6

Come e quando parlare con Dora, e cosa dirle? Era quella la do­manda cruciale. Nelle prime ore della sera seguente ci recammo a New Orleans.

Non c’era traccia di Louis nella casa di Rue Royal, il che non era affatto insolito. Louis vagabondava sempre più spesso, e una volta David lo aveva visto in compagnia di Armand a Parigi. La casa era immacolata, un sogno al di fuori del tempo, piena dei miei mobili preferiti in stile Luigi XV, elegante carta da parati e i tappeti più belli del mondo.

David, naturalmente, la conosceva, benché non la vedesse da più di un anno. Una delle tante camere perfette, arredata con se­te color zafferano e stravaganti tavoli turchi e paraventi, ospitava ancora la bara in cui aveva dormito durante il suo primo, breve soggiorno come uno dei Non Morti.

Ovviamente, la cassa era ben camuffata. Lui aveva insistito per avere una bara vera e propria — come i vampiri novizi fanno quasi invariabilmente, a meno che non siano nomadi per natu­ra —, ma era nascosta in modo abbastanza ingegnoso all’interno di un massiccio cassone di bronzo, che Louis aveva scelto appo­sitamente in un secondo tempo: un grosso e ingombrante paral­lelepipedo, in apparenza privo di aperture anche se, com’è ov­vio, bastava premere i punti giusti perché il coperchio si sollevas­se all’istante.

Durante il restauro di quella casa, in cui un tempo avevo vis­suto con Claudia e Louis, mi ero creato un posticino in cui ripo­sare. Non nella mia vecchia stanza, che adesso ospitava solo il massiccio letto a baldacchino e il tavolino da toeletta di rigore, bensì in mansarda, sotto il tetto, dove avevo ideato una cella di metallo e marmo.

In breve, avevamo a disposizione una comoda base, e mi sen­tii francamente sollevato dal fatto che Louis non fosse lì a dirmi che non mi credeva, qualora avessi descritto ciò che avevo visto. Le sue stanze erano in perfetto ordine; erano stati aggiunti nuovi libri. C’era un vivace, pregevole nuovo dipinto di Matisse; per il resto, le cose erano rimaste immutate.

Non appena ci fummo sistemati e dopo aver controllato l’ine­spugnabilità della casa come fanno sempre gli immortali, con un allegro esame e una forte riluttanza nel dover fare qualsiasi cosa debbano fare i mortali, decidemmo che mi conveniva raggiunge­re i quartieri residenziali per cercare di vedere, almeno di sfuggi­ta, Dora da sola.

Non avevo più visto o sentito il Pedinatore, benché non fosse passato poi molto tempo, né avevo visto l’Uomo Comune.

Su una cosa David e io eravamo d’accordo: entrambi poteva­no apparire in qualunque momento.

Ciononostante, mi separai dal mio amico, lasciando che egli esplorasse la città come desiderava.

Prima di lasciare il quartiere francese passai a trovare Mojo, il mio cane. Se ancora non conoscete Mojo grazie al Ladro di Corpi, lasciate che vi fornisca solo le informazioni essenziali: è un gigantesco pastore tedesco, accudito da una gentilissima donna mortale in un edificio di mia proprietà, e mi ama, cosa che trovo irresistibile. È un cane, niente di più e niente di meno, solo che è enorme, col pelo estremamente folto, e io non posso restargli lontano a lungo.

Trascorsi un’ora o due con Mojo, lottando, rotolandomi con lui sul terriccio nel giardino sul retro e raccontandogli tutto quel­lo che era successo, poi cercai di decidere se dovevo portarlo con me nei quartieri residenziali. Il suo muso scuro, allungato, simile a quello di un lupo e solo in apparenza crudele, rivelava la con­sueta gentilezza e pazienza. Dio, perché non ci hai reso tutti cani?

In realtà, Mojo mi dava un senso di sicurezza. Se fosse arriva­to il Diavolo e io avessi avuto Mojo al mio fianco... Ma era un’i­dea davvero assurda! Che riuscissi a parare l’attacco dell’inferno grazie a un cane fatto di carne e sangue! Be’,gli umani hanno creduto a cose anche più bizzarre, presumo.

Poco prima di separarmi da David gli avevo chiesto: «Cosa pensi che stia succedendo? Mi riferisco al Pedinatore e a questo Uomo Comune».

E lui aveva risposto senza esitazione: «Sono tutti e due frutto della tua immaginazione, ti punisci implacabilmente; non cono­sci altro modo per continuare a divertirti».

Avrei dovuto sentirmi offeso. Ma non era così.

Dora era reale.

Alla fine decisi di non portare Mojo con me. Stavo per spiare Dora. E dovevo muovermi rapidamente. Baciai il cane e me ne andai. Più tardi avremmo passeggiato nei terreni incolti da noi preferiti sotto il River Bridge, tra l’erba e i rifiuti, e saremmo ri­masti insieme. Avrei goduto di quel piacere finché la natura me lo avesse concesso. Per il momento, poteva aspettare. Torniamo a Dora.

Naturalmente, lei non sapeva della morte di Roger. Non pote­va saperlo, a meno che Roger non le fosse apparso. Ma, parlando con lui, non avevo avuto motivo di pensare che esistesse una si­mile possibilità. A quanto sembrava, palesarsi a me aveva esauri­to tutte le sue energie. In realtà, pensavo che fosse stato di gran lunga troppo protettivo nei confronti di Dora da poterla tormen­tare in modo concreto o deliberato.

Ma cosa sapevo dei fantasmi? Eccettuata qualche apparizione irrilevante, non avevo mai parlato con un fantasma prima di par­lare con Roger.

E adesso avrei portato per sempre con me l’indelebile sensa­zione del suo amore per Dora, e il suo bizzarro miscuglio di con­sapevolezza e suprema fiducia in se stesso. Giudicata col senno di poi, persino la sua visita sembrava rivelare una straordinaria sicurezza da parte di Roger. Non era impossibile che lui posse­desse la facoltà di apparire ai vivi, dato che il mondo è pieno di impressionanti e plausibili storie di fantasmi. Tuttavia riuscire a coinvolgere me in una conversazione — riuscire a trasformare me nel suo confidente —, questo aveva davvero richiesto un orgoglio smisurato e quasi incredibile.

Mi diressi verso i quartieri residenziali alla maniera umana, respirando l’aria del fiume, felice di essere tornato alle mie quer­ce dalla corteccia nera, alle ampie case fiocamente illuminate di New Orleans, alle onnipresenti intrusioni di erba e rampicanti e fiori; insomma, a casa.

Raggiunsi troppo presto il vecchio convento di mattoni di Napoleon Avenue in cui viveva Dora. Napoleon Avenue è una via davvero mirabile anche per New Orleans; sfoggia un’aiuola spartitraffico molto ampia, là dove un tempo passavano i tram. Nell’aiuola sono stati piantati folti alberi da ombra, uguali a quelli che circondavano l’antistante convento. La frondosa pro­fondità dei quartieri residenziali vittoriani.

Mi avvicinai lentamente all’edificio, ansioso d’imprimermi nella memoria ogni suo dettaglio. Com’ero cambiato dall’ultima volta in cui avevo spiato Dora.

Il convento sfoggiava uno stile Secondo Impero, col tetto a mansarda che sormontava il corpo centrale dell’edificio e le sue lunghe ali. Qua e là, vecchie tegole d’ardesia erano cadute dal tetto spiovente, concavo al centro e quindi alquanto insolito. La costruzione in sé, le finestre ad arco arrotondate, le quattro torri angolari, il portico a due piani tipico di una villa di piantagione e che correva davanti al corpo centrale — con le sue colonne bian­che e le balaustre in ferro battuto nero —, tutto ciò rappresentava uno stile italiano alla New Orleans e risultava gradevolmente proporzionato. Vecchie grondaie di rame si aggrappavano alla base dei tetti. Non c’erano persiane, ma di sicuro un tempo c’e­rano state.

Le finestre erano numerose, alte, con la sommità arrotondata al secondo e al terzo piano, profilate di bianco sbiadito.

Un grande giardino dalla rada vegetazione occupava lo spazio antistante all’edificio e affacciato sul viale, e già conoscevo l’im­menso cortile interno. L’intero isolato era dominato da questo microcosmo in cui un tempo avevano abitato suore e orfane, ra­gazzine di ogni età. Grandi querce protendevano i rami sui mar­ciapiedi. Un filare di antichissimi arbusti di Lagerstroemia indica fiancheggiava la strada laterale verso sud.

Girando intorno al fabbricato, esaminai le alte finestre di ve­tro istoriato della cappella a due piani e notai il tremolio di una luce all’interno, come se fosse presente il Santissimo Sacramento — cosa di cui dubitavo —, poi, raggiunto il retro, scavalcai il muro.

L’edificio aveva alcune porte chiuse a chiave, ma non tutte. Era avviluppato dal silenzio, e nell’inverno mite ma, comunque, presente di New Orleans, l’interno era più freddo dell’esterno.

Entrai con cautela nel corridoio a pianoterra e mi ritrovai su­bito ad ammirare le proporzioni dell’ex convento, l’imponenza e l’ampiezza dei corridoi, l’intenso profumo delle pareti con i mattoni a vista e il gradevole aroma dei pavimenti fatti di assi di pino americano. Il tutto aveva un che di grezzo, sfoggiando il carattere rustico tanto in voga tra gli artisti delle grandi città che vivono in vecchi magazzini o chiamano loft i loro immensi ap­partamenti.

Ma questo non era un magazzino. Era stato un’abitazione, e in un certo senso consacrata. Me ne accorsi subito. Percorsi len­tamente il lungo corridoio che portava alla scalinata di nord-est. Dora abitava sopra, alla mia destra, nella torre di nord-est, e il suo alloggio cominciava solo al terzo piano.

Non percepii alcuna presenza nell’edificio. Niente profumo di Dora né rumori prodotti da lei. Sentii i topi, gli insetti, un ani­male poco più grande di un topo, forse un procione, che mangia­va in un punto imprecisato del solaio, e poi cercai d’individuare eventuali spettri, come li chiamava David... quelli che io preferi­sco definire spiriti o Poltergeist.

Rimasi immobile, con gli occhi chiusi. In ascolto. Sembrava che il silenzio mi rinviasse flebili emanazioni di diverse persona­lità, ma erano decisamente troppo deboli e troppo mescolate per toccare il mio cuore o suscitare un pensiero in me. Sì, fantasmi lì, e anche lì... ma non percepii nessuna turbolenza spirituale, nes­suna tragedia irrisolta o ingiustizia perdurante. Anzi, sembrava regnare una certa immobilità e stabilità spirituale.

L’edificio era a posto. Penso che apprezzasse di essere stato ri­portato alla sua essenzialità ottocentesca; persino i soffitti a tra­vetti, benché non costruiti per restare a vista, risultavano comunque splendidi senza l’intonaco, col loro legno scuro e massiccio, perfettamente livellato, perché a quei tempi tutte le opere di fale­gnameria erano state eseguite con estrema accuratezza.

La scalinata era originale. Avevo salito un migliaio di scalinate simili costruite a New Orleans. Il fabbricato di Dora ne contene­va almeno cinque. Conoscevo la lieve curvatura di ogni gradino, consumato da piedi infantili, la superficie serica del corrimano che per un secolo era stato cosparso di cera innumerevoli volte. Conoscevo il pianerottolo ricavato a ridosso di una finestra ester­na, ignorando la forma o l’esistenza di quest’ultima e dividendo semplicemente in due la luce che entrava dalla strada.

Quando raggiunsi il secondo piano, mi resi conto di trovarmi sulla soglia della cappella. Lo spazio non mi era sembrato così ampio dall’esterno. In realtà, era vasta come molte delle chiese che avevo visto ai miei tempi. Una ventina di banchi era ordina­tamente allineata sui due lati della navata centrale; il soffitto a stucchi era a volta e delimitato da eleganti modanature; antichi medaglioni erano ancora fissati saldamente all’intonaco, al quale un giorno erano stati di sicuro sospesi dei lampadari a bracci con lumi a gas. Le finestre dai vetri istoriati, benché prive di figure umane, erano state realizzate con notevole maestria, come il lam­pione metteva in risalto; e i nomi dei mecenati erano inscritti sul­la sezione inferiore di ciascuna finestra. Non c’erano luci sull’al­tare, solo una fila di candele davanti a una Maria Regina di gesso, cioè una Vergine che portava una corona riccamente decorata.

La cappella doveva essere più o meno come l’avevano lasciata le suore quando il convento era stato venduto. C’era persino l’acquasantiera, benché non sorretta da un angelo gigantesco; era semplicemente un bacile di marmo posato su un piedistallo.

Entrando, passai sotto una cantoria, stupito dalla purezza e dalla simmetria del suo disegno architettonico. Com’era, vivere in un edificio dotato di cappella privata? Duecento anni prima mi ero inginocchiato più di una volta in quella di mio padre, ma si era trattato semplicemente di una minuscola stanza di pietra nel nostro castello, e l’ambiente in cui mi trovavo adesso, così va­sto, coi suoi vecchi ventilatori elettrici oscillanti che creavano un po’ di brezza d’estate, non sembrava meno autentico di quanto fosse stata l’angusta cappella di mio padre.

Questa somigliava di più a una cappella reale e, d’un colpo, l’intero convento mi sembrò una reggia, invece di un istituto. M’immaginai a viverci, non nel modo che Dora avrebbe apprez­zato, ma nello sfarzo, con chilometri di pavimenti lucidi che si estendevano davanti a me mentre, ogni notte, andavo a pregare in questo grande santuario.

Mi piaceva, quel posto. Un’idea mi balenò nella mente: comprare un convento, trasformarlo nella mia reggia, vivere nella sua sicurezza e magnificenza in un punto dimenticato di una città moderna! Fui assalito dalla bramosia, e il mio rispetto per Dora si rafforzò.

Innumerevoli europei abitavano ancora in simili edifici, a più piani, le ali secondarie poste l’una di fronte all’altra in costose corti private. Parigi vantava di sicuro parecchie ville come que­sta. Ma in America la prospettiva di vivere in un lusso del genere risultava davvero allettante.

Tuttavia non era stato questo il sogno di Dora. Lei voleva ad­destrare lì le sue donne, le sue predicatrici che avrebbero diffuso la parola di Dio con lo stesso ardore di san Francesco o di Bonaventura.

Be’,se la sua fede fosse stata tutt’a un tratto messa in crisi dal­la morte di Roger, avrebbe potuto vivere lì nella magnificenza.

E quale possibilità avevo io d’influenzare il sogno di Dora? Di chi avrei esaudito i desideri se, chissà come, l’avessi messa nella posizione di accettare la sua immensa ricchezza e trasformarsi in una principessa dentro quell’elegante palazzo? Un essere umano salvato dall’infelicità che la religione può tanto agevolmente pro­vocare?

Non era un’idea del tutto malvagia. Era proprio da me: pen­sare in termini di paradiso sulla terra, appena dipinto in tinte pa­stello, pavimentato di pietra pregiata, e col riscaldamento cen­trale.

Terribile, Lestat.

Chi ero per pensare cose simili? Ehi, avremmo potuto vivere lì come la Bella e la Bestia, Dora e io. Scoppiai in una fragorosa risata. Un brivido mi corse lungo la schiena, ma non sentii i passi. All’improvviso, fui assalito da un senso di solitudine. Rimasi in ascolto. M’infuriai. «Non osare avvicinarti a me, adesso. Mi tro­vo in una cappella. Sono al sicuro! Al sicuro come se fossi in una cattedrale», sussurrai al Pedinatore che non era lì, per quanto ne sapessi.

Mi chiesi se stesse ridendo di me. Lestat, è tutto frutto della tua immaginazione.

Non aveva importanza. Percorri la navata di marmo fino alla cancellata dell’altare. Sì, ce n’era ancora una. Osserva ciò che hai davanti e, per il momento, non pensare.

La voce incalzante di Roger parlava all’orecchio della mia me­moria. Ma amavo già Dora, vero? Ero lì. Avrei di sicuro fatto qualcosa. Ma stavo prendendo tempo!

I miei passi echeggiarono in tutta la cappella. Lasciai che lo facessero. Le Stazioni della Croce, piccole, scolpite ad altorilievo nello stucco, erano ancora appese tra le finestre di vetro istoria­to, girando come di consueto tutt’intorno alla chiesa, mentre l’al­tare era scomparso dalla sua profonda nicchia arcuata; al suo po­sto spiccava un enorme Cristo in croce.

I crocifissi mi hanno sempre affascinato. Esistono diversi mo­di di rappresentare i vari dettagli, e l’arte del Cristo in croce riempie da sola molti musei del mondo, oltre alle cattedrali e alle basiliche che sono divenute musei. Ma quello, persino per me, era davvero notevole: enorme, antico, molto realistico nello stile tipico del tardo Ottocento, il succinto perizoma del Cristo che si attorcigliava nel vento, il suo viso scarno e profondamente addo­lorato. Era sicuramente una delle scoperte di Roger, perché era troppo grande per l’abside e inoltre di pregevolissima fattura, mentre i santi di gesso disseminati qua e là sui piedistalli — la pre­vedibile e graziosa santa Teresa di Lisieux con la tonaca carmeli­tana, la croce e il mazzo di rose; san Giuseppe col giglio; e persi­no Maria Regina con la corona nell’altarino accanto all’altare — erano tutti più o meno convenzionali, a grandezza naturale e ac­curatamente dipinti, ma di certo non opere d’arte di valore.

Il Cristo crocifisso ti spingeva a prendere una decisione; t’induceva a pensare: «Odio il cristianesimo, così sanguinario» op­pure suscitava in te un sentimento più doloroso, magari il ricordo della volta in cui, da giovane, avevi immaginato le tue mani trafitte da quei particolari chiodi. Quaresima. Meditazioni. La Chiesa. La voce del sacerdote che intonava le parole: Nostro Signore.

Provai sia l’odio sia il dolore. Indugiando lì tra le ombre, guardando le luci esterne tremolare e sfavillare nei vetri istoriati, sentii vicino a me i ricordi dell’adolescenza, o forse mi limitai a tollerarli. Poi pensai all’amore di Roger per la figlia e capii che i ricordi non erano niente mentre l’amore era tutto. Salii i gradini che un tempo avevano portato all’altare e al tabernacolo. Solle­vai una mano per toccare il piede della figura crocifissa. Legno vecchio. Tremolio di inni, fioco e reticente. Alzai lo sguardo ver­so il volto e vidi un’espressione non contorta dalla sofferenza, ma saggia e imperturbabile, forse quella degli ultimi istanti pri­ma della morte.

Un forte rumore echeggiante risuonò in un punto imprecisato della costruzione. Indietreggiai troppo in fretta, inciampai e mi ritrovai a fissare la chiesa. Qualcuno si era mosso nell’edificio, qualcuno che camminava lento al piano inferiore e si avvicinava alla stessa scalinata salendo la quale avevo raggiunto la porta del­la cappella.

Mi spostai rapidamente verso l’entrata del vestibolo. Non riu­scivo a sentire nessuna voce né a individuare nessun odore! Nes­sun odore. Ebbi un tuffo al cuore. «Basta, non lo sopporto!» sussurrai. Stavo già tremando. Però ci sono odori mortali che non percepisco così agevolmente; bisogna tenere conto della brezza, o, meglio, delle correnti d’aria, che lì erano considerevoli. La figura stava salendo i gradini.

Mi piegai all’indietro, nascosto dalla porta della cappella, per poterla vedere mentre svoltava sul pianerottolo. Se si fosse trat­tato di Dora mi sarei subito nascosto.

Ma non era Dora, e salì la scala così rapidamente, avvicinan­dosi a me con passo leggero e vivace, che capii chi fosse solo mentre mi si fermava davanti. L’Uomo Comune.

Rimasi immobile, guardandolo. Non proprio alto come me; non proprio robusto come me; normale sotto ogni punto di vi­sta, esattamente come ricordavo. Privo di odore? No, ma l’odore non era quello giusto. Era mischiato a sangue e sudore e sale, e sentivo un flebile battito cardiaco...

«Non tormentarti. Sto cercando di decidere: dovrei farti la mia proposta adesso oppure dopo che sarai restato coinvolto con Dora? Non so cosa sia più indicato», disse, in tono civile e diplomatico.

In quel momento distava da me poco più di un metro.

Mi appoggiai con aria arrogante allo stipite della porta del ve­stibolo e incrociai le braccia. La cappella si trovava alle mie spal­le. Sembravo spaventato? Lo ero? Stavo per morire di paura?

«Hai intenzione di dirmi chi sei e cosa vuoi, oppure devo farti delle domande per cavartelo fuori?» chiesi.

«Sai benissimo chi sono», rispose nello stesso modo semplice e diretto.

All’improvviso, ebbi un’illuminazione. La caratteristica fuori del comune erano le proporzioni del suo corpo e del suo viso. La regolarità. Era un uomo piuttosto banale.

Sorrise. «Precisamente. È la forma che preferisco in ogni epo­ca e in ogni luogo, perché non attira l’attenzione. Andarsene in giro con ali nere e zampe caprine, sai... sconvolge a tal punto i mortali.» Anche stavolta il tono era benevolo.

«Voglio che tu esca di qui prima che arrivi Dora!» sbottai. Mi ero all’improvviso trasformato in un pazzo farfugliante.

Lui si voltò, si diede una pacca sulla coscia e scoppiò a ridere. «Sei un marmocchio viziato, Lestat. Le tue coorti ti hanno attri­buito il soprannome adatto. Tu non puoi dare ordini a me», ri­spose con voce tranquilla e pacata.

«Non capisco perché. E se ti buttassi fuori?»

«Ti piacerebbe provarci? Devo assumere l’altra mia forma? Devo lasciare che le mie ali...»

Sentii un chiacchierio di voci e la mia vista cominciò ad an­nebbiarsi per un improvviso polverone. «No!» gridai.

«D’accordo.»

La metamorfosi s’interruppe e il polverone si posò. Sentii il mio cuore premere contro il torace come se volesse uscire.

«Voglio dirti cosa intendo fare. Ti lascerò gestire la situazione con Dora, visto che ne sembri ossessionato. E non potrò disto­glierti dalla faccenda. Poi, quando avrai finito con tutto ciò, con questa ragazza, i suoi sogni e roba simile, noi due potremo parla­re», spiegò.

«Di cosa?»

«Della tua anima, di cos’altro?»

«Sono pronto ad andare all’inferno», risposi, mentendo spu­doratamente. «Ma non credo che tu sia ciò che sostieni di essere. Sei qualcosa, qualcosa come me per cui non esistono spiegazioni scientifiche, però dietro tutto ciò c’è un piccolo, insulso nucleo di elementi che alla fine metteranno a nudo ogni cosa, persino la consistenza di ogni piuma nera delle tue ali.»

Lui si accigliò appena, ma non era arrabbiato. «Non conti­nueremo con questo ritmo, te l’assicuro. Per il momento ti la­scerò pensare a Dora, che sta tornando a casa; la sua auto si è ap­pena fermata nel cortile. Io sto per uscire, con andatura regolare, da dove sono entrato. E voglio darti un consiglio, per il bene di entrambi.»

«Quale?»

Mi diede le spalle e cominciò a scendere la scala, rapido e vi­vace come quando l’aveva salita. Non si voltò finché non ebbe raggiunto il pianerottolo. Avevo già captato l’odore di Dora. «Che consiglio?» domandai.

«Lascia perdere Dora. Affida la gestione dei suoi affari ad av­vocati umani. Vattene di qui. Abbiamo questioni più importanti di cui discutere. Tutto ciò è una tale fonte di distrazione...» Poi scese rumorosamente la scalinata e uscì da una porta laterale, che sentii aprirsi e chiudersi.

Quasi subito dopo, sentii Dora varcare l’ingresso posteriore principale al centro dell’edificio, lo stesso da cui ero entrato io e da cui era entrato lui, e imboccare il corridoio.

Cantava sommessamente, o forse dovrei dire che canticchiava a bocca chiusa. Emanava il dolce aroma di sangue uterino. Me­struazioni. In modo irritante, questo amplificava l’odore succu­lento della bambina mi si stava avvicinando.

Indietreggiai, nascondendomi tra le ombre del vestibolo. Lei non mi avrebbe visto né avrebbe avuto il minimo sentore della mia presenza mentre mi passava davanti e poi saliva la scala se­guente, raggiungendo la sua stanza al terzo piano.

Stava salendo i gradini a due a due e arrivò al secondo piano. Aveva uno zainetto sulla spalla e indossava un bell’abito ampio di cotone a fiori, con lunghe maniche bordate di pizzo bianco. Svoltò per salire i gradini ma, d’un tratto, si bloccò. Si girò verso di me. M’immobilizzai. Non poteva certo vedermi nella penombra. Poi mi si avvicinò e allungò una mano. Vidi le sue dita candide toccare qualcosa sulla parete, un interruttore. Un semplice interruttore di plastica bianca, e tutt’a un tratto dalla lampadina soprastante sgorgò una cascata di luce.

Immaginate la scena: l’intruso biondo, gli occhi nascosti dagli occhiali viola, elegante e impeccabile — non più macchiato del sangue del padre di lei —, in giacca e pantaloni di lana nera.

Alzai le mani come per dire che non volevo farle del male! Ero senza parole. Sparii. Cioè, la oltrepassai con una tale rapidità che quasi non se ne accorse; la sfiorai così come l’avrebbe sfiora­ta l’aria. Tutto qui. Salii le due rampe di scale fino al solaio e var­cai una porta aperta sugli spazi vuoti sopra la cappella, dove solo poche finestre d’abbaino lasciavano entrare dalla strada una luce fioca. Una delle finestre era rotta. Un modo rapido per uscire. Ma mi fermai e mi sedetti nell’angolo, immobilizzandomi. Mi fe­ci piccolo. Accostai le ginocchia al petto, mi sistemai gli occhiali e guardai, sul lato opposto del solaio, la porta da cui ero entrato.

Non udii urla. Non udii nulla. Lei non era stata assalita dall’i­steria, non stava correndo come una pazza in giro per l’edificio. Non aveva attivato nessun allarme. Intrepida, era rimasta in si­lenzio dopo aver visto un intruso. A parte un vampiro, cosa esi­ste al mondo che sia altrettanto pericoloso di un giovane umano, per una donna sola?

Mi accorsi che mi battevano i denti. Strinsi a pugno la mano destra e la picchiai sul palmo sinistro. Demone o uomo, chi dia­mine sei? Aspettarmi, dirmi di non parlarle, che stratagemmi, non parlarle, non le avrei mai parlato; Roger, cosa diamine devo fare adesso? Non avevo mai desiderato che lei mi vedesse così!

Non sarei mai e poi mai dovuto venire qui senza David. Mi occorreva il sostegno di un testimone. E l’Uomo Comune avreb­be osato salire, se David fosse stato lì? Lo odiavo. Ero prigionie­ro in un gorgo. Non sarei sopravvissuto.

E questo cosa significava? Cosa mi avrebbe ucciso?

All’improvviso, mi resi conto che lei stava salendo le scale. Stavolta camminava lenta e silenziosa. Un mortale non sarebbe riuscito a sentirla. Aveva con sé la torcia elettrica; prima non l’avevo notata, ma adesso l’aveva, e il fascio di luce entrò dalla porta aperta del solaio e corse sulle scure assi inclinate della parte in­terna del tetto.

Lei entrò nel solaio e spense la torcia. Si guardò intorno con estrema cautela, gli occhi inondati dalla luce bianca proveniente dalle finestre rotonde. Si potevano vedere le cose piuttosto distintamente grazie a quelle finestre e alla vicinanza dei lampioni stradali.

Infine il suo sguardo mi scovò. Lei mi fissò in modo diretto, lì nell’angolo.

«Perché hai paura?» chiese. Il suo tono era rassicurante.

Mi resi conto di essere schiacciato nell’angolo, le gambe in­crociate, le ginocchia sotto il mento, le braccia serrate intorno al­le gambe, guardandola dal basso.

«Mi... mi dispiace. Temevo... di averti spaventata. Mi vergo­gnavo di averti sconvolta. Sentivo di essere stato imperdonabil­mente goffo», mi scusai.

Si avvicinò a me, senza mostrare nessuna paura. Il suo odore riempì lentamente il solaio, come il vapore di un pizzico d’incen­so che brucia.

Sembrava alta e flessuosa nell’abito a fiori coi polsini orlati di pizzo. I corti capelli neri le coprivano la testa come un berretto, formando dei riccioli sulle guance. I suoi occhi erano grandi e scuri, e mi fecero pensare a Roger. Il suo sguardo era decisamen­te straordinario; sarebbe riuscita a innervosire un predatore, con quello sguardo, la luce che le colpiva le gote, la bocca rilassata e priva di qualsiasi emozione.

«Posso andarmene subito, se vuoi. Posso alzarmi con molta lentezza e andarmene senza farti del male. Lo giuro. Non devi aver paura», dissi con voce tremula.

«Perché tu?» chiese.

«Non capisco la domanda», dissi. Stavo piangendo? Stavo solo rabbrividendo e tremando? «Cosa intendi dire con: ‘Perché tu’?»

Si avvicinò ancora e abbassò lo sguardo su di me. Riuscivo a distinguerla molto chiaramente.

Forse vide una zazzera di capelli biondi e lo scintillio della lu­ce sui miei occhiali, e che sembravo giovane.

Io vidi le arcuate ciglia nere, il mento minuto ma deciso, e il modo in cui le spalle s’inclinavano così bruscamente sotto l’abito merlettato e a fiori che sembravano sparire; quasi una sagoma raffigurante una ragazza, una donna di sogno, pura come un giglio. Il suo minuscolo vitino sotto il tessuto dell’ampio vestito diritto sarebbe parso inesistente, tra le braccia di qualcuno.

Nella sua presenza c’era qualcosa di quasi glaciale. Non appa­riva fredda né malvagia, ma intimoriva come se lo fosse stata! Era questa la santità? Mi chiesi se mi fossi mai trovato davanti un vero santo. Avevo una peculiare concezione del termine, vero?

«Perché sei venuto tu a dirmelo?» chiese dolcemente.

«A dirti cosa, tesoro?» domandai.

«Di Roger. Che è morto.» Inarcò le sopracciglia con un gesto quasi impercettibile. «È per questo che sei venuto, vero? L’ho capito non appena ti ho visto, ho capito che Roger era morto. Ma perché sei venuto tu?» S’inginocchiò davanti a me.

Emisi un gemito prolungato. Così, me l’aveva letto nel pensie­ro! Il mio grande segreto. La mia importante decisione. Parlare con lei? Discutere con lei? Spiarla? Ingannarla? Consigliarla? E la mia mente l’aveva schiaffeggiata bruscamente con la bella no­tizia: Ehi, tesoro, Roger è morto!

Si spostò vicino a me. Troppo vicino. Non avrebbe dovuto farlo. Di lì a un attimo avrebbe cominciato a urlare. Sollevò la torcia elettrica spenta.

«Non accenderla», intimai.

«Perché non vuoi? Non te la punterò in faccia, lo prometto. Voglio soltanto vederti.»

«No.»

«Senti, non mi fai paura, se è questo che stai pensando», spiegò con semplicità, senza drammi, i pensieri che turbinavano disordinatamente sotto le parole, la mente che abbracciava ogni dettaglio.

«Come mai?»

«Perché Dio non permetterebbe mai a un essere come te di farmi del male. Ne sono sicura. Sei un demone o uno spirito ma­ligno? Sei uno spirito benevolo? Non lo so, non posso saperlo. Se mi faccio il segno della croce, forse sparirai, ma ne dubito. Quello che voglio sapere è perché hai tanta paura di me. Non si tratta sicuramente della virtù, vero?»

«Aspetta solo un secondo, torna indietro. Vuoi dire che sai che non sono umano?»

«Sì. Riesco a vederlo. Lo sento! Ho già visto esseri come te. Li ho visti a frotte nelle grandi città, solo visioni fugaci. Ho visto pa­recchie cose. Non ho intenzione di dire che mi dispiace per te perché sarebbe molto stupido, ma non ho paura di te. Sei legato alla terra, vero?»

«Decisamente, sì. E spero di rimanerlo a tempo indetermina­to. Senti, non intendevo scioccarti con la notizia. Volevo bene a tuo padre», risposi.

«Davvero?»

«Sì. E... e lui ti amava profondamente. Voleva che ti dicessi alcune cose. Ma soprattutto desiderava che mi prendessi cura di te.»

«Non ne sembri capace. Somigli a un elfo spaventato. Guar­dati.»

«Non sei tu a terrorizzarmi, Dora!» esclamai, improvvisa­mente spazientito. «Non so cosa stia succedendo! Sono vincola­to alla terra, sì, questo è vero. E ho... ho ucciso io tuo padre. Ho preso la sua vita. Sono stato io a fargli una cosa simile. E in segui­to lui mi ha parlato. ‘Prenditi cura di Dora’,mi ha detto. È venu­to da me per chiedermi di badare a te. Ecco tutto. Non sei tu a spaventarmi. È piuttosto la situazione, il fatto di non essermi mai trovato in circostanze analoghe, di non aver mai affrontato simili domande!»

«Capisco!» Era sbalordita. Tutto il suo viso bianco scintillava come se stesse sudando. Il suo cuore batteva all’impazzata. Chinò il capo. Era impossibile leggerle nel pensiero. Non ci riu­scivo. Ma era addolorata, questo era evidente, e adesso le lacrime le stavano solcando le guance. Non riuscivo a sopportarlo.

«Oh, Dio, è come se mi trovassi all’inferno. Non avrei dovuto ucciderlo. L’ho... l’ho fatto per i motivi più banali. Lui era sem­plicemente... Si è trovato sulla mia strada. È stato un terribile er­rore. Ma poi è venuto da me. Dora, abbiamo parlato per ore, il suo fantasma e io. Mi ha raccontato tutto di te, delle reliquie e di Wynken», mormorai.

«Wynken?» Mi guardò.

«Sì, Wynken de Wilde, sai, i dodici libri. Senti, Dora, se ti tocco la mano per cercare di consolarti, forse funzionerà, ma non voglio che tu urli.»

«Perché hai ucciso mio padre?» chiese. Tuttavia non inten­deva solo quello, mi stava domandando perché qualcuno che parlava come me avesse potuto fare una cosa simile.

«Volevo il suo sangue. Mi nutro del sangue altrui. Ecco come rimango giovane e vivo. Credi negli angeli? Allora puoi credere anche nei vampiri. Credi in me. Ci sono cose peggiori sulla ter­ra.»

Sembrava sbigottita.

«Nosferatu. Verdilak. Vampiro. Lamia. Vincolati alla terra.» Mi strinsi nelle spalle, scossi il capo. Mi sentivo del tutto impo­tente. «Esistono altre specie di esseri. Ma Roger, dopo il fatto, è venuto a parlarmi con la sua anima sotto forma di fantasma, a parlarmi di te.»

Cominciò a tremare e a piangere. Ma non era follia. I suoi oc­chi si restrinsero per le lacrime e il suo viso si raggrinzì per la tri­stezza.

«Dora, non ti farei del male per nulla al mondo, lo giuro. Non ti farò del male...»

«Mio padre è proprio morto, vero?» chiese, e tutt’a un tratto crollò, il viso tra le mani, le spalle minute scosse dai singhiozzi. «Mio Dio, Dio, aiutami! Roger!» gridò. «Roger!» Si fece il se­gno della croce e rimase seduta lì, singhiozzante ma senza paura.

Aspettai. Le sue lacrime e il suo dolore sembravano inesauri­bili. Si disperava sempre più; si piegò in avanti e si accasciò sul pavimento di legno. Continuava a non aver paura di me. Era co­me se io non mi trovassi lì.

Mi staccai, lento, dall’angolo. Ci si poteva raddrizzare agevol­mente in quel solaio, se ci si allontanava dagli angoli. Le girai in­torno e poi, con delicatezza, allungai le mani per stringerle le spalle.

Non oppose resistenza; stava singhiozzando, e la sua testa ciondolava come se fosse ubriaca di dolore; le mani si mossero, ma solo per sollevarsi e cercare di afferrare qualcosa che non c’e­ra. «Dio, Dio, Dio», gridava. «Dio... Roger!»

La costrinsi ad alzarsi. Era leggera come avevo immaginato, ma simili dettagli sono comunque irrilevanti per chi è forte come me. La portai fuori del solaio. Si abbandonò contro il mio petto.

«Lo sapevo, l’ho capito quando mi ha baciato, ho capito che non l’avrei più rivisto. Lo sapevo...» mormorò tra un singhiozzo e l’altro. Le sue parole risultavano a malapena intelligibili. Era talmente piccola e fragile che dovevo stare attentissimo, e quan­do la sua testa ricadde all’indietro, il viso era così pallido da po­ter ridurre in lacrime anche un demone.

Raggiunsi la porta della sua camera. Dora era accasciata con­tro di me, simile a una bambola di pezza gettata tra le mie braccia, e non opponeva resistenza. Dalla sua stanza usciva un lieve tepore; aprii la porta con una spinta.

Essendo stata in origine un’aula scolastica o addirittura un dormitorio, la camera era enorme, situata nell’angolo dell’edifi­cio, con eleganti finestre sui due lati e inondata dalla luce della strada. Anche i veicoli di passaggio la illuminavano.

Vidi il suo letto addossato alla parete di fronte, un vecchio let­to di ferro, piuttosto spartano, forse originariamente di proprietà del convento, molto stretto, con l’alto telaio rettangolare per la zanzariera ancora intatto, anche se ormai privo di qualunque re­ticella. La vernice bianca sulle sottili barre di ferro era scrostata. Vidi ovunque scaffali pieni di libri, pile di libri, volumi aperti con tanto di segnalibro e posati su leggii di fortuna; e le reliquie, forse a centinaia, quadri, e statue, e forse oggetti che Roger le aveva dato prima che lei scoprisse la verità. Sulle intelaiature li­gnee di porte e finestre erano state scritte, in corsivo e con in­chiostro nero, delle parole.

Mi avvicinai al letto e vi adagiai Dora. Lei affondò con gratitu­dine nel materasso e nel cuscino. Lì tutto era lindo, fresco, e lava­to tanto spesso e tanto accuratamente da sembrare quasi nuovo.

Le offrii il mio fazzoletto di seta. Lo prese, poi lo guardò e dis­se: «Ma è troppo bello».

«No, usalo pure, ti prego. Non è niente. Ne ho centinaia d’al­tri.»

Mi fissò in silenzio, poi si asciugò il viso. Il suo cuore stava battendo più lentamente, ma il suo odore era stato reso ancora più intenso dalle emozioni. Il flusso mestruale. Veniva ordinata­mente assorbito da un tampone di cotone bianco sistemato tra le cosce. Permisi a me stesso di pensarci, adesso, perché il flusso era intenso e io trovavo l’odore prepotentemente delizioso. Co­minciò a torturarmi, il pensiero di leccare quel sangue. Non è sangue puro, capite, ma viene trasportato dal sangue e io prova­vo la normalissima tentazione che assale i vampiri in simili circo­stanze, la tentazione di leccare il sangue dalla più bassa delle bocche di Dora, tra le sue gambe, un modo per cibarmi di lei senza farle alcun male.

Se non che, date le circostanze, questo era un pensiero assolu­tamente indegno e assurdo.

Ci fu una lunga pausa di silenzio.

Mi limitai a restare seduto su una sedia di legno dallo schiena­le dritto. Sapevo che lei era di fianco a me, seduta a gambe incro­ciate, e che aveva trovato una scatola di fazzolettini di carta che le davano un po’ di sollievo, e si stava soffiando il naso e asciu­gando gli occhi. Stringeva ancora il mio fazzoletto di seta.

Era eccitata dalla mia presenza ma non spaventata, e di gran lunga troppo immersa nel dolore per godersi questa conferma di migliaia di credenze, la compagnia di un vibrante non-umano, che appariva e parlava come se fosse umano. In quel preciso istante non poteva permettersi di assimilare la cosa, ma neppure poteva travalicarla. La sua mancanza di paura significava autenti­co coraggio. Non era stupida. Si trovava in un luogo talmente al di là della paura che i codardi non potrebbero nemmeno conce­pirlo.

Gli sciocchi l’avrebbero forse considerata fatalista, eppure non si trattava di fatalismo, era la capacità di pensare al futuro, e quindi di bandire completamente il panico. Alcuni mortali devo­no sperimentarla poco prima di morire, quando il gioco è finito e ognuno ha già detto addio. Lei osservava ogni cosa in quella pro­spettiva fatale, tragica, infallibile.

Fissai il pavimento. No, non innamorarti di lei.

Le assi di pino americano erano state sabbiate, verniciate e co­sparse di cera. Il colore dell’ambra. Splendido. L’intero palazzo avrebbe potuto avere questo aspetto, un giorno. La Bella e la Be­stia. E come Bestia, insomma, credetemi, sono uno schianto.

Mi detestai perché mi stavo divertendo tanto in un momento così drammatico, immaginando di danzare con lei nei corridoi. Pensai a Roger, e questo mi riportò rapidamente al presente e al­l’Uomo Comune, ah, quel mostro che mi stava aspettando!

Guardai la scrivania di Dora: due telefoni, il computer, altri li­bri impilati, e nell’angolo un piccolo televisore, apparentemente utilizzato solo per motivi di studio, lo schermo non più largo di dieci o dodici pollici, anche se era connesso con un lungo cavo nero arrotolato e serpeggiante che, come ben sapevo, lo collega­va al mondo intero. C’era una miriade di altri apparecchi elettro­nici lampeggianti. Non era una cella monacale. Le parole, che sembravano scarabocchiate sulle intelaiature bianche di porte e finestre, in realtà formavano frasi compiute, quali «il mistero si oppone alla teologia», «strana agitazione» e, tra tutte le cose possibili, il verso di Keats: «Nel buio, io ascolto».

Sì, pensai, il mistero si oppone alla teologia; era un concetto che Roger aveva cercato di spiegarmi, cioè che Dora non aveva avuto il successo che meritava perché dentro di lei il mistico e il teologico erano mescolati, ma tale fusione non funzionava con l’ardore o la magia adeguati. Roger aveva ripetuto spesso che lei era una teologa, e lui naturalmente considerava misteriose le proprie reliquie. E infatti lo erano.

Fui assalito da un vago ricordo d’infanzia, il ricordo di aver guardato il crocifisso nella nostra chiesa, a casa nell’Auvergne, ed essere rimasto spaventato dalla vista del sangue dipinto che colava dai chiodi. Dovevo essere molto piccolo. Prima di com­piere quindici anni fornicavo già con le ragazzine del villaggio sul retro di quella chiesa... una sorta di prodigio all’epoca, ma in fin dei conti nel nostro villaggio ci si aspettava che il figlio del si­gnore fosse un perfetto stallone; tutti se lo aspettavano. E invece i miei fratelli, un gruppetto così tradizionalista, avevano deluso i fautori della mitologia locale, comportandosi sempre in modo irreprensibile. Fu un vero miracolo che le messi non risentissero della loro meschina virtù. Sorrisi. Avevo di certo compensato le loro carenze. Ma quando avevo osservato il crocifisso dovevo avere sei o sette anni al massimo, e avevo detto: «Che modo orri­bile di morire!» Mi era sfuggito di bocca, e mia madre aveva riso a lungo. Mio padre, invece, si era sentito così umiliato!

Il traffico su Napoleon Avenue produceva rumori fiochi, pre­vedibili e vagamente confortanti. Be’,confortanti per me.

Sentii Dora sospirare, e poi sentii la sua mano sul mio braccio, una stretta delicata, solo per un attimo, dita che premevano sui miei abiti, bramando la consistenza sottostante, e infine le sue di­ta mi sfiorarono il viso.

Per qualche strano motivo i mortali fanno un gesto del genere quando vogliono accertarsi della nostra presenza, piegano le dita e passano le nocche sul nostro viso. Rappresenta forse un modo per toccare qualcuno senza dare l’impressione di farlo? Immagi­no che il palmo della mano, il morbido cuscinetto delle dita, sia troppo intimo.

Non mi mossi. La lasciai fare come se fosse stata cieca e la mia disponibilità rappresentasse una cortesia. Lasciai che le sue dita si spostassero sui miei capelli. Sapevo che c’era abbastanza luce perché apparissero selvaggi e leggiadri come speravo, conside­rando che ero un essere sfacciato, vanitoso, che amava pavoneggiarsi, egoista, e momentaneamente confuso e disorientato.

Lei si fece di nuovo il segno della croce, ma non aveva mai avuto davvero paura. Stava semplicemente confermando qualco­sa, immagino. Anche se l’identificazione di quel qualcosa rimane opinabile, a ben pensarci. Pregò in silenzio.

«Anch’io posso farlo», dissi. Lo feci. «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.» Ripetei l’intera proce­dura, stavolta usando il latino.

Lei mi osservò con un’espressione fissa, meravigliata, poi si la­sciò sfuggire una risatina gentile.

Sorrisi. Il letto e la sedia — dove sedevamo così vicini l’uno al­l’altra — si trovavano nell’angolo. C’era una finestra sopra la sua spalla, e una dietro di me. Finestre, finestre, era una reggia di finestre. Il soffitto in legno scuro doveva essere alto quattro metri e mezzo. Adoravo le armoniche proporzioni di quella stanza. Era tipicamente europea. Nulla era stato sacrificato alle più ri­dotte dimensioni moderne.

«Sai», dissi, «la prima volta che sono entrato a Notre-Dame, dopo essere stato trasformato in ciò che sono, in un vampiro cioè, e comunque non fu una mia idea, ero completamente umano e più giovane di quanto tu non sia adesso; l’intera faccenda fu for­zata, davvero, non ricordo di preciso se pregai mentre successe, ma lottai, questo lo ricordo con chiarezza e l’ho messo per iscrit­to. Ma... come stavo dicendo, la prima volta che sono entrato a Notre-Dame ho pensato: be’,perché Dio non m’incenerisce?»

«Perché hai sicuramente un tuo posto nell’ordine delle co­se.»

«Credi? Lo credi davvero?»

«Sì. Non avevo mai immaginato di potermi ritrovare a faccia a faccia con qualcosa come te, ma non l’ho mai neppure giudica­to impossibile o improbabile. Per tutti questi anni ho aspettato un segno, una conferma. Avrei potuto vivere tutta la vita senza questo segno, ma ho sempre avuto la sensazione che sarebbe ar­rivato.»

La sua voce era fioca e tipicamente femminile, cioè il timbro era inconfondibilmente femminile, ma adesso lei stava parlando con un’incredibile sicurezza, così che le sue parole sembravano colme di autorità, più o meno come quelle di un uomo.

«E ora arrivi tu, e annunci di aver ucciso mio padre. E dici che lui ti ha parlato. No, non sono il tipo da liquidare sbrigativa­mente cose simili. C’è un certo fascino in ciò che dici, un che di elaborato. Sai, quando ero bambina, la primissima ragione per cui credetti nella Sacra Bibbia era che aveva un che di elaborato! Ho percepito altri schemi nella vita. Voglio svelarti un segreto. Una volta ho desiderato che mia madre morisse, e sai che quello stesso giorno, dopo meno di un’ora, lei scomparve per sempre dalla mia vita? Potrei raccontarti molte altre cose. Quello che de­vi capire è che voglio imparare da te. Sei entrato a Notre-Dame e Dio non ti ha incenerito.»

«Voglio raccontarti una cosa che ho trovato divertente. Suc­cesse due secoli fa, a Parigi, prima della rivoluzione. All’epoca a Parigi, nel vasto Cimitero degli Innocenti, scomparso ormai da tempo, nelle catacombe sotto i sepolcri, vivevano alcuni vampiri che non avevano il coraggio di entrare a Notre-Dame. Quando me l’hanno visto fare, anche loro hanno pensato che Dio mi avrebbe incenerito.»

Lei mi stava guardando con aria serena.

«Ho distrutto la loro fede, la loro fede in Dio e nel Diavolo. Ed erano vampiri, creature legate alla terra come me, mezzi de­moni e mezzi uomini, stupidi, inclini a sbagliare, e credevano che Dio li avrebbe inceneriti», spiegai.

«E prima del tuo arrivo avevano davvero una fede?»

«Sì, un’intera religione, sul serio», risposi. «Si consideravano servitori del Diavolo. Lo consideravano un onore. Vivevano co­me vampiri, ma la loro esistenza era miserabile e volutamente pe­nitenziale. Io ero un principe, si potrebbe dire. Attraversavo Pa­rigi con passo spavaldo, coperto da un mantello rosso foderato di pelliccia di lupo. Ma rappresentava la mia vita umana, il man­tello. T’impressiona il fatto che dei vampiri fossero credenti? Ho rivoluzionato tutto, per loro. Credo che non me lo abbiano mai perdonato, i pochi rimasti. Non siamo molto numerosi, a propo­sito...»

«Aspetta un attimo», m’interruppe lei. «Voglio ascoltarti, ma prima devo chiederti una cosa.»

«Cosa?»

«Mio padre: com’è successo, è stata una cosa rapida e...»

«Assolutamente indolore, te lo assicuro. Me l’ha confermato lui stesso. Nessun dolore», ribadii, voltandomi verso di lei, guar­dandola.

Col viso così bianco e i grandi occhi scuri sembrava un gufo, e incuteva un certo timore. Voglio dire che avrebbe potuto spa­ventare un altro mortale, col suo aspetto, con la forza del suo aspetto.

«Quando è morto, tuo padre era in preda al deliquio», spie­gai. «Forse estatico e colmo d’immagini disparate, seguito da una perdita di conoscenza. Il suo spirito ha lasciato il corpo pri­ma che il cuore cessasse di battere. Qualunque dolore fisico io gli abbia inflitto, non l’ha mai sentito; una volta che il sangue viene succhiato, una volta che io... no, non ha sofferto.» Mi voltai per fissarla in modo più diretto. Aveva ripiegato le gambe sotto di sé, rivelando ginocchia bianche sotto l’orlo del vestito. «In seguito ho parlato con Roger per due ore. Due ore. È tornato per un mo­tivo ben preciso, per assicurarsi che avrei badato a te. E per assi­curarsi che i suoi nemici non potessero prenderti, né il governo né tutti i tizi ai quali lui è, o era, collegato. E per fare in modo che la sua morte... non ti ferisse più del necessario.»

«Perché mai Dio dovrebbe fare una cosa simile?» sussurrò.

«Cosa c’entra Dio? Ascolta, tesoro, non so niente di Dio. Te l’ho già detto. Sono entrato a Notre-Dame e non è successo nien­te, né allora né...»

Ora, quella era una bugia, vero? E lui? Venire lì travestito da Uomo Comune, lasciar sbattere quella porta, bastardo arrogan­te, come osava?

«Com’è possibile che questo sia il piano di Dio?» chiese lei.

«Dici sul serio, vero? Senti, potrei raccontarti parecchie cose. Voglio dire che la storia sui vampiri di Parigi che credevano nel Diavolo è solo l’inizio! Ascolta, c’è... c’è...» M’interruppi bruscamente.

«Cosa c’è?»

Quel suono. Quei passi lenti, misurati! Non appena avevo pensato a lui, in modo offensivo e furibondo, i passi erano ini­ziati.

«Stavo... stavo dicendo...» Mi sforzai d’ignorarli, ma li senti­vo avvicinarsi. Il rumore era fioco, eppure si trattava del passo inconfondibile dell’essere alato, che m’informava della sua pre­senza, un pesante passo dopo l’altro, come se echeggiassero in un’immensa sala in cui esistevo separatamente dalla mia esisten­za in questa stanza.

«Dora, devo lasciarti.»

«Cosa c’è?»

I passi erano sempre più vicini.

«Hai il coraggio di venire da me mentre sono con lei!» gridai. Mi ero alzato.

«Cosa c’è?» urlò Dora. Si era inginocchiata sul letto.

Indietreggiai, attraversando la stanza. Raggiunsi la porta. Il rumore dei passi si stava affievolendo. «Va’ all’inferno!» sibilai.

«Dimmi di che si tratta. Tornerai? Stai per lasciarmi per sem­pre?» chiese lei.

«No, assolutamente no. Sono qui per aiutarti. Ascolta, Dora, se hai bisogno di me, chiamami.» Mi posai un dito sulla tempia. «Chiama, chiama e chiama! Come se pregassi, capisci. Non sarà idolatria, Dora, non sono una divinità malvagia. Fallo. Devo an­dare.»

«Come ti chiami?»

I passi continuarono, distanti ma sonori, in un punto impreci­sato dell’immenso edificio, inseguendomi.

«Lestat.» Pronunciai accuratamente il mio nome per lei — Lestat — l’accento tonico sulla seconda sillaba, calcando sulla «t» finale. «Ascolta, nessuno sa di tuo padre. E nessuno lo sco­prirà per un po’. Ho fatto tutto ciò che mi ha chiesto. Ho io le sue reliquie.»

«I libri di Wynken?»

«Ogni cosa, tutto quello che lui considerava sacro... Un’im­mensa fortuna destinata a te e tutti i suoi oggetti che voleva la­sciarti. Devo andare.»

Il rumore dei passi si stava affievolendo? Non ne ero sicuro, ma non potevo correre il rischio di rimanere lì.

«Tornerò appena possibile. Credi in Dio? Aggrappati a quel­lo, Dora, perché potresti benissimo aver ragione su Dio, potresti avere assolutamente ragione!»

Lasciai la stanza come particelle di luce, salendo le scale, uscendo dalla finestra rotta del solaio, e salendo sul tetto, muo­vendomi tanto rapidamente da non sentire nessun rumore di passi. La città sottostante era un affascinante mulinello di luci.

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