13

Se un terrestre del ventesimo secolo avesse avuto la possibilità di tornare indietro, sarebbe rimasto senz’altro sconcertato nel vedere la nuova mappa della Terra. Le coste infatti non sono più le stesse di prima. La terra che San Francisco e Chicago erano riuscite a rubare alla baia e ai laghi è stata completamente sommersa dalla acque. La grande depressione desertica del Qatar non è altro che un lago di acqua torbida, per metà piovana e per metà proveniente dal Mediterraneo stesso. Le terre basse dell’Olanda sono tornate a far parte del Mare del Nord, e la città di New Orleans è stata interamente sommersa dalle acque del Mississippi. La Protezione civile ha eretto delle dighe per impedire la tracimazione del canale principale del grande fiume americano, ma la forza delle acque è stata implacabile, e si è fatta comunque strada attraverso la regione dell’Atchafalaya. Le isole Hawaii hanno perso la famosa trappola per turisti chiamata Waikiki, ma per il resto sono rimaste parecchie altre isole dell’arcipelago. In fondo, le Hawaii sono composte in gran parte da affioramenti vulcanici. Le isole basse e sabbiose che proteggevano la costa orientale degli Stati Uniti non esistono più. Fra le case da gioco di Atlantic City ormai circolano solo squali affamati, e sulle piste da golf delle isole della Georgia crescono ì coralli. La baia di New York è circa tre volte più grande di prima. È disseminata di isolette, e la famosa Statua della Libertà è sommersa fino alle caviglie. Quando i ghiacci del Polo Nord iniziarono a sciogliersi, la situazione non cambiò di molto. Il ghiaccio rimaneva comunque negli oceani, e di conseguenza non aumentò neanche minimamente il livello globale delle acque. Quando si sciolsero i ghiacciai invece fu tutt’un ‘altra questione, ma anche questo non fu nulla in confronto a ciò che accadde quando la Banchisa di Ross si staccò dall’Antartide. Insomma, tutte quelle che erano state le coste dei grandi continenti sono in gran parte sommerse dalle acque, e nei cuori di quegli stessi continenti i fortissimi e secchissimi venti hanno creato nuove ed enormi depressioni desertiche.


A bordo del dirigibile, Polly si accovacciò su un divano che scricchiolò sotto il suo peso. Scrutando fuori dal finestrino, si produsse in una serie di acidi commenti su quanto stava vedendo. — Voi terrestri — disse con tono sprezzante rivolta a Sandy — siete veramente degli spreconi. Guarda quanto spazio libero c’è qua sotto, e nessuno che lo usi.

Sandy non rispose nemmeno. Non stava pensando ai difetti degli esseri umani. Stava pensando alla morte del suo migliore amico. Ormai si trovavano circa a metà di ciò che una volta era stata la provincia di Manitoba, e ancora non si era rassegnato alla perdita di Obie.

Certo… si trovava su un “dirigibile”, e quel dirigibile lo stava trasportando in un luogo dove avrebbe avuto modo di fare nuove esperienze nel mondo degli esseri umani.

E in effetti, Sandy non poteva negare che si trattasse di un’esperienza interessante. Il dirigibile era completamente diverso da qualsiasi altro mezzo di trasporto sul quale avesse viaggiato; si trattava di un grosso pallone pieno di elio in grado di trasportare fino a 300 persone. Vi erano cabine, sale per la musica, gabinetti in abbondanza e anche una grossa sala da pranzo. Sul dirigibile non era necessario rimanere seduti con il corpo avvolto da cinture protettive. Sul dirigibile ci si poteva muovere tranquillamente, camminare su e giù e passare da una sala all’altra. Ciò nonostante, non era affatto simile alla grande astronave hakh’hli, poiché si percepiva nettamente il movimento del velivolo sotto i propri piedi; il pulsare dei motori era un fremito costante, la forza dei venti era qualcosa di tangibile e, soprattutto, vi erano ampi finestrini per osservare il terreno che scorreva sotto di loro.

Quando il dirigibile raggiunse una quota sufficientemente priva di turbolenze, Sandy iniziò ad abituarsi alle nuove sensazioni fisiche e il suo umore migliorò un poco. Quando Marguery Darp bussò alla sua porta per invitarlo a bere qualcosa con lei, accettò immediatamente, felice di avere un’occasione per allontanarsi da Polly e ancor più felice di poter godere della compagnia di Marguery.

Si sedettero uno accanto all’altra su un piccolo e soffice divano dal quale si poteva osservare il panorama esterno. Marguery gli spiegò che il viaggio sarebbe durato circa un giorno e mezzo e che la notte sarebbe arrivata piuttosto rapidamente, poiché stavano dirigendosi verso est. Mentre le grandi pianure accarezzate dall’oscurità scorrevano sotto di loro, Marguery prese la mano di Sandy.

— Sono veramente molto dispiaciuta per ciò che è accaduto al tuo amico Oberon — disse.

Sandy le strinse la mano, ma con dolcezza, per non farle male. — Lo so che ti dispiace. Sai, lui era il mio migliore amico.

— Lo so. — Marguery rimase in silenzio per un momento, continuando a fissarlo. — Hai voglia di parlare di lui?

— Oh, posso? — In effetti, scoprì Sandy, era esattamente ciò che aveva voglia di fare. E parecchio, anche. Aveva più voglia di parlare di Obie di quanto non avesse voglia di lavorare sulla nuova poesia che aveva in mente… e persino più di quanto non avesse voglia di fare una serie di altre cose assieme a Marguery Darp. Così, Marguery rimase in ascolto con espressione comprensiva mentre Sandy le raccontava della sua infanzia sulla grande nave hakh’hli, delle piccole litigate che vi erano state inizialmente fra lui e Obie, del modo in cui Obie lo proteggeva dagli altri hakh’hli nel corso dei giochi più duri, del modo in cui usavano alle volte condividere il loro “latte coi biscotti” insieme, separati dal resto della coorte. Le raccontò anche della scena divertente che vi era stata quando Oberon era entrato nel suo periodo di fertilità proprio nel corso dell’udienza con i Grandi Anziani, e di come era stato orgoglioso in seguito del fatto di aver fertilizzato le uova della Quarta Grande Anziana. — Mi manca molto — concluse, stringendo nuovamente la mano di Marguery.

Marguery strinse a sua volta la mano di Sandy e disse: — Però c’è una cosa che mi lascia un po’ perplessa. Voglio dire, mi sbaglio, o gli altri hakh’hli non sembrano essersi dispiaciuti molto per la sua perdita?

— Be’, la morte non è una cosa molto importante per gli hakh’hli — spiegò Sandy. — Tanto per fare un esempio, io avevo una vecchia tutrice… forse potrei definirla una specie di balia. Si chiamava MyThara, e per me era quasi come se fosse mia madre. — Raccontò a Marguery del modo in cui MyThara si era recata dai titch’hik senza alcuna lamentela o protesta dopo essere stata sottoposta a un esame medico che aveva provato il suo stato di salute ormai cagionevole. Marguery venne percorsa da un brivido. — Loro sono fatti così — si affrettò ad aggiungere Sandy. — MyThara era assolutamente convinta di fare la cosa più giusta, sai? Così facendo, sapeva di dare la possibilità di schiudersi a un nuovo uovo. Ma del resto non ho mai sentito parlare di nessuno che avesse qualcosa da obiettare quando si trattava di andare a morire. E nessuno si dispiace mai per la perdita.

— Tu però ti dispiaci, Sandy — osservò Marguery.

— Perché io non sono un hakh’hli — ribatté Sandy con orgoglio.

In quel momento si aprì la porta ed entrò Polly, che attraversò il salottino fino a fermarsi davanti al loro divano. — Sandy — disse con tono lamentoso. — È ora di andare a dormire. Vorrei che tu venissi a coricarti con me. Mi sento… come si dice… sola!

— Ma io non ho voglia di venire a letto con te — disse Sandy tranquillamente. — Voglio stare qui con Marguery.

Polly tirò fuori la lingua in un gesto di delusione. — E Marguery non potrebbe venire a letto con noi?

— Certo che no — ribatté Sandy diventando paonazzo in volto. — Polly, ora ti trovi sulla Terra, e quindi devi imparare i costumi della Terra. Gli esseri umani dormono sempre da soli, tranne quando sono impegnati in anfilassi.

— Ma io non voglio dormire da sola — insistette con tono piagnucoloso Polly. — Anche a me manca Obie!

Quest’ultima frase lo commosse. Naturalmente, Sandy sapeva benissimo che in verità a Polly mancava solo il calore e la compagnia di Obie, dato che era abituata a dormire ammassata con gli altri membri della coorte. Ciò nonostante, quella dichiarazione gli aveva sciolto il cuore. — Credo che dovrei farle un po’ di compagnia, almeno per un poco — disse a Marguery Darp. — Ma probabilmente tornerò. Credo.


In verità, anche Sandy era piuttosto stanco. Alla lunga, anche lui risentiva di quelle interminabili giornate terrestri di 24 ore. Una volta nella cabina di Polly, sdraiato con le braccia avvolte attorno al corpo della hakh’hli che lo stringeva a sua volta, si sentì piacevolmente rilassato.

Nello stesso tempo, però, voleva anche tornare da Marguery Darp. Quando udì il dolce per quanto leggermente sincopato russare di Polly, tentò con delicatezza di liberarsi dalla sua presa. Non gli fu possibile. Polly infatti emise un piccolo gemito e allungò gli arti superiori per riprenderlo e stringerlo nuovamente a sé…

Sandy si risvegliò improvvisamente accanto a Polly, rendendosi immediatamente conto del fatto che fossero trascorse diverse ore.

Fece per muoversi. Polly si produsse in un ampio sbadiglio, quindi si girò su se stessa. Sandy riuscì a staccarsi e a togliersi di mezzo giusto in tempo per non farsi schiacciare. Muovendosi il più silenziosamente possibile, si alzò in piedi e si guardò attorno. Al di là dei finestrini della cabina era ancora notte. Non aveva assolutamente idea di che ore fossero. Pensò per un attimo di tornare accanto a Polly e di addormentarsi nuovamente nel calore del suo corpo enorme e muscoloso, ma poi gli venne in mente che poteva anche darsi che Marguery Darp si trovasse ancora nel salone ad aspettarlo.

Era un pensiero sciocco, e infatti Marguery non c’era. Non vi era più nessuno negli stretti corridoi del dirigibile. Le luci erano tutte spente, e il salone era deserto.

Sandy si sedette davanti a una finestra e scrutò fuori. Il cielo era scuro, ma pieno di stelle luminose. Il movimento del dirigibile più che preoccupante ormai risultava quasi gradevole per lui. Forse si stava “facendo le ossa”, pensò. Si protese in avanti con aria perplessa. Per un attimo gli era parso di vedere un altro agglomerato di stelle, particolarmente luminoso, proprio sotto di sé.

Poi però notò che le stelle erano rosse, bianche e verdi, e che quindi non potevano essere stelle. Doveva trattarsi di un altro dirigibile, che scivolava silenziosamente per la sua strada un migliaio di metri sotto di loro, proveniente da chissà dove e diretto in un luogo altrettanto sconosciuto.

— Signore?

Sandy si girò con aria colpevole. Un membro dell’equipaggio dal volto assonnato si era fermato sulla porta. — Gradirebbe del caffè, signore? — domandò.

— Oh sì, grazie — rispose Sandy senza esitazione. — Con molto latte e zucchero.

— Subito signore — disse la donna. Poi però si fermò. — Se desidera, posso accenderle la televisione — disse. — Oppure può ascoltare della musica sul canale della nave. Ci sono delle cuffie nella sua poltrona.

— Magari più tardi — rispose Sandy con tono cortese. Non si sentiva ancora pronto per la televisione terrestre. In verità, pensò, anche se avesse trovato Marguery Darp, con ogni probabilità non si sarebbe sentito pronto nemmeno per parlare con lei. Aveva un sacco di cose sulle quali riflettere. La prima cosa, e la peggiore, era la morte di Obie. Non appena vi pensò, sentì il caratteristico prurito alla base del naso che preannunciava l’arrivo di altre lacrime. Non fece nulla per impedire che le lacrime scorressero. Probabilmente, pensò, lui era l’unica persona in tutto l’universo a piangere la morte di Oberon. Di sicuro, nessun terrestre avrebbe pianto per la sua scomparsa. Ed era altrettanto certo che nessun hakh’hli fra quelli della nave lo avrebbe pianto, anche se poteva darsi che qualcuno fra loro fosse andato a controllare la discendenza di HoCheth’ik ti’Koli-kak 5329 per pura curiosità, giusto per controllare se vi era qualche tipo di parentela.

Comunque fosse, Obie era morto.

E non si trattava nemmeno del primo. Una dopo l’altra, tutte le persone che erano care a Sandy stavano scomparendo nel nulla davanti ai suoi occhi. Prima sua madre, ancora prima che lui nascesse, poi MyThara, che si era andata a buttare volontariamente nelle vasche dei titch’hik, e ora anche Oberon, che aveva pagato per la sua follia e per la sua abitudine di mettersi sempre in mostra. Solo che non aveva pagato solo lui! Anche Sandy stava pagando per questo, e in quel momento si rese conto che non era semplicemente triste per Oberon, ma che era addirittura arrabbiato con lui.

Poco dopo arrivò il caffè; Sandy mandò giù la prima tazza di liquido denso e bollente a una velocità tale da fargli bruciare la gola, quindi se ne versò subito un’altra. Lo zucchero sembrava alleviare la fame che non si era reso conto di provare fino a quel momento. Inoltre, per qualche motivo che non riusciva a identificare, sembrava anche migliorare il suo umore. Non in maniera decisiva, ma almeno fino al punto da far cessare le sue lacrime. In parte, pensò Sandy, questo poteva essere dovuto al fatto che il “caffè” conteneva “caffeina” e che la “caffeina” era una cosiddetta “sostanza stimolante”. Provò un certo moto di orgoglio interiore; stava finalmente iniziando ad abituarsi alle bevande e ai cibi terrestri. Decise che la prossima volta che Marguery lo avesse invitato a “bere qualcosa”, sarebbe stato più temerario e non si sarebbe limitato a un po’ di vino diluito nella gazzosa. Aveva visto Boyle bere una bevanda chiamata “scotch on the rocks”; decise che se la poteva apprezzare Boyle, la avrebbe senz’altro potuta apprezzare anche lui.

Ricordando quanto gli aveva detto poco prima la hostess del dirigibile, gli venne in mente che vi erano anche molti altri piaceri terrestri che doveva abituarsi ad apprezzare. Trovò le cuffie della sua poltrona, riuscì a infilarsele in modo che risultassero abbastanza comode senza premere troppo sul suo apparecchio acustico quindi, dopo alcuni tentativi, riuscì a trovare un canale che trasmetteva una musica apparentemente adatta al suo stato d’animo. Si appoggiò allo schienale e si abbandonò alla musica. Girando un poco la testa, poteva vedere le stelle e il paesaggio scuro che scorreva da basso, interrotto di tanto in tanto dalle luci di una occasionale città o villaggio. Continuando ad ascoltare la Sinfonia patetica di Ciaikovskij, Sandy si riaddormentò.


Si risvegliò sentendo il debole mormorio della sua stessa voce.

Si alzò a sedere di scatto, districandosi dal cavo delle cuffie che si era avvolto attorno al suo collo. Hamilton Boyle era in piedi alle sue spalle e stava guardando il grande televisore. Sullo schermo, Sandy vide l’immagine di se stesso che spiegava a un intervistatore invisibile come si svolgeva il Gioco delle Domande che aveva giocato per vent’anni con gli altri membri della sua coorte.

— Oh, scusami — disse Boyle. — Ti ho svegliato? Era una domanda stupida, poiché quel fatto era già evidente di per sé. — Non fa nulla — rispose comunque Sandy in tono cortese.

— Stavo cercando di aggiornarmi sulle ultime notizie — si scusò Boyle. — Il tenente Darp arriverà a minuti. Abbiamo pensato che avresti gradito fare un po’ di colazione.

— Oh, sì — disse Sandy con entusiasmo. Fuori dal finestrino vi era il sole. Le nubi erano tutte sotto di loro, e il calore del sole che filtrava attraverso i vetri gli procurava una piacevole sensazione. Si alzò in piedi e si stiracchiò. — Penso che anch’io gradirei “aggiornarmi sulle ultime notizie” — aggiunse.

Boyle sorrise. Era un bell’uomo, pensò Sandy. Gli riusciva difficile credere che avesse 62 anni, ma così gli aveva detto Marguery. I suoi capelli erano chiari e piuttosto folti, e sul suo volto non vi era traccia di rughe. Forse il suo volto era un po’ troppo spigoloso, pensò Sandy volendo trovargli un difetto, e a dir la verità sorrideva molto più di quanto non fosse necessario. Tuttavia, sembrava una persona amichevole e ben disposta nei confronti degli altri. — La maggior parte delle notizie di oggi riguardano proprio te, lo sai? — disse Boyle. — L’unica altra notizia interessante è quella di un rientro. Un vecchio satellite di quelli grandi sta per uscire dall’orbita, ed esiste la possibilità che piombi su qualche regione abitata. Comunque sia, non possiamo sapere dove si abbatterà, almeno non per un paio di giorni ancora.

— È una cosa che succede spesso? — domandò Sandy, interessato.

— Abbastanza spesso — rispose Boyle, spegnendo il televisore. Non sembrava gradire troppo quell’argomento particolare, così Sandy cambiò soggetto.

— Non sapevo che vi fossero delle telecamere nella stanza, ieri. Quando mi avete fatto tutte quelle domande sulla mia vita, intendo.

Boyle gli rivolse un’occhiata indagatrice. — Spero che non ti dispiaccia… C’è un tale interesse da parte della gente nei tuoi confronti…

— Soprattutto da parte di voi sbirri — osservò Sandy.

Boyle ci mise un attimo a rispondere, ma alla fine lo fece con tono piuttosto rilassato. — Sì, sono un poliziotto, più o meno. Il mio mestiere consiste nel proteggere la società.

— Come Kojak?

Boyle sgranò gli occhi, poi si produsse in un ampio sorriso. — Continuo a dimenticarmi che avete visto un sacco di vecchi telefilm — disse. — Comunque sì, proprio come Kojak. Come qualsiasi buon poliziotto. Ho bisogno di informazioni, e il miglior modo per ottenerle è chiederle a qualcuno che sta all’interno.

— All’interno di cosa? — domandò Sandy. Boyle scrollò le spalle. — Non so molto a proposito dei poliziotti — continuò Sandy. — Ottenete ancora le vostre informazioni attraverso il metodo del… come si chiamava? Il “terzo grado”?

— Io non ho mai fatto una cosa del genere! — ribatté subito Boyle con tono secco. — Non ne ho mai avuto bisogno. Devo ammettere che so di alcune occasioni in cui certi poliziotti hanno fatto uso di questo metodo, ma del resto penso che si tratti di una cosa abbastanza naturale. Perché, gli hakh’hli non fanno mai cose del genere?

— Mai — rispose Sandy con tono convinto. — Non ho mai sentito parlare di nessun tipo di pratica nella quale si infligga a qualcuno del dolore fisico in maniera volontaria, per nessun motivo.

— Nemmeno minacce?

— Minacce di dolore? No! O magari stai parlando di una minaccia di morte? Ma non credo che funzionerebbe, comunque — spiegò. — Gli hakh’hli non temono la morte come la temete voi… cioè, noi.

— Già, è quello che hai detto tu stesso al tenente Darp — ammise Boyle. — Quindi… be’, supponiamo che un hakh’hli impazzisca. Che divenga completamente antisociale. In quel caso, be’, non esisterebbe un modo per, diciamo, costringerlo a dire una cosa che non ha intenzione di dire?

— Non credo proprio. Non con la minaccia o la tortura, almeno.

A quel punto Boyle sembrò perdere interesse nell’argomento. — Mi domando che cosa stia trattenendo ancora la nostra colazione — disse. Poi sorrise nuovamente. — Allora non sapevate che vi stavamo riprendendo?

Sandy scrollò le spalle. — Se è per questo — disse — quando siamo atterrati non sapevamo nemmeno se avevate ancora la televisione o meno. Quando gli hakh’hli arrivarono per la prima volta in questa parte della galassia, anni fa, ricevevano un sacco di trasmissioni. Radio, televisione, un sacco di cose. Questa volta però non hanno captato nulla, tanto che siamo arrivati a pensare che aveste smesso di trasmettere.

Boyle assunse un’espressione pensierosa. — In un certo senso, è stato proprio così — disse. — Con tutta quella robaccia in orbita, i satelliti per le comunicazioni risultano praticamente inutilizzabili. Di conseguenza, usiamo quasi esclusivamente le microonde o i cavi a fibre ottiche. Persino le emittenti locali usano antenne direzionali, così non sprecano energia trasmettendo verso l’alto.

— Non è che lo state facendo per non divulgare informazioni all’esterno?

Boyle assunse un’espressione realmente sorpresa. — Certo che no! — rispose. — Come puoi pensare una cosa del genere? In fondo, come potevamo sapere che gli hakh’hli erano là fuori ad ascoltare? — Scosse il capo.

— No, è solo che abbiamo realmente fatto un gran pasticcio lassù, e il problema non è solo di carattere fisico. Figurati che alcuni di quei vecchi satelliti sono ancora altamente radioattivi. Gli effetti delle Guerre Stellari ci faranno compagnia ancora per un bel po’ di tempo… Anche se devo ammettere che al momento è stato un gran bello spettacolo di fuochi d’artificio.

Sandy drizzò le orecchie. — Vuoi dire che tu hai visto la guerra?

— Certo che l’ho vista. Avevo 12 anni. Naturalmente, non ho visto nulla personalmente con i miei occhi, soprattutto perché mi trovavo a Cleveland, nell’Ohio, e inoltre era pieno giorno. La Guerra Stellare vera e propria è iniziata alle due di pomeriggio ora di Cleveland, e al tramonto era già bell’e che finita. In ogni caso, abbiamo avuto tutti quanti la possibilità di vederla alla televisione, e ti assicuro che si trattava di uno spettacolo incredibile, con tutti quei fuochi d’artificio nello spazio.

— Si concesse una pausa, abbassando lo sguardo verso Sandy. — I tuoi genitori non ti hanno raccontato niente in proposito?

— Come avrebbero potuto? — domandò Sandy con tono risentito. — Sono morti prima che li potessi conoscere. In verità non li ho mai nemmeno visti in faccia, a parte la fotografia di mia madre.

— Ah sì? Posso vedere questa fotografia? — Boyle studiò con attenzione il piccolo rettangolo di carta offertogli da Sandy. Non disse nulla per qualche secondo, poi scandì le sue parole con grande cura. — Certo che era proprio una bellissima donna — disse. — Ti spiace se faccio una copia di questa fotografia?

— Perché? — domandò Sandy con genuino stupore.

— Credo che il pubblico sarebbe felicissimo di sapere che aspetto ha — disse Boyle mentre si infilava la fotografia in tasca. — Hai mai visto la loro nave?

— La nave dei miei genitori, intendi? Non esattamente. Anche in questo caso, ho visto solo immagini registrate.

Boyle annuì con enfasi, come se gli fosse appena venuta in mente un’idea. — Senti un po’, Sandy. Se io ti mostrassi le fotografie di tutte le astronavi che si trovavano nello spazio a quell’epoca, credi che saresti in grado di riconoscere quella dei tuoi genitori?

— Credo di sì. Potrei provarci, almeno.

— Nessuno potrebbe chiederti di più — disse Boyle con tono soddisfatto. — Ah, ecco il tenente Darp con la nostra colazione!

Marguery fece il suo ingresso nel salone seguita da un cameriere che spingeva un carrello con la colazione. Mentre salutava i presenti, il cameriere tirò fuori una serie di piatti coperti e apparecchiò il tavolo per tre.

L’interesse di Sandy venne subito monopolizzato dai profumi delle cibarie, anche se non poté fare a meno di notare il magnifico aspetto di Marguery. Le lunghe trecce ramate della donna sembravano brillare di luce propria, e l’abito che indossava era completamente diverso da quello della sera precedente. Portava una gonna dello stesso colore dei capelli che le arrivava quasi fino alle ginocchia, una giacca di pelle bianca sfrangiata e calze di un azzurro luminoso che le arrivavano fino a metà coscia terminando in una banda di quadratini rossi, bianchi e azzurri. Sandy si rese conto con un certo disappunto che anche Boyle indossava abiti diversi rispetto a quelli della sera precedente, e a quel punto gli venne spontaneo domandarsi se non stesse commettendo un errore nell’indossare sempre gli stessi abiti tutti i giorni.

Ma adesso era il momento di consumare la “colazione”, e Sandy dedicò tutta la sua attenzione a questo compito specifico. I “pancake” erano ottimi, soprattutto se ricoperti con il dolcissimo e denso “sciroppo d’acero”. Anche il piattino di “macedonia di frutta” non era affatto male. Dapprincipio Sandy vi si dedicò con estrema cautela, dando piccoli morsi a ogni pezzetto, ma poi i sapori e la consistenza dell’”arancia”, del “pompelmo” e del “melone” lo conquistarono completamente. Dopo un po’ apparve anche Polly, e a quel punto iniziò il consueto interrogatorio giornaliero. Solo dopo diverse ore, quando Polly si ritirò nella sua cabina per il pasto principale e il periodo di intontimento, Sandy ebbe finalmente l’opportunità di prendere da parte Hamilton Boyle e domandargli se vi fosse effettivamente un motivo valido per cambiarsi d’abito ogni giorno.

Il suo volto era ancora paonazzo per la vergogna quando, dopo essersi ritirato rapidamente nella sua cabina personale, accese la doccia e si infilò sotto il getto caldo per darsi una lavata.

Nessuno dei suoi amici hakh’hli gli aveva mai fatto notare che il suo odore potesse risultare sgradevole. L’odore non era una cosa rilevante per gli hakh’hli, che del resto non facevano proprio nulla per nascondere i loro odori naturali. Ciò nonostante, si disse Sandy con un certo rimorso, avrebbe dovuto rendersi conto da solo già da tempo del fatto che quasi tutti gli odori gradevoli degli esseri umani della Terra provenivano da qualche tipo di bottiglia di plastica.

Una volta lavato e asciugato, decise di provare la bottiglietta di acqua di colonia prestatagli da Boyle. L’odore era decisamente gradevole, così Sandy si riempì una mano e iniziò a spargersela per tutto il corpo.

Il suo grido di sorpresa fu talmente forte e improvviso da strappare Polly dal suo periodo di intontimento. La hakh’hli gli si avvicinò con aria assonnata per vedere che cosa stesse succedendo. Quando Sandy le riferì indignato che il prodotto prestatogli da Boyle bruciava la pelle, Polly non dimostrò alcuna comprensione. — Probabilmente te lo sei messo nei punti sbagliati — disse. — E comunque sia, questo è un tipico esempio di idiozia umana, e dato che anche tu sei umano, tanto vale che ti ci abitui. Ma adesso vestiti, così possiamo andare a farci interrogare nuovamente.

— Non ci stanno interrogando — la corresse. — Ci stanno solo ponendo una serie di domande, perché è naturale che siano molto interessati a noi.

— Non solo a noi — ribatté Polly cupa. — Che tipo di domande ti hanno fatto ultimamente?

Sandy scrollò le spalle mentre si infilava un paio di pantaloni nuovi e si rimirava con fare ansioso nel piccolo specchio. — Un sacco di cose. Nulla di particolare.

— A me invece hanno posto un sacco dì domande particolari su argomenti molto importanti — disse Polly con tono serio. — Mi hanno chiesto un sacco di cose sulla storia della nave. Mi hanno chiesto se gli hakh’hli hanno mai incontrato esseri intelligenti nel corso del viaggio, e che cosa ne hanno fatto. Mi hanno fatto domande sulla tecnologia dei propulsori della nostra nave, che sono alimentati da ciò che loro chiamano “materia anomala”, anche se non so assolutamente come siano riusciti a scoprirlo. Ma soprattutto, mi hanno fatto un sacco di domande su noi hakh’hli; come ci lasciamo morire quando viene il nostro turno, quante uova teniamo nei congelatori, per quanto tempo le teniamo lì, a che scopo… Insomma, vogliono sapere proprio tutto.

— E non vedo proprio per quale motivo non dovremmo dir loro tutto quanto — ribatté Sandy mentre si pettinava i capelli per vedere se riusciva a farli assomigliare a quelli di Boyle. — In fondo, è proprio per questo che siamo venuti qui. Per scambiare informazioni.

— Esattamente — confermò Polly. — Per scambiare informazioni. E mi sapresti dire quali informazioni ci stanno dando in cambio?

— Sono sicuro che sono disposti a dirci tutto ciò che vogliamo sapere — ribatté Sandy convinto.

Polly gli rivolse uno sguardo sprezzante. — Sei proprio un essere umano a tutti gli effetti — dichiarò. — Spero che ti ricorderai di comportarti come tale, la prossima volta che dormiamo assieme.

Sandy si girò per fissarla, sorpreso dal suo tono. — Ti ho per caso offesa in qualche modo, Ippolita? — domandò.

— Ti sei comportato molto male durante il sonno — annunciò Polly con aria seccata. — Dovresti ingoiare la tua stessa saliva! Stavi forse sognando la scorsa notte? E che cosa stavi sognando, poi? Mi hai svegliata ben due volte, e in entrambi i casi ho dovuto allontanarti da me, poiché sembrava che tu stessi tentando di unirti con me in anfilassi. Si tratta di una cosa tanto sciocca quanto disgustosa, Lisandro! Ti prego quindi di risparmiare certe cose per la tua femmina umana, Marguery Darp.

— Non sai come lo desidero — disse Sandy malinconicamente.


Nel corso del pomeriggio vennero poste loro meno domande del solito, ma Sandy trovò la sessione particolarmente stancante. Evidentemente, le parole di Polly avevano avuto il loro effetto su di lui. Non gli piaceva affatto l’idea di essere “interrogato”, e così iniziò ad annotare mentalmente il numero e il contenuto delle domande che gli venivano poste.

Così facendo, scoprì che Polly non aveva tutti i torti. Le domande infatti spaziavano su tutti gli argomenti possibili riguardanti gli hakh’hli, dal nome che davano al loro sole e alle loro astronavi fino al motivo per il quale ChinTekki-tho, pur essendo un Anziano, non era un Grande Anziano. Hamilton Boyle in particolare dimostrava lo stesso interesse dimostrato da Marguery riguardo ai film terrestri che venivano proiettati sul l’intera astronave, e Marguery insistette affinché Sandy gli spiegasse ancora una volta il meccanismo grazie al quale i repulsori magnetici del modulo di atterraggio riuscivano a bloccare o quantomeno a rallentare la corsa dei frammenti di relitti che circolavano nell’orbita terrestre. Sandy non ne poteva più. Nonostante il fatto che Marguery si fosse complimentata con lui per i suoi nuovi abiti (e quando glielo domandò, anche per il profumo fresco che emanava) non stava godendo affatto di quel tempo trascorso con lei. Così, quando Boyle annunciò che dovevano interrompere la sessione per ascoltare Chiappa che trasmetteva alla televisione direttamente dal modulo di atterraggio, tirò un sospiro di sollievo.

La navetta era cambiata parecchio rispetto all’ultima volta che Sandy aveva avuto modo di vederla. L’equipaggio hakh’hli si era dato parecchio da fare nel corso di quei giorni; la rete protettiva era stata tolta del tutto e una nuova pellicola scintillante veniva montata per il viaggio di ritorno. Inoltre, attorno al modulo di atterraggio era sorta una specie di piccola città. Tre grandi strutture oblunghe dotate di ruote lo circondavano formando un semicerchio (Marguery spiegò che si trattava di “roulotte”) e in più erano state erette anche una mezza dozzina di strutture di tessuto (“tende”) che servivano a ospitare gli umani che lavoravano nelle roulotte. Come al solito, vi erano anche una serie di elicotteri, alcuni dei quali con i rotori che giravano costantemente. Stava piovendo nel Commonwealth dell’Inuit, e di conseguenza gli hakh’hli si trovavano tutti al coperto. Sandy vide per un istante la sagoma di Demmy sullo sportello della navetta, poi l’inquadratura cambiò e apparve sullo schermo l’immagine di Chiappa, accovacciato all’interno di una tenda. Chiappa iniziò subito a spiegare che cosa fosse esattamente il “trampolino orbitale”, dilungandosi sui suoi possibili utilizzi ed elencando i punti della Terra sui quali poteva essere costruito; il compito di Sandy e Polly per quel pomeriggio consistette semplicemente nello spiegare a Boyle e a Marguery alcuni dettagli tralasciati dal loro compagno di coorte.

Alla fine della lunga giornata Sandy si sentiva nuovamente esausto. Tuttavia, aveva scoperto che il caffè lo manteneva sveglio. — Non so se fai bene a berne così tanto — gli disse Marguery con tono preoccupato. — In fondo si tratta di una sostanza completamente nuova per il tuo fisico, non è così?

— Non c’è problema — la rassicurò Sandy. Non sarebbe certo stato un piccolo rischio per il suo fisico a impedirgli di trascorrere del tempo da solo con Marguery. Nonostante tutto ciò, Sandy terminò la frase con un ampio sbadiglio.

Marguery assunse nuovamente un’espressione preoccupata. — Sei sicuro di aver dormito abbastanza, Sandy? — domandò.

— Non riesco a dormire tutte le ore che dormite voi — rispose Sandy, sulla difensiva.

— Be’, se hai voglia di andartene a dormire…

— Oh, no! No, Marguery. Ho voglia di passare un po’ di tempo da solo con te.

Gli rivolse uno strano sorriso da femmina terrestre che Sandy non fu assolutamente in grado di decifrare.

— Non avrai mica intenzione di scrivere un’altra poesia per me?

Sandy scosse il capo con aria pensierosa. Vista la situazione, gli veniva da domandarsi se quelle poesie alla fin fine fossero servite a qualcosa o meno. — È solo che con te mi sento più a mio agio — disse infine. — Non che abbia qualcosa contro Hamilton Boyle, ma… Non saprei, ma ho l’impressione che non si fidi di me. Non completamente, almeno.

— Be’, è pur sempre uno sbirro — disse Marguery. Poi, anticipando il commento di Sandy, aggiunse: — Naturalmente lo sono anch’io, ma lui lo è stato per tutta la vita. Credo che si tratti di una cosa pressoché istintiva per lui.

— Pensi che mi sottoporrebbe al terzo grado, Marguery?

— Al terzo grado? Vuoi dire torturarti? Ma certo che no. Cioè — aggiunse con atteggiamento evidentemente restio — non a meno che non ne avesse proprio bisogno. Ma perché mi fai una domanda del genere?

Sandy scrollò le spalle.

— Ci stai forse nascondendo qualcosa?

Sandy rifletté un attimo su quella domanda. — Credo di no — rispose infine. — Voglio dire, vi ho detto tutto quel che mi avete chiesto.

Marguery starnutì, poi tornò a fissarlo con aria pensierosa. — E ritieni che ci siano altre cose che dovremmo sapere che non ti abbiamo chiesto per nostra ignoranza?

— Non che io sappia — rispose Sandy. Poi le rivolse uno sguardo duro. — Tu credi che ve ne siano?

— In effetti — disse Marguery parlando molto lentamente — c’è una cosa che mi stavo domandando.

— Che cosa, Marguery? Basta che tu me lo chieda, e se lo so te lo dirò senz’altro.

Lo fissò per un attimo. Poi, a bruciapelo, pose la sua domanda. — Quanti anni hai, Sandy?

La domanda lo colse un po’ di sorpresa, ma rispose comunque prontamente. — In tempo terrestre, dovrei avere circa 22 anni.

— Esatto. Questo è ciò che ci hai detto fin dall’inizio. E hai anche detto che i tuoi genitori sono stati salvati da un’astronave terrestre quando tu non eri ancora nato.

— Esattamente — disse Sandy, domandandosi dove volesse arrivare.

— Solo che questo fatto è avvenuto durante la guerra o subito dopo, e la guerra è finita 50 anni fa.

— Oh, sì — ribatté Sandy producendosi in un sorriso compiaciuto. Gli faceva molto piacere avere la possibilità di spiegare a Marguery qualcosa che sapeva, visto che alla maggior parte delle domande che gli venivano poste era invece tanto difficile da rispondere. — Questo — disse con tono da professore — è avvenuto per via del fatto che la grande nave hakh’hli viaggiava quasi sempre a una velocità superiore a quella della luce. E questo causa un effetto di dilatazione del tempo, come predisse il vostro Albert… volevo dire, come predisse Albert Einstein nella sua teoria della relatività. Di conseguenza, per me che mi trovavo sulla nave il tempo è trascorso molto più lentamente.

— Capisco — disse Marguery annuendo. — Quindi in realtà sono trascorsi 50 anni terrestri dal giorno della tua nascita. Più o meno 25 anni per arrivare fino ad Alfa Centauri e altri 25 per tornare indietro. Giusto? Solo che per voi è stato come se fossero trascorsi solo 20 anni per via della dilatazione temporale. Giusto?

— Esattamente — rispose Sandy, sorridendo compiaciuto per la rapidità di apprendimento di Marguery.

— E com’è Alfa Centauri? — gli domandò poi con tono molto serio.

Sandy sbatté le palpebre. — Scusa?

— Com’è Alfa Centauri? — ripeté Marguery. — Voglio dire, per te è stato solo dieci anni fa, giusto? Quindi, secondo i tuoi termini soggettivi, quando vi trovavate nel sistema di Alfa Centauri avevi circa dieci anni.

Sandy si produsse in una smorfia. — Non capisco dove vuoi arrivare.

— Be’, Sandy — disse Marguery con espressione un po’ triste — quando avevo dieci anni ero abbastanza immatura, ma non ero certo stupida. Non credo che sarei rimasta del tutto indifferente a una simile occasione. Sono sicura che mi ricorderei almeno qualcosa di Alfa Centauri, perlomeno l’eccitazione degli adulti che si trovavano con me. Non trovi?

La smorfia di Sandy divenne ancora più profonda. — Ho visto delle fotografie — disse.

— Sì — concordò Marguery. — Anche noi le abbiamo viste. Gli hakh’hli ci hanno mostrato un sacco di nastri. Ma io non sono mai stata sul posto. E tu?

— Certo che ci sono stato. Devo esserci stato per forza — rispose Sandy con tono sicuro. La smorfia però rimase fissa sul suo volto.

Marguery sospirò. — Io credo che tu non ci sia mai stato — disse. — Credo che ti abbiano mentito, Sandy.

Sandy la fissò, tanto sconvolto quanto offeso. — E perché mai avrebbero dovuto fare una cosa del genere? — domandò con rabbia. In fondo, stava gettando discredito sui suoi più vecchi amici.

— È proprio ciò che vorrei scoprire anch’io — disse seria Marguery. — Che motivo possono aver avuto? Tanto per fare un esempio, quando hanno catturato i tuoi genitori…

— Li hanno salvati — la interruppe Sandy.

— Quando li hanno portati a bordo della nave hakh’hli, allora. Prova a prendere in considerazione la possibilità che tuo padre non fosse morto. O che tua madre non fosse nemmeno incinta. Prova a prendere in considerazione il fatto che tu sia nato solo nel corso del viaggio di ritorno, che sia accaduto qualcosa ai tuoi genitori e che tu sia stato allevato dagli hakh’hli in seguito…

— È proprio così che è andata — la interruppe nuovamente. — Qualcosa è accaduto ai miei genitori, e sono stato allevato dagli hakh’hli.

— Solo che tu non ti ricordi nulla di Alfa Centauri — osservò Marguery. — Quindi, non credo che le cose siano andate esattamente come te le hanno raccontate.

A quel punto Sandy stava iniziando a innervosirsi. — Dove vuoi arrivare? — domandò con tono secco. — Voglio solo dirti che ti hanno mentito, Sandy.

— Ma è assurdo! Non vedo proprio per quale motivo avrebbero dovuto mentirmi! Dimmelo tu: perché mi avrebbero mentito?

Marguery emise un sospiro. — Vorrei tanto saperlo anch’io.

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