6

Il modulo di atterraggio che porterà la Coorte Missione Terra fino alla superficie del pianeta ha una lunghezza di 45 metri e assomiglia molto a un aeroplanino di carta. È dotato di ali retrattili ad apertura variabile. Quando sarà nell’atmosfera terrestre, le sue ali potranno essere estese a seconda delle esigenze e delle condizioni di volo, allargandosi e mutando gradualmente di forma man mano che la velocità viene ridotta. I propulsori sono alimentati da alcol e perossido di idrogeno. Una volta che la navetta si troverà nell’atmosfera l’ossigeno sarà fornito dall’aria stessa, e di conseguenza il perossido di idrogeno potrà essere risparmiato per le manovre nello spazio. Questo è di notevole importanza per gli hakh’hli, poiché l’alcol e il perossido di idrogeno bruciati dalla navetta non potranno più essere processati nei sistemi di riciclaggio della nave, e di conseguenza dovranno essere recuperati da qualche fonte esterna. La maggior parte del peso della navetta è rappresentata proprio dal carburante, poiché dovrà bastare sia per il viaggio di andata sia per quello di ritorno. Grazie alla sofisticata tecnologia hakh’hli, la struttura della piccola navetta è decisamente leggera: nonostante questo, il peso totale al momento del lancio è di oltre 200 tonnellate. L’atterraggio sulla Terra è relativamente semplice, poiché la gravità di superficie del pianeta è di un solo G, mentre la navetta è stata progettata per atterrare in gravità fino a due G. All’interno vi sono otto “inginocchiatoi “ hakh‘hli; uno di questi però è stato sostituito con una “poltrona” più adatta all’anatomia di Lisandro Washington. Si tratta di una poltrona particolarmente grande, del tipo che viene normalmente riservato agli Anziani, anche se nessun Anziano accompagnerà la coorte nella sua missione. Questo particolare rende impossibile per Sandy raggiungere la plancia, ma ciò è irrilevante, dato che nessuno dei suoi compagni gli affiderebbe comunque i comandi della navetta.


Quando la Coorte Missione Terra venne finalmente mandata a ripulire la navetta per prepararla al volo, erano tutti piuttosto nervosi. Non ne avevano mai visto l’interno, e per quel che erano riusciti a vedere attraverso i boccaporti, sembrava maledettamente piccola. Inoltre, si trovava in un punto della nave decisamente scomodo per chiunque, sia hakh’hli sia umano. Quando la navetta non era in uso, ovverossia quasi sempre, rimaneva chiusa in un recesso della scocca esterna della grande astronave. Questa era la parte peggiore di tutta la faccenda, poiché, come del resto quasi tutte le sezioni più esterne della nave, anche quella era stata lasciata riscaldare quando la nave aveva compiuto la sua virata in prossimità del sole della Terra. Mentre si avvicinavano e iniziavano a sentire il calore, i componenti della coorte presero a emettere sbuffi di impazienza. — Come possono pretendere che lavoriamo lì dentro? — domandò Chiappa con tono sprezzante.

— Chiudi il becco — intervenne Polly. Si concesse una pausa per pensare a qualche commento supplementare che lo zittisse definitivamente, e infine lo trovò. — E ringrazia che non ci hanno mandati a lavorare là fuori — aggiunse.

Erano tutti disposti a ringraziare per quello. Attraverso i piccoli boccaporti di osservazione, potevano vedere la navetta, attorno alla quale stavano lavorando una decina di massicci hakh’hli-operai, di quelli generati appositamente per il lavoro all’esterno. Le tute spaziali che indossavano assomigliavano a delle sfere, perfettamente rotonde salvo per una sporgenza per la testa alla sommità e diverse braccia meccaniche che spuntavano un po’ da tutti i lati. La nave si trovava su una rotta tale da permettere loro di rimanere all’ombra del Sole, ma questo non risolveva certo i loro problemi. La scocca esterna della grande nave infatti aveva assorbito una tale quantità di calore durante il suo passaggio accanto al Sole che irradiava ancora costantemente un bagliore invisibile di radiazioni infrarosse; di sicuro gli hakh’hli che si trovavano là fuori erano letteralmente inzuppati di sudore nelle loro tute. Il lavoro che stavano compiendo non era solo faticoso ma anche pericoloso, poiché nemmeno un hakh’hli-operaio geneticamente programmato per quello scopo preciso poteva resistere troppo a lungo a quel calore. Tuttavia, si trattava di un lavoro necessario, che consisteva soprattutto nel fissare lungo tutto lo scafo della navetta una fitta rete metallica, sulla quale sarebbe stata successivamente posta una pellicola in grado di intercettare la maggior parte degli oggetti che avrebbero incontrato attraversando la fascia di relitti in orbita attorno alla Terra.

L’interno della navetta, scoprirono poco dopo, era ancora più caldo. Polly controllò con fare pignolo tutti gli indicatori di pressione, quindi premette il pulsante di apertura. Non appena lo sportello della navetta si aprì, vennero tutti sopraffatti da una terribile ondata di aria caldissima e puzzolente di alcol e decomposizione. — Oh, cacca — commentò Elena con un grugnito. — Volete dire che dobbiamo lavorare lì dentro?

Naturalmente, era proprio così. Polly ordinò a Chiappa di entrare per primo per accendere l’impianto di aerazione. Quando Chiappa riapparve davanti allo sportello ansimando per dire che l’impianto era acceso, Polly spinse dentro Demmy con un calcio. Gli altri seguirono.

Anche con l’impianto di aerazione in funzione, l’aria all’interno della navetta rimaneva quasi irrespirabile. L’odore di chiuso e di putrefazione era realmente fortissimo. Del resto, non vi era nulla di strano in questo, dato che il modulo di atterraggio non era stato usato né nel sistema Alfa Centauri né nel corso della precedente visita al sistema solare della Terra. Ad Alfa Centauri non era stato usato perché non era stato trovato alcun luogo in cui atterrare, e nel sistema Sol non era stato usato perché i Grandi Anziani avevano sentito puzza di bruciato, tanto da portarli a decidere di dare alla Terra qualche anno in più per calmare i suoi bollenti spiriti.

Chiunque fossero stati gli ultimi a usare la navetta, non si era certamente trattato di persone particolarmente ordinate. Tre dei sedili erano pieni di macchie e incrostazioni, e nelle dispense vi erano pezzi di materia decomposta che una volta doveva essere stata cibo. — Maiali — dichiarò Sandy tappandosi il naso. — Vorrei averli sottomano per dir loro un paio di cosette!

— Non contarci — replicò Chiappa. — Chiunque fossero, sono stati dati in pasto ai titch’kik ormai da secoli. Non effettuiamo un atterraggio su un pianeta da… quanto tempo sarà trascorso, ormai, Polly? Almeno sei stelle fa?

— Potrai controllarlo personalmente quando avrai del tempo libero — ordinò Polly. — Avanti, diamoci da fare!

— Sì, ma aspetta un attimo — intervenne Demmy. — Che cosa mi dici di questa puzza di alcol?

— Perché, che cosa c’è? Mi pare che si stia diradando, no?

— Non mi sto lamentando per la puzza in sé — ribatté Demmy. — Mi sto solo domandando come mai si sente. Come è possibile che ci sia odore di alcol nella cabina di pilotaggio? Non potrebbe trattarsi di una perdita?

— Se siamo qui adesso — sentenziò Polly con tono secco — è proprio per verificare certe cose. Probabilmente si tratta semplicemente di un trasudamento, però penso che sia comunque il caso di aprire i sigilli per controllare.


Aprire i sigilli risultò essere il compito più difficile in assoluto (impiegarono un intero dodicesimo di duro lavoro per farlo), ma fortunatamente scoprirono che non vi era nulla di strano. L’odore di carburante era dovuto semplicemente al lento trasudare dei fumi d’alcol avvenuto nel corso dei secoli. I serbatoi erano perfettamente sigillati e funzionanti, e una volta verificato ciò la coorte si rasserenò.

Il lavoro che stavano svolgendo era arduo e non certo gradevole, ma in fondo lo stavano facendo per il loro stesso bene. Stavano per partire! Mentre si dedicavano al compito ben più semplice, per quanto forse più scocciante, di ripulire tutto l’interno della navetta, anche il calore divenne decisamente più sopportabile. Una volta eliminato tutto ciò che era stato lasciato dal precedente equipaggio, infatti, avrebbero portato delle cose loro, che sarebbero servite a loro e a nessun altro. — Facciamo una partita al Gioco delle Domande! — propose Tania, ormai completamente rinfrancata. Sandy aprì la bocca per suggerire un argomento, ma venne preceduto da Polly.

— Non mi sembra proprio il caso — dichiarò. — Non comportiamoci in maniera immatura. Dobbiamo concentrarci sulla nostra missione, e non su cose infantili. Piuttosto, perché non interroghiamo Sandy sulla sua storia di copertura?

— Oh, cacca — disse Sandy, ma gli altri accettarono subito l’idea di buon grado.

— Dicci il tuo nome — iniziò immediatamente Elena.

Sandy scrollò le spalle mentre sgomberava l’interno di un armadietto con un bastone. — Mi chiamo John William Washington — disse di malavoglia.

— Allora perché ti chiamano “Sandy”? — domandò Obie, che era affaccendato attorno a uno dei sedili di pilotaggio.

— È solo un soprannome. Un diminutivo di Lisandro.

— Posso vedere la tua carta d’identità? — intervenne Polly.

Questa era nuova. Sandy ebbe un attimo di esitazione, rimanendo imbambolato con il bastone in mano. Non aveva alcun tipo di documenti. — Non so che cosa rispondere a questa domanda — confessò.

Demmy gli diede una mano. — Puoi dire che sei stato rapinato, Sandy.

— Cosa significa “rapinato”?

— Dai che lo sai, è come “derubato”. Sai, come Robin Hood.

— Già, certo — disse Sandy, iniziando a cogliere lo spirito della cosa. — Sono stato derubato. Hanno rubato il mio portafoglio e la mia valigia…

— Non la valigia! — lo interruppe seccamente Polly. — Non andavi mica in giro con una valigia, vero?

— Va bene, il mio zaino. Mi hanno rubato lo zaino con dentro tutti i documenti.

— Pfui! — esclamò Obie, che si stava ritraendo schifato da un armadietto che aveva appena aperto. — È orribile!

— Orribile o no — intervenne nuovamente Polly — devi pulirlo comunque. E ora dimmi, John William Washington, da dove vieni?

— Questa è facile. Sono di Miami Beach, in Florida. La Florida è uno stato. Sono uno studente universitario e mi sono preso una vacanza. Sto facendo… uh… l’“autostop”.

— Come si chiamano i tuoi genitori?

— I miei genitori? — Sandy dovette fermarsi di nuovo per riflettere. — Ah, i miei genitori si chiamano Peter e Alice. Peter è il maschio. Solo che sono morti, tutt’e due. Sono morti in un incidente automobilistico e… be’, ci sono rimasto molto male. Così ho deciso di lasciare la scuola per un certo tempo. In ogni caso, ho sempre desiderato visitare l’Alaska.

— Che mingherlino che sei, Mingherlino — disse Polly con tono sprezzante. — Spero che te la caverai meglio, una volta sulla Terra. Immagina una persona che non ricorda nemmeno i nomi dei suoi genitori!

— Ah, sì? — ribatté Sandy con rabbia. — E allora chi erano i tuoi genitori?

Polly fece oscillare la testa con fare minaccioso. — I dati genetici della mia famiglia sono in archivio, e lo sai benissimo — ribatté con tono tagliente. Si accovacciò sulle zampe posteriori, come se stesse per compiere un balzo. Sandy si rannicchiò in una posizione difensiva.

Ma venne salvato da un urlo da parte di Demmy. — Insetti! — sbottò. — Questo armadietto è pieno di insetti! Come hanno fatto a entrare qui dentro?

Distratta da questo commento, Polly rivolse uno sguardo glaciale in direzione di Demmy. — Che differenza fa come hanno fatto ad arrivare? — domandò con rabbia. — L’unica cosa che conta è che dobbiamo liberarcene. Demetrio, va’ immediatamente a requisire un nido di api-falco.

— E tu chi saresti per darmi ordini a questo modo? — domandò a sua volta Demmy mentre si accovacciava sulle possenti zampe, preparandosi alla carica.

La rissa venne evitata grazie alla voce di MyThara. — Che ftoria è mai quefta? — domandò la tutrice. — Vi pare quefto il modo per portare a termine le iftruzioni urgenti dei Grandi Anziani, comportandovi come degli infanti appena fchiufi? E ora fpiegatemi che cofa ftate combinando.

Quando la coorte ebbe spiegato tutto, l’anziana tutrice agitò la sua mascella. — Beniffimo, allora. Dobbiamo andare a prendere un nido di api-falco per liberarci degli infetti. Demmy, va’ a prenderlo. E quefta roba che cof’è? — Indicò un mucchio di rifiuti puzzolenti che erano stati radunati sul pavimento.

— È da gettare nelle vasche dei titch’hik — dichiarò Polly con tono solenne. — È tutta roba in decomposizione.

— Eccome fe lo è! Hai forfè intenzione di avvelenare i titch’hik? Quel materiale deve andare nelle vafche di decontaminazione per essere fterilizzato. Portalo immediatamente, Ippolita.

— Perché non ci mandi Sandy?

— Lifandro non ci andrà — spiegò MyThara — perché ci ho appena mandato te. Lifandro ha altri compiti da portare a termine al momento. E ora datevi da fare.

— Si guardò attorno. — Vedo che avete già fgomberato tutti gli armadietti — disse. — Quefto è un bene. Potrete averne uno per uno.

— Uno folo? — domandò Obie con tono lamentoso.

— Per andare fino alla Terra?

— Uno solo ciafcuno — replicò MyThara con durezza. — Gli altri fervono per le provvifte e l’equipaggiamento neceffario. In fondo, dovrete portarvi dietro provvifte per tre fettimane.

— Perché solo tre settimane? — domandò Elena tirando fuori la lingua con fare irritato.

— Perché quefto è ftato l’ordine dei Grandi Anziani, Elena. Bene, Lifandro, ora vieni con me. È ora di provare i tuoi nuovi abiti.


Solo tre settimane? Perché solo tre settimane? Mentre seguiva MyThara con fare scocciato, Sandy pensò che forse alcuni di loro avrebbero potuto rimanere solo per tre settimane, ma non necessariamente tutti… Magari altri sarebbero rimasti per più tempo…

MyThara lo lasciò nella sezione dormitorio della coorte mentre andava a prendere i suoi abiti terrestri, ma prima di uscire gli ordinò di spogliarsi e di infilare la sua tuta di tutti i giorni nell’armadietto.

Sandy si spogliò, ma mentre lo faceva si ritrovò improvvisamente a tremare.

Il fatto che fosse effettivamente in procinto di lasciare la nave non si era ancora fatto strada fino a quella parte della sua mente che provava il panico, e ora si stava rifacendo per il tempo perduto.

Si guardò attorno, continuando a rabbrividire. Avrebbe lasciato la nave! Una cosa del genere non era mai accaduta prima di allora! Non sapeva di nessuno che avesse effettivamente “lasciato” la nave. Certo, le persone morivano e venivano divorate dai titch’hik, ma per quanto ne sapeva Sandy questo era l’unico modo in cui una persona poteva cessare di esistere all’interno della nave. Al di fuori della nave non vi era altro che lo spazio.

Quando MyThara fece finalmente ritorno, con le tozze braccia che sorreggevano a fatica due cesti pieni di capi di abbigliamento, Sandy si trovava seduto per terra davanti al suo armadietto, con la testa chinata, gli occhi serrati e un’espressione di puro panico dipinta sul volto. — Lifandro! — esclamò seccamente la tutrice. — Che cofa ti è fucceffo? Fei malato?

— Lascerò la nave! — disse Sandy in tono lamentoso.

— Ma certo che la lafcerai. Fei ftato addeftrato a quefto fcopo per tutta la tua vita.

— Ma io ho paura, MyThara. Io non voglio lasciarti. La tutrice ebbe un attimo di esitazione, poi avvolse dolcemente una mano dura e ruvida attorno al braccio di Sandy. Sandy sentì il dito “tutore” che gli penetrava nella pelle, ma era una sensazione più rassicurante che sgradevole. — Avrai una vita del tutto nuova — lo rassicurò. — E ora, per favore, provati quefti abiti. Voglio proprio vedere come farà bello il mio Lifandro una volta sulla Terra!

Lentamente, Sandy ubbidì. Dovette infilarsi innanzitutto i capi bianchi e sottili che MyThara definì “intimi”, e che consistevano in una “mutanda” e in una “canottiera”. Poi passò alle “calze”, dei lunghi tubi di tessuto chiusi da un lato. La “camicia” era color rosa pastello, i “pantaloni” erano color blu scuro, il “gilet” era rosso, la “giacca” marrone, e le “scarpe” nere.

— Ftai beniffimo — disse MyThara quando ebbe finito di vestirsi.

— Ho molto caldo — si lamentò Sandy.

— Perché farà molto freddo nel luogo in cui andrai, Lifandro — disse la tutrice assumendo un’aria serena. — Per quefto motivo, ho anche delle altre cofe da farti provare. — Quindi tirò fuori dal secondo cesto un altro paio di pantaloni, decisamente più pesanti degli altri e molto più stretti in fondo, un paio di pesanti sovrascarpe che calzavano perfettamente sopra le scarpe da ballo leggere che Sandy aveva già indossato, e una giacca con tanto di cappuccio che pesava di più di tutto il resto messo assieme. Quando ebbe indossato ogni cosa, Lisandro stava ormai sudando copiosamente.

— Fei molto elegante — disse MyThara con voce triste.

— Mi sento come un tubero bollito — grugnì Sandy.

— Va bene, adeffo puoi toglierti tutto. — Man mano che Sandy si toglieva gli abiti, MyThara li piegò uno per uno e li ripose nelle ceste. — Fapevi che hanno riaperto l’impianto del peroffido? — domandò.

— Davvero? — Lisandro rifletté su questo fatto. Le navette erano gli unici apparecchi hakh’hli alimentati ad alcol e perossido di idrogeno, e di conseguenza l’impianto per la produzione del perossido della grande nave rimaneva inattivo per decenni, a volte anche per secoli. Non serviva alcun tipo di carburante di tipo chimico per far procedere la grande astronave fra le stelle. Sentendosi un poco meglio, Sandy tentò di prodursi in un sorriso. Tuttavia, non riuscì a mantenerlo, poiché aveva percepito qualcosa di strano nel tono di MyThara. — Non sei felice per me? — le domandò. — Credevo che tu fossi orgogliosa di vedermi andare sulla Terra!

— È che non credo che ti vedrò, Lifandro — biascicò lei con tristezza. — Anzi, fono ficura che non ti vedrò. Vedi, Lifandro, domani devo fare il mio efame di idoneità, e fono ficura che non lo pafferò.


Il giorno in cui la nave interstellare si trovò finalmente nel punto previsto della sua orbita attorno alla Terra, con la navetta completamente ripulita e pronta a partire, le parole di MyThara si rivelarono veritiere. MyThara non era più con loro. Non aveva passato l’esame di idoneità fisica.

La loro partenza non venne salutata da alcun tipo di cerimonia. Non venne nessuno a vederli partire, a parte ChinTekki-tho, che galleggiava nervosamente a mezz’aria nella microgravità della nave, i cui motori principali erano stati spenti per la prima volta da decenni. — Vi sono molte nuvole nella regione in cui atterrerete — annunciò il Tutore Primario rivolto alla coorte che si preparava a salire a bordo della navetta. — Questo è un bene, perché significa che potrete atterrare senza essere visti.

— Che cosa sono le “nuvole”, ChinTekki-tho? — domandò Obie con apprensione, guadagnandosi un pizzicotto da parte di Polly.

— Le nuvole sono un bene — disse Polly. — Non fare il mingherlino come Sandy!

ChinTekki-tho intanto stava guardando Sandy, che era in piedi da solo con gli stivali in mano e il volto solcato dalle lacrime. — Che cosa è successo a Lisandro? — domandò.

— È per via di MyThara. È morta — disse Polly.

— Certo che è morta; non ha passato l’esame. Ma per quale motivo trova questo fatto tanto ridicolo?

— Non lo trova ridicolo, ChinTekki-tho — spiegò Obie. — È un terrestre, sai? Sta piangendo. È così che fanno quando sono tristi.

— E per quale motivo dovrebbe rattristarsi per la morte di una vecchia hakh’hli? Oh, Lisandro — disse ChinTekki-tho dispiaciuto — mi fai venire dei dubbi sul modo in cui ti abbiamo addestrato. Ma ormai è troppo tardi per preoccuparsi di una cosa simile. Avanti, è venuto il momento di entrare nella navetta. Il lancio avverrà fra un dodicesimo di dodicesimo.

Загрузка...