi che emettevano lo stesso debole bagliore rossastro fissati sul basso soffitto di un corridoio sul quale si aprivano diverse porte. Sandy sentì dapprima un forte odore di animali, poi percepì del movimento, dei respiri profondi e il suono di mascelle in azione. Non era solo.

Un attimo dopo, nonostante la semioscurità, capì con quali esseri viventi stava condividendo quello spazio. Aveva già visto in innumerevoli film terrestri quegli occhi enormi e pazienti, quelle corna piccole e torte e quel lento e costante movimento delle mascelle. Si trattava di mucche.

Perlomeno una delle sue preoccupazioni maggiori si dileguò. Le mucche, ne era quasi certo, non mangiavano gli esseri umani.

Completamente esausto e letteralmente inzuppato d’acqua, si sfilò il giaccone e gli stivali. Il solo fatto che vi fosse un edificio implicava che vi fossero anche degli esseri umani nelle vicinanze. Sandy sapeva benissimo ciò che avrebbe dovuto fare; doveva trovare gli esseri umani, stabilire un contatto con loro e proseguire nella sua missione.

Solo che in quel momento Sandy era troppo stanco per pensare ai suoi doveri, quindi si accasciò su un mucchio di vegetazione secca che si trovava lì. Pensò che avrebbe fatto meglio a rimanere sveglio per dare il benvenuto a chiunque “possedesse” quelle mucche nel caso che arrivasse lì… Ma proprio mentre ci pensava, la stanchezza ebbe il sopravvento e si addormentò come un sasso.


Si svegliò all’improvviso, rendendosi immediatamente conto di dove si trovava… nonché del fatto che non era solo.

Sbatté le palpebre. Davanti a lui torreggiava una figura con indosso un paio di pantaloncini sfrangiati e lunghi capelli neri. Le rivolse un sorriso imbarazzato, poi fu come se lo colpisse una scarica elettrica che gli tolse il respiro e la parola: la persona che aveva di fronte era una femmina. Una femmina terrestre.

Balzò in piedi, allungando le mani con i palmi verso l’alto per dimostrare che non aveva cattive intenzioni e producendosi subito nel sorriso amichevole e benevolo che aveva provato tante volte davanti allo specchio. Si spazzolò dai capelli alcuni fili di paglia secca, poi riguadagnò finalmente l’uso della parola.

Le labbra della donna però si stavano già muovendo, e Sandy si rese conto solo allora che non aveva addosso l’apparecchio acustico. Infilò una mano nella tasca del giaccone, prese l’apparecchio, se lo cacciò nell’orecchio pregando e… funzionava! — Salve — disse la voce della donna in tono perplesso.

— Salve — rispose Sandy. — Immagino che lei si stia domandando chi sono. Mi chiamo Sandy… cioè, John William Washington — disse. — Sono entrato qui dentro per ripararmi dal temporale. Spero che non abbia nulla in contrario… Vede, stavo facendo l’autostop e mi sono perso…

La donna non apparve per nulla sorpresa. Anzi, l’espressione del suo volto non tradì alcuna emozione. La sua pelle era decisamente più scura di quanto Sandy non si fosse aspettato, e il suo viso appariva impassibile. — Tanto vale che vieni in casa — gli disse. Con questo, si girò e fece strada.

La pioggia era cessata, e il cielo era parzialmente sgombro. Sandy osservò meravigliato le “nuvole” bianche e soffici, il “cielo” azzurro e il verde della vegetazione che lo circondava. Si trovavano in una valle. La navetta hakh’hli non era in vista, ma Sandy riconobbe le montagne che li circondavano, anche se erano un po’ diverse da come le ricordava; probabilmente le stava guardando da un’altra angolazione. — Avanti, entra — disse la donna tenendogli la porta aperta.

— Grazie — rispose Sandy in tono cortese mentre entrava in casa.

Si trovavano in una “cucina”. Sandy si guardò attorno, letteralmente affascinato. Gli odori che percepiva erano stupefacenti. Davanti alla “stufa” vi era un giovane terrestre di sesso maschile che rimestava in una padella bassa qualcosa di sfrigolante. Sotto alla padella vi era una fiamma accesa (una fiamma libera!) La padella era senz’altro la fonte di almeno uno degli odori che percepiva, un odore che risultava allo stesso tempo invitante e disgustoso, ma ve ne erano anche molti altri che Sandy non riusciva a identificare.

Il giovane alzò lo sguardo verso Sandy. — Com’è grosso, mamma — disse. — Credi che voglia anche lui un po’ di uova col bacon?

— Oh, sì — rispose pronto Sandy, collegando finalmente l’odore a quel nome familiare che però, fino a quel momento, non aveva mai avuto alcun riscontro concreto. — Sì, grazie — disse. — Posso pagare. — Frugò in una delle sue tasche alla ricerca di una pietruzza d’oro, quindi iniziò a recitare la spiegazione che gli avevano fatto imparare a memoria. — Sono un cercatore d’oro — disse. — Prendo pietre e sabbia dai letti dei torrenti, poi li setaccio nell’acqua, così se ne va tutto ciò che è più leggero e io rimango con l’oro.

La donna lo fissò con aria un po’ stupita, ma non fece commenti, limitandosi invece a chiedergli: — Vuoi anche delle polpette con le uova?

— Oh, sì, credo di sì — rispose Sandy un po’ dubbioso. Non aveva esattamente idea di che cosa fossero le “polpette”, e quando il ragazzo umano gli mise davanti il piatto, fu ancor meno sicuro di desiderarle. Anche il resto non gli sembrava molto appetitoso. Le “uova” erano dei globuli gialli circondati da una specie di pellicola bianca un po’ marroncina ai margini, e queste erano abbastanza facili da identificare. Il “bacon” era la carne, e in effetti gli era già capitato di vedere anche quello in diversi film. Quindi l’altra cosa doveva essere la “polpetta”, un oggetto rotondo schiacciato di color marrone scuro.

Prese in mano la forchetta con una certa perizia. Le lunghe ore di allenamento in fondo servivano a qualcosa. Tuttavia, quando la infilò nell’uovo il tuorlo si ruppe, spandendo un liquido denso e arancione su tutto il piatto.

Sandy ebbe un attimo di esitazione. Era perfettamente consapevole del fatto che la donna lo stesse osservando con una certa curiosità. Il ragazzo era scomparso, ma Sandy poteva sentire la sua voce proveniente da un’altra stanza. Forse stava parlando con qualcuno. Si fece coraggio e prese con la forchetta un pezzo di polpetta inzuppata di tuorlo d’uovo. Se lo infilò in bocca e masticò.

Sandy Washington non aveva mai assaggiato nulla del genere in vita sua. Non poteva dire che fosse disgustoso, ma allo stesso modo non poteva nemmeno affermare che fosse buono, o anche solo commestibile. A parte il sapore generalmente salato, vi erano un sacco di altri sapori che non aveva mai sentito in vita sua.

Rivolse alla donna un sorriso rassicurante. Fra tutte le nuove sensazioni che stava provando, la più intensa di tutte era certamente dovuta alla presenza di quella donna, alla sua femminilità. Per quel che Sandy aveva potuto imparare fino ad allora sugli standard di bellezza femminile terrestri, quella donna non era affatto bella. Non era nemmeno giovane. Sandy non confidava assolutamente nella sua abilità nel giudicare l’età di un essere umano. Tuttavia, il ragazzo l’aveva chiamata “mamma”, e questo era già di per sé un ottimo indizio, dato che per quel che Sandy poteva stabilire il ragazzo sembrava avere più o meno la sua stessa età.

In quel momento, il ragazzo tornò nella cucina. — Stanno arrivando — disse a sua madre.

Sandy alzò nuovamente lo sguardo verso la donna con aria perplessa, ma questa si limitò a domandargli: — Vuoi del ketchup per le polpette?

— Sì, grazie — disse Sandy appoggiando la forchetta. La donna appoggiò una bottiglia di fronte a lui e rimase in attesa. Sandy la prese con aria incerta. Vi era un tappo di metallo alla sommità della bottiglia, ma questo era un problema conosciuto; prese la bottiglia con una mano, il tappo con l’altra e, con la massima delicatezza possibile, iniziò a tirare e a girare finché il tappo si svitò e si staccò dalla bottiglia.

Davanti a sé aveva un bicchiere vuoto. Sandy versò un poco del denso liquido rosso nel bicchiere, giusto quanto bastava per ricoprirne il fondo. Quando sentì il ragazzo che ridacchiava, si rese conto di aver fatto qualche errore.

In quel momento, venne colto dall’ispirazione. — Devo andare bagno — annunciò, e fu molto felice quando venne accompagnato in una stanza con una porta e una serie di “articoli sanitari”.

Quando ebbe chiuso la porta, si sentì subito meglio. Introdursi fra i terrestri in veste di agente segreto era decisamente più difficile di quanto non avesse previsto.

Del resto, anche il processo di andare al bagno lo era. Gli abiti terrestri erano molto diversi da quelli che aveva indossato per tutta la vita sulla nave, quindi gli crearono non pochi problemi. Poi vi era la questione dei “sanitari”.

Il processo fu piuttosto lungo, ma Sandy non aveva alcun problema per quanto riguardava il tempo. Alla fine riuscì a scoprire come si faceva a svuotare e riempire nuovamente la “tazza” e come ci si toglievano i “pantaloni”. Quando ebbe finito, si fermò a guardarsi nello specchio che si trovava sopra il “lavandino”.

Si tolse con estrema cautela l’apparecchio acustico dall’orecchio e gli diede un’occhiata. Non sembrava danneggiato. Lo asciugò alla meglio con uno degli oggetti di tessuto che si trovavano accanto al lavandino, quindi lo reinserì. L’orecchio gli faceva male, ma non poteva certo cavarsela senza l’ausilio del suo apparecchio acustico.

Il silenzio che regnava all’interno del bagno gli sembrava una vera e propria benedizione. Nessuno gli poneva domande, e non doveva affrontare alcun tipo di esame, dato che non doveva rispondere di niente a nessuno. In quel momento desiderò poter rimanere in quella piccola stanza finché tutti gli altri non se ne fossero andati via, per poi riuscire in qualche modo a tornare alla navetta, alla grande nave madre, a quella vita familiare che era sempre stata la sua vita…

D’altra parte però…

D’altra parte però era finalmente arrivato a casa! Per tutta la sua vita non aveva desiderato altro, e ora era una realtà! Inoltre, aveva già avuto modo di godere della presenza di due veri esseri umani. Certo, vi erano stati dei momenti di imbarazzo e di preoccupazione, ma in fondo gli avevano offerto da mangiare, e questo doveva pur significare qualcosa. In effetti avevano un aspetto abbastanza strano rispetto a ciò che Sandy si era aspettato di trovare, ma per il resto erano stati molto gentili con lui. Gli riusciva difficile credere che appartenessero a quella razza irresponsabile che aveva danneggiato il proprio pianeta fino al punto di ridurlo a un ammasso di rovine…

A quel punto i suoi pensieri si arrestarono di colpo. Sandy si avvicinò alla finestra del bagno.

Aggrottò le sopracciglia. Almeno da quel punto di vista, il pianeta non sembrava affatto in rovina o devastato. Anzi, il grande prato dietro la casa in cui si trovava era verde e pacifico, e ora le mucche con le quali aveva dormito vi pascolavano serenamente.

Tutto ciò era alquanto strano.

In quel momento si rese conto che era rimasto nel bagno per un periodo di tempo piuttosto lungo. Dopo essersi toccato l’apparecchio acustico per vedere se era in posizione, girò con una certa riluttanza la maniglia della porta del bagno.

Fu allora che percepì un nuovo rumore, un suono meccanico che non aveva sentito in precedenza.

Si voltò di scatto, e vide un’ombra che passava sulla finestra. Un attimo dopo vide un velivolo, un “elicottero”, che si posava delicatamente a terra a pochi metri dalla casa. Non appena toccò il suolo, ne balzarono fuori due esseri umani in uniforme.

Quando Sandy fece ritorno alla cucina, i due terrestri erano lì in piedi che parlavano a bassa voce con la donna e suo figlio. — Buongiorno, signore — gli disse uno dei due.

— Lei viene dall’astronave, vero? — domandò l’altro. — Quella con gli strani esseri simili a rane? Bene, devo chiederle di seguirci.

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