23

Rimasi privo di sensi per ventiquattro ore filate, svegliandomi so­lo la sera successiva, mentre il sole moriva dietro il cielo inverna­le. Alcuni dei miei vestiti migliori erano stesi ordinatamente e in bella mostra sulla cassapanca di legno, con accanto un paio di scarpe.

Cercai d’immaginare chi avesse effettuato quella selezione tra tutti gli indumenti che David aveva mandato lì per me dall’alber­go vicino. L’ipotesi più logica era che fosse stato lui. E sorrisi, ripensando a quanto spesso, nel corso della nostra vita, David e io fossimo rimasti intrigati dall’avventura dell’abbigliamento.

Ma, vedete, se un vampiro tralascia dettagli come il vestiario, la storia non ha senso. Persino i personaggi mitici più noti — se sono fatti di carne e sangue — devono preoccuparsi dei lacci dei sandali.

Ebbi allora la consapevolezza di essere tornato dal regno in cui i vestiti cambiavano forma secondo la volontà di chi li indos­sava, la consapevolezza di essere coperto di polvere e di avere una scarpa sola.

Mi alzai, all’erta, estrassi con cautela il velo senza stenderlo o rischiare di guardarlo, pur avendo l’impressione d’intravedere l’immagine scura attraverso il tessuto. Mi sfilai tutti gli indumen­ti, li impilai sulla coperta affinchè non si perdesse neanche un ago di pino. E poi entrai nel bagno vicino — la consueta stanza di piastrelle e intenso vapore — e mi lavai come un uomo che venga battezzato nel Giordano. David mi aveva preparato tutti i giocat­toli necessari: pettini, spazzole, forbici. Ai vampiri non occorre altro.

Lasciai aperta la porta del bagno. Se qualcuno avesse osato metter piede in camera sarei balzato fuori della cascata di vapore e gli avrei intimato di uscire.

Alla fine emersi, lindo e grondante, mi pettinai, mi asciugai accuratamente e indossai i miei indumenti freschi di bucato, strato dopo strato, partendo dai boxer di seta, dalla canottiera e dai calzini neri per poi passare a pantaloni di lana, camicia, pan­ciotto e blazer a doppiopetto di un completo blu.

Poi mi chinai per raccogliere il velo piegato. Lo strinsi delica­tamente, senza avere il coraggio di aprirlo. Tuttavia riuscivo a ve­dere la chiazza scura sul lato opposto del tessuto. Stavolta ne ero sicuro. Infilai il velo sotto il panciotto, che abbottonai.

L’occhio, buon Dio, l’occhio!

Le mie dita salirono a esaminare l’orbita vuota, le palpebre leggermente rugose che cercavano di chiuderla. Cosa fare, cosa fare? Se solo avessi avuto una benda nera, una benda da genti­luomo. Ma non l’avevo.

Il mio viso era profanato dall’occhio mancante. Mi resi conto che stavo tremando violentemente. David mi aveva lasciato una delle mie ampie cravatte simili a sciarpe, di seta viola; me l’avvol­si intorno al collo, in modo che restasse dritta come un antico colletto, molto rigida, circondata da vari strati di tessuto, pro­prio come si potrebbe vedere in un ritratto di Beethoven. Ne in­filai le estremità nel panciotto. Nello specchio, il mio occhio bril­lò assumendo il colore viola della sciarpa. Vidi la macchia nera sul lato sinistro e mi costrinsi a guardarla invece di cercare sem­plicemente di compensarla.

M’infilai le scarpe, fissai di nuovo gli abiti rovinati, raccolsi qualche granello di polvere e qualche pezzetto di foglia secca e posai tutto, accuratamente, sulla coperta, in modo da conservar­ne il più possibile, poi uscii in corridoio.

L’appartamento era piacevolmente tiepido e invaso da un tipo di incenso assai popolare ma non opprimente... qualcosa che mi fece pensare alle chiese cattoliche dei tempi antichi, quando il chierichetto faceva oscillare il turibolo appeso alla catenella.

Quando entrai in soggiorno, li vidi tutti e tre molto distinta­mente, disposti nello spazio vivacemente illuminato, la luce uniforme che trasformava in uno specchio le pareti di vetro die­tro le quali la neve continuava a cadere. Volevo vedere la neve. Li oltrepassai e posai l’occhio contro il vetro. Adesso il tetto di San Patrizio era tutto imbiancato di neve fresca, le alte guglie che se ne scuotevano di dosso il più possibile, anche se ogni minimo motivo ornamentale era decorato di bianco. La strada era un’imperturbabile vallata candida. Lo spazzaneve aveva smesso di pas­sare?

Alcuni newyorkesi si muovevano lì sotto. Si trattava soltanto di esseri viventi? Li fissai con l’occhio destro. Riuscivo a vedere solo quelli che sembravano i viventi. Esaminai il tetto della chiesa, improvvisamente quasi in preda al panico, aspettandomi di vedere un doccione inserito nelle decorazioni prendere vita e os­servarmi. Ma non percepii la presenza di nessuno tranne i tre nella stanza, persone che amavo, che stavano rispettando me e il mio silenzio, melodrammatico e autoindulgente.

Mi voltai. Armand si era vestito ancora una volta di velluto e pizzo ricamato di gran moda, il genere di «nuovo look romanti­co» che si poteva trovare in uno qualsiasi dei negozi situati nel profondo crepaccio sotto di noi. I suoi capelli fulvi erano sciolti e lasciati crescere, e gli ricadevano sulla schiena come secoli pri­ma, quando, in qualità di santo demoniaco dei vampiri di Parigi, non si sarebbe mai concesso la vanità di tagliarne un solo riccio­lo. Erano talmente puliti da brillare, ramati nella luce e contro lo sfondo rosso sangue della sua giacca. E i suoi occhi tristi e sem­pre giovanili mi fissavano, le lisce guance da ragazzino, la bocca da angelo. Era seduto al tavolo, in atteggiamento riservato, col­mo d’amore e curiosità, e persino di vaga umiltà che sembrava voler dire: «Accantona tutte le nostre dispute. Sono qui per te».

«Sì, grazie», dissi ad alta voce.

Sedeva lì anche David, il robusto, giovane angloindiano dalla pelle bruna, affascinante e desiderabile come sempre, sin dalla notte in cui lo avevo reso uno di noi. Indossava il suo completo inglese di tweed, coi gomiti protetti da pezze di pelle, un pan­ciotto aderente come il mio e una sciarpa di cashmere che gli ri­parava il collo dal freddo cui forse, nonostante il suo vigore, non si era ancora abituato del tutto.

È strano come sentiamo il freddo; puoi ignorarlo e poi, a un tratto, sentirtene offeso.

La mia radiosa Dora sedeva di fianco a lui, di fronte ad Ar­mand, e David si trovava in mezzo a loro, davanti a me. Era rima­sta a mia disposizione la sedia con lo schienale rivolto verso il ve­tro e il cielo, se la volevo. La fissai. Un oggetto così semplice, una sedia nera laccata, dal design orientale, vagamente cinese, fun­zionale e costosa.

Dora si alzò, le gambe che parvero sbocciare sotto di lei. In­dossava un sottile, lungo abito di seta color borgogna, semplicis­simo, il tepore artificiale che la avviluppava e la difendeva dal freddo. Le braccia erano nude e bianche; il viso colmo di preoc­cupazione, il caschetto di lucidi capelli neri che formava due punte sui lati del volto, al centro della guancia, il tipo di pettina­tura di gran moda ottant’anni fa e oggigiorno. I suoi occhi erano quelli di un gufo, e colmi d’amore.

«Cos’è successo, Lestat?» chiese. «Oh, ti prego, ti prego, raccontacelo.»

«Dov’è l’altro occhio?» chiese Armand. La domanda era proprio da lui. Non si era alzato in piedi. David, l’inglese, si era alzato perché lo aveva fatto Dora, ma Armand era rimasto sedu­to a guardarmi, ponendo una domanda diretta. «Cosa ne è sta­to? Lo hai ancora?»

Guardai Dora. «Avrebbero potuto salvare l’occhio», dissi, ci­tando il suo racconto su zio Mickey, «se solo quei gangster non l’avessero calpestato!»

«Di cosa stai parlando?» chiese lei.

«Non so se hanno calpestato il mio occhio», risposi, irritato dal tremito nella mia voce e dal tono drammatico in quella di lei. «Non erano gangster, erano fantasmi, e io sono scappato, la­sciando là il mio occhio. Quella era la mia unica chance. L’ho la­sciato su un gradino. Forse lo hanno schiacciato oppure spalma­to a terra come un grumo di grasso, non lo so. Zio Mickey fu se­polto col suo occhio di vetro?»

«Sì, credo di sì», rispose Dora, intontita. «Nessuno me l’ha mai detto.»

Riuscii a percepire che gli altri due stavano scrutando nella sua mente, e Armand anche nella mia, percepii che stavano cap­tando le immagini di zio Mickey, quasi ucciso a calci nel Corona’s Bar di Magazine Street, e del gangster con la scarpa a punta che spiaccicava l’occhio.

Dora boccheggiò. «Cosa ti è successo?»

«Hai spostato le cose di Roger?» chiesi. «Quasi tutte?»

«Sì, si trovano nella cappella del Santa Elisabetta, al sicuro», rispose. «Santa Elisabetta». Era il nome del vecchio orfanotro­fio. Non glielo avevo mai sentito pronunciare, prima. «A nessu­no verrà mai in mente di cercarle lì. Ormai la stampa non s’inte­ressa più a me. I nemici di Roger girano intorno ai suoi contatti d’affari come avvoltoi; si concentrano sui suoi conti bancari e sulle cassette di sicurezza, uccidendo per questa o quella chiave. Tra i suoi compagni più intimi, sua figlia è stata dichiarata acci­dentale, irrilevante, rovinata. Del tutto insignificante.»

«Grazie a Dio», mormorai. «Li hai avvisati della sua morte? Finirà presto tutto ciò, la sua storia e la parte che sei costretta a recitarvi?»

«Hanno trovato la sua testa», dichiarò quietamente Armand. Cominciò a spiegare in tono sommesso. Dei cani l’avevano estratta da un cumulo d’immondizia e se la stavano litigando sot­to un ponte. Per un’ora un vecchio era rimasto a guardarli, scal­dandosi accanto a un fuoco, e poi si era reso conto che era una testa umana quella che i cani si stavano contendendo e che stava­no mordicchiando. La testa venne consegnata alle autorità com­petenti e, grazie agli esami genetici di capelli e pelle, si scoprì che era appartenuta a Roger. Le radiografie dentali non furono di nessun aiuto perché i denti di Roger erano perfetti. Restava solo l’identificazione da parte di Dora.

«Evidentemente, lui voleva che la trovassero», dichiarai.

«Cosa ti spinge a dirlo?» chiese David. «Dove sei stato?»

«Ho visto tua madre», spiegai a Dora. «Ho visto i suoi capel­li biondi e i suoi occhi azzurri. Non passerà molto tempo prima che giungano in paradiso.»

«Cosa mai stai dicendo, mio caro?» domandò. «Angelo mio, cosa mi stai dicendo?»

«Sedetevi. Vi racconterò tutta la storia. Ascoltate tutto ciò che vi dirò senza interrompermi. No, non voglio sedermi, non dando la schiena al cielo, alla tromba d’aria, alla neve e alla chie­sa. No, passeggerò avanti e indietro; ascoltate ciò che devo dirvi. Tenetelo bene a mente: tutto quello che vi racconto è successo a me! Potrei essere stato beffato. Potrei essere stato ingannato. Ma questo è ciò che ho visto coi miei stessi occhi e sentito con le mie stesse orecchie!»

Raccontai tutto, dall’inizio, anche alcune cose che ognuno di loro aveva già sentito, ma che non avevano mai sentito tutti e tre insieme... dalla mia prima, fatale e fugace visione di Roger e dal mio amore per il suo sfacciato e candido sorriso e per i suoi col­pevoli e scintillanti occhi neri fino al momento in cui mi ero lan­ciato fuori della porta dell’appartamento la sera prima.

Raccontai tutto. Ogni parola pronunciata da Memnoch e da Dio Incarnato. Ogni cosa che avevo visto in paradiso e all’infer­no e sulla terra. Raccontai dell’odore e dei colori di Gerusalem­me. Raccontai e raccontai e raccontai...

La storia divorò l’intera nottata. Divorò le ore, mentre io pas­seggiavo avanti e indietro, farneticando, ripetendo le parti che volevo risultassero ben chiare, le fasi dell’evoluzione che avevano scioccato gli angeli, le enormi biblioteche del paradiso, il pe­sco recante sia fiori sia frutti, Dio, e il soldato sdraiato supino al­l’inferno che rifiutava di arrendersi. Descrissi l’interno di Hagia Sophia. Parlai degli uomini nudi sul campo di battaglia. Descris­si ripetutamente l’inferno. Descrissi il paradiso. Ripetei il mio di­scorso finale, imperniato sul fatto che non potevo aiutare Mem­noch, non potevo insegnare nella sua scuola!

Mi fissavano, ammutoliti.

«Hai il velo?» chiese infine Dora, col labbro tremante. «Lo hai ancora?»

L’inclinazione della sua testa sembrava così gentile, come se lei fosse stata prontissima a perdonarmi se le avessi risposto: «No, l’ho perso per strada, l’ho dato a un mendicante!»

«Il velo non prova niente», dichiarai. «Qualunque cosa vi sia impressa non prova niente! Chiunque sia capace di creare illu­sioni come quella può creare un velo! Non prova niente, né ve­rità né menzogne, né inganno o stregoneria o teofania.»

«Quando eri all’inferno, hai detto a Roger di avere il velo?» chiese lei, in modo così cortese, il suo viso bianco che scintillava nel tepore della lampada.

«No, Memnoch me l’ha impedito. L’ho visto solo per un mi­nuto, capisci, l’intera situazione cambiò completamente nel giro di un secondo. Ma lui sta salendo, lo so, sta salendo perché è intelligente e ha capito, e Terry andrà con lui! Saranno ben presto tra le braccia di Dio, a meno che Dio non sia altro che un presti­giatore da due soldi e tutto questo non sia stato che una menzo­gna, ma a che pro? A quale scopo?»

«Non credi alla richiesta che Memnoch ti ha fatto?» do­mandò Armand.

Solo in quel momento notai quanto fosse scosso, come somi­gliasse al ragazzo che doveva essere stato prima che lo trasfor­massero in un vampiro, come fosse giovane e pieno di grazia ter­rena. Voleva che fosse vero!

«Oh, sì, ci credo!» risposi. «Gli credevo, ma tutto poteva es­sere una menzogna, non capisci?»

«Non percepivi l’autenticità del suo bisogno di te?» chiese lui.

«Cosa?» domandai. «Siamo tornati a questo, alla discussione per stabilire se, quando serviamo Satana, serviamo o no Dio? Tu e Louis che ne discutete nel Teatro dei Vampiri, cercando di decidere se, essendo figli di Satana, siamo figli di Dio?»

«Sì», rispose Armand. «Gli credevi?»

«Sì. No. Non lo so», dissi. «Non lo so!» gridai. «Odio Dio più che mai. Sono furibondo con entrambi, accidenti a loro!»

«E Cristo?» chiese Dora, gli occhi colmi di lacrime. «Gli di­spiaceva per noi?»

«Sì, a modo suo. Sì. Forse. Chissà! Ma non ha affrontato la Passione come un semplice uomo, come Memnoch l’aveva im­plorato di fare, ha portato la sua croce come Dio Incarnato. Vi dico che le loro regole non sono le nostre regole! Noi abbiamo creato regole migliori! Siamo in balia di eventi folli!»

Lei proruppe in grida sommesse, dolenti. «Perché non pos­siamo scoprirlo mai e poi mai?» urlò.

«Non lo so!» dichiarai. «So che erano là, che mi sono appar­si, che mi hanno permesso di vederli. Eppure non lo so ancora!»

David si era accigliato, un po’ come avrebbe potuto fare Memnoch, immerso nelle sue riflessioni. Poi chiese: «Se era tut­ta una serie di trucchi, di immagini estrapolate dal tuo cuore e dalla tua mente, qual era lo scopo? Se non si trattava di una proposta diretta di diventare suo luogotenente o suo principe, quale poteva essere la motivazione?»

«Cosa ne pensi?» chiesi. «Hanno il mio occhio! Te lo ripeto, nemmeno una parola di quanto ho raccontato è una mia bugia. Hanno il mio dannato occhio, maledizione. Non so di cosa si sia trattato, so solo che era tutto vero, verissimo, fino all’ultima silla­ba.»

«Sappiamo che tu credi che sia vero», intervenne Armand. «Sì, ne sei fermamente convinto. Ne sei stato testimone. Io cre­do che sia vero. Durante le mie lunghe peregrinazioni nella valle della morte ho creduto che fosse vero!»

«Non essere stupido», lo rimproverai con amarezza. Ma ve­devo la fiamma sul viso di Armand; vedevo l’estasi e il dolore nei suoi occhi. Vedevo la sua figura interamente galvanizzata dalla credenza, dalla conversione.

«Gli abiti nell’altra stanza, li hai conservati, così potranno co­stituire una prova scientifica», dichiarò David in tono pacato e meditabondo.

«Smetti di pensare come uno studioso. Ci sono esseri che gio­cano un gioco che solo loro possono capire. Non avrebbero nes­suna difficoltà a far aderire aghi di pino e sporcizia ai miei abiti, ma, sì, ho conservato quelle reliquie, sì, ho conservato tutto tran­ne il mio dannato occhio, che ho lasciato sui gradini dell’inferno per poter uscire. Anch’io voglio analizzare le prove su quei vesti­ti. Anch’io voglio scoprire qual è la foresta in cui ho camminato e in cui l’ho ascoltato!»

«Ti hanno lasciato uscire», constatò David.

«Se tu avessi potuto vedere il suo viso quando ha notato quel­l’occhio sul gradino», mormorai.

«Cosa c’era sul suo viso?» chiese Dora.

«Orrore, orrore per il fatto che fosse successa una cosa simile. Vedi, quando ha allungato la mano per afferrarmi, credo che due sue dita, tenute in questo modo, siano entrate nella mia orbita oculare, mancando il bersaglio. Lui voleva semplicemente pren­dermi per i capelli. Ma quando le sue dita si sono infilate nell’or­bita, lui ha cercato, orripilato, di estrarle, e l’occhio è uscito, rotolandomi lungo la guancia, e lui era in preda all’orrore!»

«Lo ami», disse Armand in tono sommesso.

«Lo amo. Sì, credo che lui abbia ragione su tutto. Ma non credo in niente!»

«Perché non hai accettato?» chiese lui. «Perché non gli hai dato la tua anima?»

Oh, come suonava innocente, come dava l’impressione che la domanda gli uscisse dal cuore, antico e infantile, un cuore dalla forza così sovrannaturale che c’erano volute centinaia di anni perché potesse battere insieme coi cuori mortali senza provocare disastri.

Armand, diavoletto!

«Perché non hai accettato?» implorò.

«Ti hanno lasciato scappare, e avevano uno scopo», constatò David. «Come la visione che ho avuto nel caffè.»

«Sì, avevano uno scopo», ammisi. «Ma l’ho vanificato?» Lo guardai, cercando una risposta; lui, il saggio, l’anziano quanto ad anni umani. «David, li ho sconfitti quando ti ho separato dalla vita? Li ho sconfitti in qualche altro modo? Oh, se solo riuscissi a ricordare le loro voci all’inizio. Vendetta. Qualcuno disse che non si trattava di semplice vendetta. Ma quei brandelli di con­versazione erano importanti. Adesso non riesco a ricordare. Co­s’è successo? Torneranno a prendermi?»

Ricominciai a piangere. Stupido. Ricominciai a descrivere Memnoch, in tutte le sue forme, persino quella di Uomo Comu­ne che era stata così fuori della norma nelle sue dimensioni, i passi assillanti, le ali, il fumo, la gloria del paradiso, il canto degli angeli... «Zaffirino...» sussurrai. «Quelle superfici, tutte le cose che i profeti videro per poi disseminare, in tutti i loro libri, paro­le come topazio, berillo, fuoco, oro, ghiaccio e neve, ed era tutto là... e Lui disse: ‘Bevete il mio sangue!’ Io l’ho fatto!»

Mi si avvicinarono, perché li avevo spaventati. Ero stato trop­po chiassoso, folle, invasato. Si fermarono accanto a me, le loro braccia intorno a me, le candide braccia umane di Dora, le più calde, le più dolci di tutte, e la fronte scura di David che premeva sul mio viso.

«Se mi permetti di bere, lo scoprirò...» si azzardò a dire Ar­mand, le dita che salivano fino al mio colletto.

«No, tutto quello che scoprirai è che credo a ciò che ho visto, tutto qui!» ribattei.

«No», insistette lui. «Riconoscerò il sangue di Cristo, se lo assaggio.»

Scossi la testa. «Allontanatevi da me. Non so nemmeno come apparirà il velo. Sembrerà qualcosa con cui mi sono asciugato il sudore di sangue nel sonno, mentre sognavo? Allontanatevi.»

Obbedirono. Formavano vagamente un triangolo. Davo la schiena al muro così da poter vedere la neve sulla mia sinistra, anche se adesso dovevo voltare la testa per farlo. Li guardai. La mia mano destra armeggiò sotto il panciotto, estrasse lo spesso involto, e io sentii qualcosa, qualcosa di minuscolo e insolito che non potevo spiegare a loro tre o esprimere a parole nemmeno per me stesso, sentii la tessitura, quella tessitura della stoffa, quella tessitura antica!

Tirai fuori il velo, senza guardarlo, e lo sollevai come se fossi stato Veronica che lo mostrava alla folla.

Il silenzio calò sulla stanza. L’immobilità era totale.

Poi vidi Armand inginocchiarsi.

E Dora emettere un lungo grido lamentoso.

«Dio santo», sussurrò David.

Tremando, abbassai il velo, sempre tenendolo ben teso, e lo voltai in modo da poterne vedere il riflesso nel vetro scuro che spiccava contro la neve, come se si trattasse della Gorgone in procinto di uccidermi.

Il suo viso! Il suo viso fiammeggiava nel velo. Abbassai lo sguardo. Dio Incarnato mi guardava nei suoi dettagli più minu­scoli, impresso a fuoco nel tessuto, non dipinto o colorato, cuci­to o disegnato, bensì impresso a fuoco nelle fibre stesse, il suo vi­so, il viso di Dio in quell’istante, rigato dal sangue dovuto alla sua corona di spine.

«Sì», sussurrai. «Sì, sì.» Caddi in ginocchio. «Oh, sì, così completo, fino all’ultimo dettaglio.»

Sentii Dora prendere il velo. Se uno degli altri due avesse pro­vato a farlo, glielo avrei strappato di mano. Invece lo affidai alla piccola mano di lei, che lo sollevò girandolo e rigirandolo, in modo che tutti noi potessimo vedere gli occhi scuri di Dio che bril­lavano nel tessuto!

«È Dio!» esclamò. «È il velo di Veronica!» Il suo grido di­venne trionfante e poi si colmò di gioia. «Papà, ci sei riuscito! Mi hai dato il velo !»

E cominciò a ridere, come chi avesse avuto tutte le visioni che può sopportare, ballando in tondo, reggendo il drappo ben in al­to, cantando quelle due sillabe più e più volte.

Armand era a pezzi, distrutto, in ginocchio, le lacrime di san­gue che gli colavano lungo le guance, orrende striature sulla pel­le bianca.

Umiliato e confuso, David si limitava a osservare. Studiò at­tentamente il velo mentre si muoveva nell’aria, le mani di Dora che continuavano a tenerlo teso. Studiò il mio viso. Studiò la fi­gura accasciata, distrutta, singhiozzante di Armand, il bambino smarrito con lo splendido vestito di velluto e pizzo adesso chiaz­zato dalle sue lacrime.

«Lestat!» gridò Dora, piangendo copiosamente. «Mi hai portato il volto del mio Dio! Lo hai portato a tutti noi. Non capi­sci? Memnoch ha perso! Memnoch è stato sconfitto. Dio ha vin­to! Dio ha usato Memnoch per i suoi scopi, lo ha condotto nel labirinto progettato da Memnoch stesso. Dio ha trionfato!»

«No, Dora, no ! Non puoi crederlo», urlai. «E se non fosse la verità? E se si fosse trattato solo di una serie di trucchi? Dora!»

Lei mi oltrepassò correndo lungo il corridoio e fuori della porta. Noi tre restammo allibiti. Sentimmo l’ascensore scendere. Lei aveva il velo!

«David, cosa intende fare? David, aiutami.»

«Chi può aiutarci, adesso?» chiese lui, ma senza convinzione né amarezza, solo quel meditare, quell’incessante meditare. «Ar­mand, ricomponiti. Non puoi arrenderti a una cosa simile», dis­se. La sua voce era così mesta.

Ma Armand era smarrito. «Perché?» chiese. Adesso era solo un bambino inginocchiato. «Perché?»

Ecco che aspetto doveva aver avuto secoli prima, quando Marius era andato a liberarlo dai suoi aguzzini veneziani, un ragazzino tenuto prigioniero per soddisfare la lussuria altrui, un ragazzino condotto nel palazzo dei Non Morti.

«Perché non posso crederlo? Oh, mio Dio, ci credo. È il vol­to di Cristo!»

Si alzò faticosamente, come un ubriaco, e poi si allontanò, un passo dopo l’altro, per seguire Dora.

Quando raggiungemmo la strada, lei era ferma davanti al por­tale della cattedrale, urlando.

«Aprite le porte! Aprite la chiesa. Ho il velo.» Prese a calci la doppia porta di bronzo col piede destro. Tutt’intorno a lei si ra­dunarono dei mortali, mormorando.

«Il velo, il velo!» Lo fissarono, mentre lei s’immobilizzava per girarsi e mostrarlo ancora una volta. Poi tutti cominciarono a bussare sulla porta.

Il cielo venne schiarito dal sole in arrivo, lontano, molto lon­tano nelle fauci dell’inverno, ma che comunque sorgeva imboc­cando il suo inevitabile sentiero, per far cadere su di noi la sua luce bianca, fatale se non avessimo cercato un riparo.

«Aprite le porte!» gridò lei.

Da ogni direzione arrivavano degli umani, che, non appena vedevano il velo, cadevano in ginocchio, boccheggiando.

«Andate, cercate un riparo prima che sia troppo tardi», disse Armand. «David, portalo via.»

«E tu cosa farai?» chiesi.

«Fungerò da testimone. Resterò qui con le braccia allargate e, quando sorgerà il sole, la mia morte confermerà il miracolo», gridò.

La possente porta venne finalmente aperta. Le figure vestite di nero si ritrassero, sbalordite. Il primo raggio di luce argentea illuminò il velo, e poi giunsero le più calde luci elettriche dall’in­terno, le luci delle candele, la raffica di aria riscaldata.

«Il volto di Cristo!» gridò lei.

Il prete cadde in ginocchio. L’uomo più anziano vestito di ne­ro, fratello, padre, o comunque lo si volesse chiamare, rimase im­mobile a bocca aperta, a guardarlo dal basso.

«Dio santo, Dio santo», gemette, facendosi il segno della cro­ce. «Che nel corso della mia vita, Dio... è il velo di Veronica!»

Gli umani ci superarono di corsa, inciampando e facendo a gomitate per seguire Dora dentro la chiesa. Sentii i loro passi echeggiare nell’immensa navata.

«Non abbiamo tempo», mi disse David all’orecchio. Mi ave­va costretto a rialzarmi, forte come Memnoch, solo che non c’era la tromba d’aria, solo l’alba invernale, la neve che cadeva e sem­pre più grida e strepiti e urla mentre uomini e donne raggiunge­vano la chiesa a frotte, e le campane nei campanili soprastanti co­minciavano a suonare.

«Sbrigati, Lestat, vieni!»

Corremmo via insieme, già accecati dalla luce, e dietro di me sentii la voce di Armand che risuonava al di sopra della folla.

«Siate testimoni, questo peccatore muore per Lui!» Il profu­mo del fuoco giunse con una violenta esplosione! La vidi lam­peggiare sulle pareti di vetro delle torri, mentre correvamo. Sen­tii le urla.

«Armand!» gridai. David mi tirò a sé, giù per scalini metalli­ci, che echeggiavano e tintinnavano come le campane della catte­drale.

Fui assalito dalle vertigini e mi arresi a lui, rinunciai alla mia volontà. Straziato dal dolore, gridando: «Armand, Armand». Poi cominciai a distinguere la figura di David nel buio. Ci trovavamo in un luogo umido e gelido, uno scantinato sotto uno scan­tinato, sotto l’alta cavità di un edificio vuoto e scosso dal vento. Lui stava scavando nel terriccio.

«Aiutami», gridò, «comincio a perdere la sensibilità, la luce sta arrivando, il sole è già sorto, ci troveranno.»

«No, non ci troveranno.»

Scalciai e scavai la tomba, portandolo con me sempre più in profondità, e richiudendo le morbide zolle dietro di noi. Nem­meno i suoni della città soprastante potevano penetrare in quel buio. Nemmeno le campane della chiesa.

Il tunnel si era aperto per Armand? La sua anima era salita in cielo? Oppure lui stava varcando le porte dell’inferno?

«Armand», sussurrai e, quando chiusi gli occhi, vidi il viso sconvolto di Memnoch: Lestat, aiutami!

Col mio ultimo brandello di sensibilità allungai una mano per controllare che il velo di Veronica fosse ancora lì. Ma, no, era scomparso. Lo avevo dato a Dora. Dora aveva il velo e lo aveva portato in chiesa.

Non saresti mai mio nemico, vero?

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