Nei progetti della grande nave hakh’hli, ben sette dodicesimi del volume del settore riservato ai propulsori vengono descritti come “serbatoi carburante”. Solo che in realtà le cose non stanno esattamente così. I tre propulsori principali occupano non più di un dodicesimo di un dodicesimo di tutto quello spazio, e il carburante vero e proprio ne occupa ancora meno. Il carburante che alimenta i propulsori hakh‘hli è composto da tre blocchi separati. Ognuno di questi blocchi misura press’a poco quanto la testa di un hakh’hli. Le dimensioni dei blocchi di carburante sono decisamente ridotte, ma nonostante ciò i blocchi stessi hanno un peso specifico enorme; ognuno infatti pesa qualcosa come 4·1014 G. Sebbene questi ammassi di carburante siano composti di materia, non si tratta di normale materia barionica, composta solo da particelle quark e antiquark. Il carburante della nave hakh‘hli è composto da ciò che i fisici terrestri chiamano materia “anomala”, ovvero da una combinazione di quark, antiquark e quark “anomali”. Si tratta della sostanza conosciuta dotata del maggior potenziale energetico che esista. Ciò che occupa quindi la gran parte dello spazio del “serbatoio carburante” della nave hakh’hli non è altro che semplice gas di idrogeno, il cui unico scopo è quello di essere sparato fuori dagli scarichi della nave stessa a una velocità prossima a quella della luce, spinto dall’energia prodotta dalla materia anomala. Il resto dello spazio disponibile viene occupato dai contenitori per il carburante. Gli elementi del carburante hanno infatti bisogno di speciali incastellature affinché rimangano in posizione, poiché nonostante abbiano le dimensioni di una palla da basket, sono davvero molto pesanti. Pesano più o meno quanto tutto il resto della nave e, dato che sono quel che sono, non possono assolutamente essere racchiusi in un serbatoio di acciaio zincato. La materia deve essere tenuta assieme da campi elettromagnetici, i quali devono a loro volta essere fissati in qualche modo alla struttura interna della nave stessa. La grande fortuna di coloro che hanno progettato la nave sta proprio nel fatto che i nuclei di carburante non hanno alcun peso nel momento in cui la nave è ferma, come del resto qualsiasi altra cosa che si trovi al suo interno, e che quando invece i propulsori sono in funzione la pressione posteriore esercitata sul nucleo è esattamente identica alla spinta dei motori stessi che fanno muovere la nave. E in questo caso, le leggi di Newton sul movimento uguale e opposto vengono rispettate in maniera perfetta. Quando il nucleo di carburante viene attivato, i quark anomali riscaldano il fluido d’idrogeno, che spinge in avanti la nave stessa mentre accelera, equilibrando le masse contrarie in maniera perfetta. Il carburante a materia anomala dura molto, molto a lungo. Ha alimentato la nave hakh’hli per oltre 3.000 anni, e continuerà ad alimentarla per almeno altri 10.000 prima di esaurirsi. Anzi, a dirla verità non si esaurirà mai. Una delle cose più anomale della materia infatti è che più la si usa, più ce n‘è. E questo è un problema che preoccupa i tecnici e gli scienziati della nave hakh’hli da diversi secoli.
Sandy non aveva mai visto i propulsori principali della nave. Nessuno li aveva mai visti, a parte i tecnici specializzati appositamente generati, che erano gli unici in grado di sopravvivere (anche se non molto a lungo) alle radiazioni, che avrebbero ucciso chiunque altro, hakh’hli o umano che fosse, nel giro di poche ore. Sandy non aveva mai provato il desiderio di diventare un tecnico. Ciò che desiderava era di poter pilotare la grande nave interstellare personalmente. Naturalmente, non aveva la benché minima possibilità di poter fare una cosa del genere. E tantomeno gli sarebbe stata concessa la possibilità di pilotare la navetta, il modulo di atterraggio che lui e suoi compagni avrebbero dovuto condurre attraverso la fascia di relitti spaziali che circondava la Terra per atterrare sulla sua superficie. Il compito di pilotare la navetta spettava a Polly, anche se tutti gli altri componenti della coorte erano potenzialmente in grado di sostituirla. In quanto al simulatore di volo sul quale si addestravano tutti quanti loro… be’, quella era tutt’altra faccenda.
Il motivo principale per il quale Sandy riusciva qualche volta a inserirsi nelle lezioni al simulatore nonostante non fosse previsto un addestramento da parte sua in quel campo era che le simulazioni si tenevano sempre dopo il pasto principale di mezzogiorno, subito dopo il periodo di intontimento. E dato che Sandy era esentato dal periodo di intontimento, riusciva sempre ad arrivare sul posto prima di tutti gli altri. Inoltre, l’istruttore che si occupava delle simulazioni non era certo l’hakh’hli più furbo della nave. Occupava quella posizione solo perché aveva fatto parte dell’equipaggio che si era addestrato per l’atterraggio da qualche parte nel sistema Alfa Centauri. Alla fine non erano mai atterrati da nessuna parte, poiché non avevano trovato alcun luogo abbastanza grande per compiere un atterraggio, ma quell’istruttore rimaneva comunque l’elemento più competente che avessero gli hakh’hli per quanto riguardava il pilotaggio dei moduli di atterraggio. Non era mai stato autorizzato a permettere a Sandy di usare il simulatore, ma allo stesso tempo non gli era nemmeno mai stato ordinato di non lasciarglielo usare. Così, anche in questa occasione, dopo qualche moina, Sandy riuscì a prendere posto nella capsula del simulatore prima di tutti gli altri.
Il “sedile di pilotaggio” del simulatore non era stato costruito per un’anatomia umana, e di conseguenza Sandy si era portato dietro alcuni cuscini per sistemarsi a modo suo sull’inginocchiatoio hakh’hli che si trovava davanti ai comandi. Nel giro di un quarto di dodicesimo di giorno, o meglio, nel giro di circa trenta minuti secondo il suo nuovo orologio da polso terrestre, Sandy riuscì a portare a termine l’intera sequenza di volo, a partire dal “lancio” a repulsione magnetica con cui la navetta veniva sparata fuori dalla sua nicchia all’interno della grande nave interstellare, passando poi attraverso la correzione di rotta che l’avrebbe portata a sorvolare il Polo nord della Terra in una traiettoria discendente, schivando in seguito i vari relitti in orbita, sussultando per l’attrito all’entrata nell’atmosfera e giungendo infine a compiere un decente, o perlomeno non catastrofico, atterraggio su una piatta pianura ricoperta di neve circondata da alte montagne. Nel simulatore sembrava tutto vero. Quando la “navetta” si staccava dalla nave madre, si attivavano dei pistoni che facevano sussultare la capsula come se il lancio fosse realmente avvenuto. A quel punto gli schermi mostravano l’oscurità dello spazio, il pianeta verde sottostante e l’immagine della grande astronave che si allontanava sempre più. Quando Sandy la faceva “virare”, gli stessi pistoni inclinavano la capsula in modo tale da fornire esattamente le stesse sensazioni fisiche che si provavano in una vera virata, grazie anche alle immagini delle stelle sugli schermi che sfrecciavano via di lato. I pistoni agivano anche per suggerire i terribili scossoni dell’ingresso nell’atmosfera terrestre, e facevano altrettanto in fase di atterraggio. Una sessione con il simulatore corrispondeva più o meno a quello che poteva essere una buona partita di videogame terrestre per qualsiasi giovane adulto, solo che era molto meglio. Tuttavia, per Sandy non era sufficiente. Quando fu costretto a uscire per fare spazio al primo vero candidato al pilotaggio della sua coorte, era di pessimo umore. — Non capisco proprio perché io non possa pilotare la navetta — si lamentò con Polly… scioccamente, poiché questa gli rifilò subito un forte pizzicotto.
— Perché sei troppo piccolo, e troppo maldestro, e anche troppo stupido! — gli disse. — Ma ora fatti da parte che devo entrare io.
Sandy le rivolse uno sguardo di odio mentre entrava nella capsula. Obie gli toccò la base del collo in un gesto di solidarietà. — Se fosse per me — disse — te la farei pilotare. — Sandy scrollò le spalle. Sapevano benissimo entrambi che l’unico momento in cui Obie avrebbe potuto sperare di influenzare in qualsiasi modo il resto della coorte era ormai passato, assieme al suo breve periodo di fertilità. — Be’ — aggiunse Obie in tono amichevole — vuoi fare qualcos’altro? Io sono l’ultimo a provare; dovrò aspettare almeno un dodicesimo e mezzo prima che venga il mio turno.
— Fare che cosa? — domandò Sandy.
— Potremmo vederci un film terrestre — propose Obie. — C’è un episodio di Star Trek che vorrei rivedere. Mi piacciono quelle buffe astronavi.
— Niente da fare — ribatté Sandy con tono convinto. Non era assolutamente interessato a un film terrestre pieno di astronavi inesistenti; se doveva occupare il suo tempo libero guardando un film, doveva essere uno di quelli pieni di ragazze carine con abiti succinti. Oppure…
Si guardò attorno con aria pensierosa. Gli altri quattro in attesa avevano iniziato una partita al Gioco delle Domande (tutti i 53 stati degli Stati Uniti d’America, in ordine, da sinistra verso destra, a partire da Guam fino a Puerto Rico) ed era più che evidente che non ci tenevano a far entrare anche Sandy e Obie nella partita. Nessuno sembrava interessato allo schermo per le comunicazioni. — Be’ — disse infine Sandy — a dir la verità ci sarebbe un film che non mi dispiacerebbe rivedere. Solo che non è un film terrestre. È hakh’hli.
Obie dovette faticare non poco per trovare i vecchi nastri richiesti da Lisandro, ma quando infine le immagini apparvero sullo schermo, anche gli altri membri della coorte rinunciarono subito al loro gioco per farsi attorno. Sandy non gradì in modo particolare quest’ultimo fatto. Ciò che stavano per vedere era una sua faccenda personale, tanto che in altre occasioni aveva sempre guardato quel filmato in privato, senza nessuno attorno che potesse interferire nel suo personale e immancabile struggimento.
Si trattava della registrazione della scoperta dell’astronave terrestre alla deriva, avvenuta mezzo secolo prima. Il filmato iniziava mostrando il momento in cui l’oggetto era stato individuato, in orbita attorno al pianeta Marte. Poi le immagini della piccola nave crescevano gradatamente, man mano che l’enorme vascello hakh’hli si avvicinava per un’investigazione più dettagliata.
Invece di lanciare una navetta di ricognizione, in quell’occasione gli hakh’hli avevano deciso di mandare una semplice sonda telecomandata per capire esattamente di che cosa si trattasse. Le immagini captate dalla telecamera della sonda mostrarono la nave terrestre che si ingrandiva fino a riempire completamente lo schermo, fornendo finalmente un’idea più chiara della forma del veicolo spaziale; si trattava di una specie di siluro, con un grosso tubo di scarico a un estremità e un cono trasparente all’altra. E al di là della superficie trasparente del cono…
Dietro alla superficie trasparente vi erano due figure che indossavano tute spaziali. Erano immobili, e non si riusciva a vedere nulla al di là dei visori specchiati dei loro caschi.
— Quale dei due è tua madre? — domandò Obie in tono amichevole.
— Come diavolo faccio a saperlo? — ribatté Sandy con rabbia. Ciò nonostante, in realtà credeva proprio di saperlo. La figura a destra era leggermente più piccola rispetto all’altra, e sulla sua tuta vi era una specie di stemma con un sole esploso. E Sandy sapeva che le femmine della Terra erano decisamente più portate agli abbellimenti personali di quanto non lo fossero i terrestri di sesso maschile.
Subito dopo, apparve sullo schermo un improvviso raggio di fuoco rosso, evidentemente proveniente dalla sonda. Il raggio colpì la superficie della nave terrestre con un lampo bianco-dorato. Sandy trasalì, anche se sapeva che non si trattava di un attacco, bensì di una normale misura precauzionale hakh’hli, che consisteva nel provocare con un laser un piccolo foro nella chiglia della nave terrestre al fine di analizzarne la composizione e avere la certezza che non si trattasse di nulla di pericoloso prima di avvicinarsi ulteriormente con la grande nave madre. Il bagliore comunque si spense in un istante e la sonda iniziò a girare con estrema cautela attorno alla nave, prima lungo i lati e poi sopra e sotto. Le immagini mostravano anche le stelle sullo sfondo, e ogni tanto si vedeva il disco color ruggine del pianeta Marte o addirittura qualche bagliore di luce solare riflessa dalla superficie della grande astronave hakh’hli, sospesa nel vuoto a svariati chilometri di distanza. Sandy vide il rampino magnetico che veniva lanciato dalla sonda, il suo lungo cavo flessibile che si infilava dietro la chiglia dell’astronave terrestre alla deriva.
A quel punto, lo schermo si annerì.
— Tutto qui? — domandò Tania. — Non si vedono le immagini dell’interno dell’astronave?
— Non in questo nastro — disse Obie. — Però ce n’è un altro. Sandy, vuoi che lo vada a prendere?
Sandy scosse il capo. — No, non ti disturbare — disse. Ma in realtà non era certo il disturbo di Obie che lo preoccupava. Ciò che gli dava realmente fastidio era l’idea che tutti gli altri rimanessero lì a guardare dietro la sua spalla mentre osservava la registrazione in cui la nave dei suoi genitori veniva esaminata e controllata a fondo da un gruppo di hakh’hli in tuta spaziale. In quel nastro infatti le goffe figure che erano i suoi genitori venivano trattate dagli hakh’hli come se fossero delle bombe a orologeria in procinto di scoppiare da un momento all’altro, e Sandy non aveva mai gradito molto quelle particolari immagini. In verità le persone all’interno delle tute spaziali terrestri non venivano mai inquadrate nel filmato, ma le immagini mostravano comunque i due corpi inanimati che venivano trasportati con estrema cautela nel Laboratorio di Genetica, dove erano stati messi in quarantena per le analisi del caso. Il secondo filmato terminava nel momento in cui le porte del laboratorio venivano chiuse, ma Sandy non gradiva guardarlo circondato da un simile pubblico. In ogni caso, venne salvato dalla porta del simulatore che si apriva silenziosamente. — Polly ha finito — annunciò Sandy. — A chi tocca adesso?
Polly era di pessimo umore, e l’istruttore non collaborò certo a migliorarlo. — Quando ti sei staccata dal rampino magnetico eri molto lenta e niente affatto veloce — la rimproverò. — Così facendo sprechi molta energia, quindi in seguito dovrai fare molto meglio e non peggio.
— A me è sembrato abbastanza veloce — borbottò Polly. — Ma se credi che io sia andata male e non sufficientemente bene, perché non proviamo con qualcun altro? Obie! Vieni a provare tu, così si farà un’idea di che cosa sia realmente un cattivo pilota!
Per sua sfortuna, Obie si comportò più o meno come aveva previsto Polly. Quando uscì dal simulatore di volo, si stava trascinando mestamente dietro la coda. — Molto male e niente affatto bene — sentenziò l’istruttore. — Hai distrutto la nave. Non hai affatto onorato la tua coorte. — Così, mentre Chiappa, che era il prossimo a provare, si accomodava sul sedile ancora caldo e sistemava le cinture di sicurezza, Obie dovette rimanere in silenzio a sorbirsi una lunga predica sul modo in cui aveva trascurato di dispiegare i deflettori, sull’errore di calcolo che aveva compiuto nello stabilire l’angolazione di approccio sul polo terrestre, e infine sull’eccessiva velocità di decelerazione che aveva tenuto nel corso dell’atterraggio.
Non appena la predica fu terminata, Obie si avvicinò a Sandy. — Andiamocene di qui — borbottò in tono cupo.
Sandy non aveva nulla in contrario. — Dove andiamo? — domandò.
— Da qualunque parte — rispose Obie ancora piuttosto abbattuto. — Senti, ormai siamo fuori dalla nostra sezione, giusto?
— Certo che lo siamo.
— Allora perché non ne approfittiamo? Dato che siamo fuori, potremmo dare un’occhiata in giro.
— Dare un’occhiata dove? — domandò Sandy eccitato e già completamente convinto.
— In qualunque posto in cui non siamo stati ultimamente — disse Obie, intendendo chiaramente qualsiasi luogo al quale fosse loro negato l’accesso.
— Non so se possiamo farlo — fece notare Sandy pensieroso. Non si trattava di un’obiezione, ma semplicemente di un modo per mettere in evidenza i fatti, e Obie lo prese come tale. Non rispose nemmeno, limitandosi a fare strada fuori dalla sala del simulatore. Una volta nel corridoio, i due si fermarono per guardarsi attorno.
— Potremmo andare a dare un’occhiata alle cose che stanno costruendo per farcele portare sulla Terra — propose Sandy.
— No, aspetta un attimo! — esclamò Obie. — Magari possiamo anche andare lì più tardi, ma prima voglio vedere se hanno prodotto qualche nuovo essere strano nel Laboratorio di Genetica! Andiamo!
Non si trattava esattamente di ciò che Sandy aveva avuto in mente. Il Laboratorio di Genetica era un luogo pieno di alambicchi e puzze strane, e di solito lui non ci andava mai. Tuttavia, mentre tentava di spiegarlo a Obie erano ormai sulla strada, e comunque fosse Obie stentava a capire le sue ragioni. — Non ho capito bene perché non ti piace quel posto, Sandy — disse.
— Te l’ho appena detto — ribatté Sandy. — C’è mia madre lì dentro.
— Oh, Sandy — lo rimproverò Obie contraendo i pollici in un gesto di disaccordo. — Non si tratta veramente di tua madre, e questa cosa la sai benissimo anche tu.
In effetti, Sandy lo sapeva. Gli hakh’hli non avevano fatto altro che prendere dal cadavere di sua madre qualche microorganismo e qualche campione di cellula, e in effetti anche se questi erano ancora in vita sotto forma di colture, si trattava semplicemente di scienza.
Tuttavia, Sandy non riusciva a vedere la cosa in modo tanto distaccato. Per lui non si trattava affatto di semplici colture, bensì di sua madre; anche se non era viva, non si poteva nemmeno dire che fosse del tutto morta.
— Davvero, Sandy — continuò Obie. — I campioni che ci sono lì dentro non sono lei. Sono solo colture. Il resto del suo corpo è stato dato in pasto ai titch’hik da tempo ormai.
Sandy trasalì. Il pensiero che il corpo di sua madre fosse stato divorato gli dava ancora più fastidio dell’idea che alcune sue parti fossero state conservate. Non erano tanto i metodi di “sepoltura” degli hakh’hli che lo disturbavano. Fin dalla più tenera età, era sempre stato consapevole del fatto che il destino finale di tutti gli esseri viventi della nave era quello di essere gettati nelle vasche di quelle bestie, per certi versi simili alle stelle marine della Terra, chiamate titch’hik. I titch’hik erano in grado di consumare rapidamente qualsiasi tipo di carne, lasciando solo le ossa, e quando erano cresciuti a sufficienza venivano dati in pasto a loro volta agli animali da macello, gli hoo’hik, per i quali rappresentavano un’ottima fonte di proteine. In quanto alle ossa rimaste, queste venivano triturate e usate come sostanze nutritive per le piante commestibili e per fornire un ulteriore apporto di calcio alla dieta degli hoo’hik. Nulla veniva sprecato sulla grande nave. Tuttavia, quando si trattava di tua madre… be’, le cose erano un po’ diverse. Soprattutto quando sapevi benissimo che da qualche parte nel Laboratorio di Genetica vi erano delle provette con colture del suo stesso corpo, che venivano tenute a portata di mano per fare esperimenti genetici.
Obie si fermò a metà della rampa a spirale che portava al livello del laboratorio. — Dici sul serio? — domandò.
— Sì. Dico sul serio.
— Ma è un atteggiamento sciocco! Nel caso che tu non lo sapessi, là dentro hanno anche un sacco di miei antenati.
— Non è possibile — ribatté Sandy con tono solenne — altrimenti tu non saresti nemmeno qui.
— Voglio dire, provenienti dalla stesso lotto di uova. E non ci sono dubbi sul fatto che là dentro ci siano figli miei, lo sai? Anche senza contare quelli fatti con la Quarta Grande Anziana — concluse con un impeto di orgoglio apparentemente casuale.
— Non è la stessa cosa.
— Sì che è la stessa cosa — ribatté Obie irritato. — Allora, vieni con me o no?
Sandy scrollò le spalle e lo seguì, sebbene fosse ancora riluttante. Tuttavia, venne risparmiato. Infatti, davanti alla porta del Laboratorio di Genetica incontrarono un Anziano, che disse loro con aria severa che innanzitutto non vi erano nuovi organismi interessanti prodotti dal laboratorio da vedere in quel momento, dato che il laboratorio stava preparandosi per studiare geneticamente le nuove creature della Terra, cosa che loro avrebbero dovuto già sapere. Come avrebbero potuto produrre piante, hoo’hik o titch’hik più strani del solito o più efficienti in un simile momento? In secondo luogo, proseguì, non vi era proprio alcun motivo per il quale loro dovessero trovarsi lì in quel momento.
I due batterono in ritirata in tutta fretta. — E va be’ — disse Obie con un sospiro. — Tanto tu non volevi andarci comunque. Ma lo so io dove andiamo! Andiamo a vedere che cosa stanno facendo per noi!
Nelle sale dei laboratori di produzione faceva molto caldo, e non solo perché si trovavano nella sezione che era stata lasciata riscaldare durante il passaggio in prossimità del Sole. Qui si producevano oggetti, e di conseguenza vi erano diversi forni e fornaci per produrli.
Sandy era letteralmente affascinato. Nella prima sala vi erano due vecchi hakh’hli che lavoravano a un miscelatore di plastiche, con il quale venivano prodotti tessuti di vari colori e spessori. — Questi sono per te — disse con orgoglio il più anziano dei due. — Queste saranno calze, queste mutande, e questa è una “cravatta”. Ma se volete vedere qualcosa di realmente interessante, andate nella prossima sala.
La sala successiva era realmente interessante, come promesso, ma era ancora più calda di quella in cui venivano prodotti i tessuti. Parte del calore proveniva da una fornace, dove un Anziano verificava il lavoro di due tecnici che stavano maneggiando con estrema cautela un crogiolo. Lo inclinarono lentamente, facendo cadere in un ampio recipiente una fila di piccole gocce arancioni luccicanti. Sandy non riusciva a vedere l’interno del recipiente, ma non appena caddero le prime gocce sentì un violento sfrigolio.
Poi l’Anziano infilò una mano nel recipiente (Sandy sbatté le palpebre, ma evidentemente all’interno del largo cilindro doveva esserci dell’acqua, ancora fredda nonostante le gocce di liquido bollente che vi erano state versate) e ne tirò fuori un paio di sassolini irregolari di metallo giallastro. Se li passò da una mano all’altra emettendo un sibilo di fastidio per la loro temperatura, quindi ne porse uno a Sandy. — Oro — gli disse con orgoglio, usando parole inglesi. — È per te. Lo potrai fcambiare per comprare cofe.
— Sì, per comprare — ripeté Sandy annuendo con entusiasmo. Quante lezioni avevano dovuto sopportare sul “comprare”, lo “spendere” e il “pagare”! La pietruzza d’oro ustionò quasi la mano di Sandy, ma dato che si trattava di una cosa terrestre la tenne ugualmente, rimirandola con una certa riverenza.
— Secondo me comprare è una cosa molto sciocca — intervenne Obie mentre osservava a sua volta con curiosità una pietruzza di quel metallo giallo. Poi alzò lo sguardo, e il viso gli si illuminò per la sorpresa. — Teseo! — esclamò. — Non mi aspettavo di vederti qui!
Evidentemente, nemmeno il giovane hakh’hli si era aspettato di incontrarli lì. Teseo faceva parte delle tre o quattro dozzine di hakh’hli con i quali erano cresciuti, prima che venissero separati quando era stata decisa la composizione definitiva della Coorte Missione Terra.
A quel punto fu anche evidente che l’Anziano non gradiva affatto che loro avessero incontrato Teseo. Si scusò e si portò accanto a uno schermo per le comunicazioni.
— Voi due non dovreste trovarvi qui — disse Teseo con tono asciutto.
— E perché no?
— Perché questi sono gli ordini, ecco perché!
— Questo non è un buon motivo — ribatté Obie con testardaggine. — Ci hanno solo ordinato di rimanere nella nostra sezione, tutto qui. Poi ci hanno ordinato di uscire per andare da qualche parte, e nessuno ha mai detto che non potevamo farci un giro. Tu piuttosto, che cosa ci fai qui?
— Sono venuto per prendere delle cose — rispose Teseo. — Ma ti assicuro che dovrai mandare giù la tua stessa saliva se ti trovano qui.
— E perché mai? Quale grande segreto ci sarebbe qui?
— Non è permesso parlarne — ribatté Teseo seccamente. I due si fissarono in cagnesco, a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro.
Lisandro sapeva bene che non era mai il caso di mettersi in mezzo fra due hakh’hli che stavano per affrontarsi fisicamente, solo che in questo caso si trattava di suoi amici. Obie almeno era certamente suo amico, su questo non aveva dubbi, e in quanto a Teseo era stato quantomeno un suo compagno, prima che il loro gruppo venisse separato dagli altri. Aprì la bocca per tentare di farli ragionare.
Ma non fu necessario. Lo scontro venne fermato sul nascere da una voce gracchiante che proveniva dallo schermo. — John William Washington! HoCeth’ik ti’Koli-kak! — Si trattava della voce di MyThara, e il solo fatto che si fosse rivolta a loro chiamandoli con i loro nomi formali lasciava intendere in che tipo di guai si fossero cacciati. Sandy rivolse un’occhiata di fuoco all’Anziano che aveva fatto la spia, ma non ebbe il tempo per dire alcunché. — Quando l’Anziano ha chiamato non ho voluto crederci, ma invece è proprio vero! — continuò MyThara. — Vi trovate in un luogo dove non dovrefte affolutamente effere! Lifandro, fatti trovare immediatamente nella voftra fezione dormitorio! E in quanto a te, Oberon, torna immediatamente alla fala del fimulatore con i tuoi compagni!
Quando MyThara giunse alla sezione dormitorio della coorte, (vi arrivò ben dopo Lisandro, poiché zoppicava ancora vistosamente) trovò Sandy nel suo angolo di studio che osservava la fotografia di sua madre. Ma non si trattava solo di un semplice stratagemma da parte di Sandy per impietosirla. Quando si trovava in una situazione problematica, infatti, Lisandro provava sempre un certo conforto nel guardare l’unico ricordo che avesse della donna che gli aveva dato la vita. Tuttavia, vi era anche una parte di malizia in quel suo gesto, poiché aveva imparato ormai da molto tempo che l’ira di MyThara per qualsiasi tipo di trasgressione da parte sua poteva essere notevolmente placata se riusciva a farla impietosire almeno un poco.
— Non ferve a nulla, Lifandro — esordì MyThara severamente. — Oggi fei ftato molto cattivo!
— Lo so, MyThara — rispose Sandy in tono pentito. — MyThara? — aggiunse però subito dopo. — Perché ho solo questa fotografia di mia madre?
La tutrice gli rivolse un sibilo di rimprovero, ma Sandy si rese subito conto che aveva abboccato al suo amo. — I coftumi degli hakh’hli non prevedono che le perfone fi tengano fotografie di altre perfone morte — gli ricordò.
— Ma io non sono un hakh’hli!
— Certo che no — disse MyThara comprensiva più che irata. — Infomma, non abbiamo potuto fare di meglio. L’abbiamo trovata nel “portafoglio” di tuo padre. È molto fomigliante, fai?
— Perché, tu hai avuto modo di vederla? — domandò subito Sandy con curiosità.
— Ma certo — rispose MyThara in tono cordiale. — Era molto bella. Per un terreftre, naturalmente. Credo che tu le affomigli abbaftanza.
Sandy le rivolse un’occhiata carica di scetticismo. — Che cosa intendi dire? Lei è così magra, mentre io sono grasso!
— Tu non fei graffo, Lifandro. È folo mufcolo.
— Ma guarda la differenza che c’è fra me e lei!
— Certo che vi è una differenza. La differenza è che tu fei cresciuto qui fulla noftra nave, e la gravità terreftre corrisponde a foli otto dodicesimi della noftra. Fe tua madre foffe crefiuta anche lei fulla nave, farebbe ftata fenz’altro molto più groffa.
— Certo — disse Sandy assumendo un’aria seria. — Capisco perfettamente, ma…
A quel punto MyThara perse la pazienza. — Fandy! — sbottò. — Non credere che non mi fia refa conto di ciò che ftai tentando di fare!
— Scusami? — domandò Sandy lanciandole uno sguardo innocente.
La vecchia tutrice arricciò il naso, dispiaciuta. Sembrava stanca e delusa. — Oh, Lifandro — disse con voce triste. — Come hai potuto?
— Mi chiamo Lisandro — ribatté Sandy, solo per ferire i sentimenti di MyThara.
— Fcuvami — disse MyThara con rabbia, sforzandosi per far uscire il suono giusto. — Voglio dire, scusami. Sono piuttosto stanca, caro Lisandro, ma sono anche molto delusa. Posso raccontarti una ft… una storia?
— Non vedo proprio come potrei impedirtelo — rispose Sandy.
MyThara gli rivolse uno sguardo triste, ma cominciò comunque la sua storia. — Una volta, tanto tempo fa, quando avevo ancora solo metà coda, fuggì una regina di ape-falco. Quefta regina riuffì a nafconderfi fra le pareti e a deporre le fue uova, e cofì fece un fuo nido nella nave del quale neffuno fapeva nulla. — Stava nuovamente iniziando a sbagliare la esse, ma Sandy non ebbe il cuore di farglielo notare. — Pofò anche un uovo di regina, e quando quefto fi fchiuse la nuova regina volò via e fece naffere un altro nido, fempre all’infaputa di tutti. Neffuno fapeva niente di quefti nidi, ma tutti ftavano inifiando a lamentarfi per la prefenza di tutte quelle api. Da dove vengono tutte quefte api-falco? fi chiedevano. E come fanno a fopravvivere, vifto che non ci fono infetti qui?
Si concesse una pausa, assumendo un’espressione particolarmente intensa.
— Poi, un bel giorno, il pilota della nave voleva fare una correzione di rotta. Inferì il comando nell’apparecchiatura di controllo centrale… e quefta non rifpose! La nave non cambiò rotta!
— Caspita — commentò Lisandro.
La tutrice agitò la lingua con fare solenne. — Cafpita veramente — disse. — Naturalmente, a quel punto è entrato in azione il fiftema aufiliario, e il cambiamento di rotta è ftato comunque effettuato. Ma quando i tecnici fono andati a controllare l’apparecchiatura centrale, hanno fcoperto che vi era dentro un nido di api-falco! Il nido aveva caufato un corto circuito. A quel punto, Fandy, non ti immagini neanche quanto abbiamo dovuto faticare, per diverfi dodigiorni, a controllare ogni palmo dei condotti di ventilazione, oltre a tutti i paffaggi! Fummo coftretti a lavorare tutti quanti per un dodicesimo in più ogni giorno finché non abbiamo ripulito tutto ed eliminato anche l’ultimo dei nidi delle api-falco. Capifci la morale di quefta ftoria?
— Certo — disse Sandy prontamente. — O forse no. Non esattamente. Qual è?
Prima di parlare, MyThara toccò il braccio di Sandy con la punta della lingua. — La morale — disse — è che anche le cofe buone poffono danneggiare fe vengono fatte in fegreto. Capisci che cofa intendo?
— Certo — disse Lisandro, sicuro del fatto che glielo avrebbe comunque spiegato.
— Certo che lo fai — sottolineò la tutrice. — La morale è che non devi mai nafcondere un fegreto ai tuoi fuperiori.
Sandy rifletté per un attimo su quest’ultima frase. — Loro però nascondono dei segreti a noi — obiettò. — Non ci hanno mai detto per quale motivo non possiamo più vedere Teseo e gli altri.
— Ma è molto diverfo, non trovi, Lifandro? Voi non avete bifogno di fapere certe cofe. Adeffo almeno non ne avete bifogno, e fe un giorno ne avrete bifogno vi verrà fenz’altro detto. Gli Anziani invece devono fapere tutto, perché alla fine fono loro quelli che devono prendere le decifioni. Non è forfè vero, Lifandro?
— Certo — rispose Lisandro. — Io non prendo mai nessuna decisione. — Tuttavia, non gli sarebbe poi dispiaciuto prenderne qualcuna, almeno ogni tanto.
— Bene — disse infine MyThara. — Allora, quando io non ci farò più, fpero che ti ricorderai ciò che ti ho infegnato.
— Certo che ricorderò — replicò lui, poi si rese improvvisamente conto di quanto gli era stato appena detto. Le rivolse uno sguardo a metà fra l’arrabbiato e l’allarmato. — Che cosa intendi quando dici che non ci sarai più? — le domandò con tono serio.
MyThara mosse un poco la mascella nell’equivalente di una scrollata di spalle umana. — I tecnici del Laboratorio Genetico mi hanno appena riferito che la mia ultima partita di uova era quafi tutta fterile. Ho ricevuto l’ordine di prefentarmi a un’efame di idoneità fifica.
Lisandro rimase sconvolto. — MyThara! — esclamò. — Non possono farti una cosa del genere!
— Certo che poffono, Lifandro — disse la hakh’hli con calma. — E temo anche che non pafferò l’efame, mio caro, e quefto fignifica che andrò a finire nella vafca dei titch’hik.
E naturalmente era proprio così: potevano farlo. Quella sera, quando Lisandro si accucciò per dormire assieme ai suoi compagni di coorte, i suoi pensieri non si concentrarono come al solito sull’imminente sbarco sulla Terra o sulle femmine terrestri succintamente vestite. Al contrario, i suoi pensieri erano molto tristi. MyThara aveva sempre fatto parte della sua vita, e non gli piaceva affatto l’idea che venisse terminata.
Ora l’avventura non gli sembrava proprio più così divertente.