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«Benissimo», esordì David. «Siediti. Smettila di passeggiare avanti e indietro. Voglio che tu mi ripeta ogni dettaglio. Se prima di farlo hai bisogno di nutrirti, possiamo uscire e...»

«Te l’ho già detto! Ormai ho superato la cosa. Non ho biso­gno di nutrirmi. Non ho bisogno di sangue. Lo desidero. Lo adoro. Ma adesso non ne voglio! Ieri notte ho banchettato con Roger, come un demone ingordo. Smettila di parlare di sangue.»

«Vuoi sederti al tuo posto, lì al tavolo?»

Di fronte a lui, intendeva dire. Io ero in piedi accanto alla pa­rete di vetro e guardavo il tetto sottostante della chiesa di San Patrizio.

David aveva scelto una sistemazione perfetta all’Olympic Tower, le nostre stanze si affacciavano direttamente sulle guglie. Un appartamento immenso, di gran lunga superiore alle nostre necessità, ma che rappresentava comunque un domicilio ideale, perché l’intimità con la cattedrale mi sembrava indispensabile. Riuscivo a vedere la pianta cruciforme del tetto, le alte e affilate torri campanarie. Davano quasi l’impressione di poterti impala­re, tanto sembravano aguzze e svettanti. E il cielo, proprio come la notte prima, era un fioco, silenzioso turbinare di neve.

Sospirai. «Senti, mi spiace, ma non voglio ripetere tutto da capo. Non posso. O accetti la storia così come te l’ho raccontata oppure io... io... perdo il lume della ragione.»

Lui rimase tranquillamente seduto al tavolo. Avevamo preso l’appartamento «chiavi in mano», cioè ammobiliato. Sfoggiava lo stile di sobria eleganza tipico del mondo aziendale: ovunque mogano, pelle e varie tonalità di beige, marrone chiaro e oro che non potevano offendere nessuno, presumibilmente. E fiori. Da­vid si era occupato dei fiori, così potevamo godere del profumo dei fiori.

Il tavolo e le sedie erano orientali, l’elemento cinese tanto in voga. Credo che ci fossero anche un paio di urne dipinte.

E sotto di noi avevamo il lato di San Patrizio affacciato sulla Cinquantaduesima, e gente laggiù sulla Quinta che saliva e scen­deva i gradini innevati. La quieta visione della neve.

«Non abbiamo molto tempo. Dobbiamo raggiungere i quar­tieri residenziali, e io devo rendere inespugnabile l’appartamen­to di Roger oppure trasferire altrove tutti i suoi preziosi Oggetti. Non permetterò che succeda qualcosa all’eredità di Dora», di­chiarai.

«Possiamo riuscirci, ma, prima che usciamo di qui, fa’ un ten­tativo, ti prego. Descrivi di nuovo quell’uomo... Non lo spettro di Roger, la statua vivente o quella alata, ma l’uomo che hai visto ritto nell’angolo della stanza d’albergo quando è sorto il sole.»

«Un tipo comune, te l’ho detto, molto comune. Anglosasso­ne? Sì, probabile. Palesemente irlandese o nordico? No. Sempli­cemente un uomo. Francese, non direi. Piuttosto una varietà comune di americano. Abbastanza alto, come me, non straordina­riamente alto come te. Non posso averlo visto per più di cinque secondi. Era l’alba e lui mi aveva intrappolato là, non potevo scappare. Sono andato completamente in confusione. Il materas­so mi è caduto addosso e, quando mi sono riavuto, l’uomo non c’era più. Svanito nel nulla, come se mi fossi immaginato tutto, eppure non me lo sono immaginato!»

«Grazie. I capelli?»

«Biondo cenere, quasi grigi. Sai quanto il biondo cenere può sbiadire fino a trasformarsi in un... un castano grigiastro o addi­rittura sembrare incolore, una sorta di grigio intenso.»

Fece un impercettibile gesto per indicare che capiva.

Mi appoggiai alla parete di vetro con cautela: data la mia for­za, sarebbe stato facilissimo mandarla in frantumi, pur senza vo­lerlo. L’ultima cosa al mondo che desideravo era commettere un errore grossolano. Com’era ovvio, lui voleva che dicessi di più e io ci stavo provando. Ricordavo in modo piuttosto chiaro l’uo­mo. «Un viso gradevole, molto gradevole. Era il genere di perso­na che non ti colpisce per la statura o la fisicità, quanto per una specie di aria vigile, quello che potresti definire un misto di com­postezza e intelligenza. Sembrava un uomo interessante.»

«Vestiti?»

«Niente di particolare. Neri, credo, forse addirittura un po’ impolverati. Penso che me ne ricorderei se fossero stati di un ne­ro lucente, particolarmente leggiadro o elegante.»

«Occhi degni di nota?»

«Solo per l’intelligenza dello sguardo. Non erano grandi né di colore intenso. Lui sembrava tranquillo, sicuro di sé. Sopracci­glia scure ma non troppo cespugliose. Fronte normale, capelli folti, bei capelli, ben pettinati, ma non con un’acconciatura ri­cercata come la mia, o la tua.»

«E pensi che abbia davvero pronunciato quelle parole?»

«Ne sono certo. L’ho sentito chiaramente e ho sobbalzato. Ero sveglio, capisci, sveglissimo. Ho visto il sole. Guarda la mia mano.» La mia pelle non era più pallida come prima che avessi raggiunto, in un recente passato, il deserto dei Gobi, dove avevo sfidato il sole a uccidermi. Ma entrambi potevamo comunque notare la scottatura là dove i raggi solari mi avevano colpito. E sentivo pure quella sul lato destro del viso, per quanto invisibile perché forse avevo fatto in tempo a voltare la testa.

«E, riavendoti, ti sei ritrovato sotto il letto, che era messo di traverso, si era capovolto ed era poi ricaduto al suo posto.»

«Nessun dubbio al riguardo. Una lampada era caduta a terra. Non lo avevo sognato più di quanto avessi sognato Roger o qua­lunque altra cosa. Senti, voglio che tu venga nei quartieri residenziali con me. Voglio che esamini questo appartamento. Le cose di Roger.»

«Oh, be’,non vedo l’ora», rispose con entusiasmo. «Non me lo perderei per nulla al mondo. Volevo solo che ti riposassi anco­ra un po’,che cercassi di...»

«Cercassi di fare cosa? Di calmarmi? Dopo aver parlato col fantasma di una delle mie vittime? Dopo aver visto quell’uomo in piedi nella mia stanza? Dopo aver visto questa Cosa prendere Roger, questa Cosa che mi ha pedinato per il mondo, questo araldo di follia, questa...»

«Ma non l’hai vista davvero prendere Roger, giusto?»

Riflettei prima di rispondere. «Non ne sono sicuro. Non sono sicuro che l’immagine di Roger fosse ancora animata. Lui sem­brava perfettamente calmo e a poco a poco si è affievolito. Poi il volto della creatura, dell’essere o di qualunque cosa fosse... il volto divenne visibile per un istante. A quel punto ero smarrito, del tutto privo di senso dell’equilibrio e dell’orientamento. Non so se Roger stesse semplicemente svanendo quando la Cosa lo prese o se invece accettò la situazione e le si arrese.»

«Lestat, non hai la certezza che uno di questi due eventi sia davvero accaduto. Sai solo che il fantasma di Roger è svanito e che è comparsa questa Cosa. È tutto ciò che sai.»

«Credo che tu abbia ragione.»

«Guardala in questo modo: il tuo Pedinatore ha scelto di ma­nifestarsi e ha cancellato il tuo spettrale compagno.»

«No, invece. Erano collegati. Infatti Roger l’ha sentito arriva­re! Ha capito che stava arrivando ancor prima che io sentissi i passi. Ringrazio Dio per una cosa.»

«Quale?»

«Il fatto di non riuscire a comunicarti la mia paura. Il fatto di non poterti spiegare chiaramente quanto sia stato terribile. Mi credi, il che è più che sufficiente per il momento, ma se tu capissi davvero, non rimarresti così calmo e controllato, l’esemplare perfetto del gentiluomo inglese.»

«Forse lo sono. Andiamo. Voglio vedere questa stanza del te­soro. Credo che tu abbia ragione: non puoi permettere che la ra­gazza perda tutti quegli oggetti.»

«Donna, giovane, ma donna.»

«E dovremmo scoprire dove si trova lei, subito.»

«L’ho già fatto, venendo qui.»

«Nello stato in cui eri?»

«Be’,mi ero ripreso abbastanza da poter entrare nell’albergo e assicurarmi che se ne fosse già andata. Dovevo verificare alme­no quello. Una limousine l’ha accompagnata al La Guardia alle nove di stamattina. È arrivata a New Orleans oggi pomeriggio. Quanto al convento, non ho idea di come raggiungerla là. Non so nemmeno se ha un telefono. Per il momento è più al sicuro di quanto non sia mai stata finché Roger era ancora in vita.»

«Sono d’accordo. Andiamo all’appartamento.»


Talvolta la paura serve di monito. È come se qualcuno ti posasse una mano sulla spalla e ti dicesse: «Non spingerti oltre».

Quando entrammo nell’appartamento, per un paio di secondi ebbi proprio quest’impressione. Panico. Non spingerti oltre. Tut­tavia io ero troppo orgoglioso per darlo a vedere e David troppo curioso, benché, precedendomi nel corridoio, avesse sicuramen­te notato, come me, che quel posto era senza vita. La morte re­cente? Riusciva a sentirne l’odore con la mia stessa facilità. Mi chiesi se lo trovasse meno sgradevole, visto che non era stato lui a uccidere.

Roger! Nella mia memoria la fusione tra il cadavere mutilato e il fantasma di Roger mi colpì improvvisamente, come un violen­to calcio al petto.

David raggiunse il salotto mentre io indugiavo nel guardare il grande angelo di marmo bianco con la sua acquasantiera a forma di conchiglia, e pensavo a quanto assomigliasse alla statua di granito. Blake. William Blake ne era a conoscenza; aveva visto ange­li e demoni e ne aveva reso adeguatamente le proporzioni. Roger e io avremmo potuto parlare di Blake... Ma ormai era troppo tar­di. Mi trovavo lì, nel corridoio.

L’idea di dover avanzare, mettendo un piede innanzi all’altro, entrare nel salotto e osservare la statua di granito all’improvviso fu più di quanto potessi sopportare.

«Non è qui», annunciò David. Non mi aveva letto nel pensie­ro, stava solo facendo una constatazione. Era fermo in salotto, una quindicina di metri più in là, e mi fissava, le lampade alogene che proiettavano su di lui solo una parte della loro luce mirata, e ripetè: «Non c’è nessuna statua di granito nero in questa stan­za».

Sospirai. «Andrò all’inferno», sussurrai. Vedevo David in modo chiaro, ma nessun mortale ci sarebbe riuscito. La sua im­magine era troppo ombreggiata. Sembrava alto e forte, in piedi lì, dando la schiena alla fioca luce che entrava dalle finestre, le alogene che facevano brillare i suoi bottoni d’ottone.

«Il sangue?»

«Sì, il sangue, e i tuoi occhiali. I tuoi occhiali viola. Una prova coi fiocchi.»

«Prova di cosa?»

Era troppo stupido da parte mia restare accanto alla porta po­steriore a parlargli da lontano. Percorsi il corridoio come se mi stessi avviando allegramente verso il patibolo ed entrai nella stanza.

C’era solo uno spazio vuoto là dove avevo visto la statua, e non ero nemmeno sicuro che fosse abbastanza ampio. Disordi­ne. Santi di gesso. Icone, alcune così antiche e fragili da essere state messe sotto vetro. La sera prima non ne avevo notate così tante, illuminate sulle pareti dai fasci di luce delle lampade orientate.

«Incredibile!» sussurrò David.

«Sapevo che ti sarebbe piaciuto», risposi in tono cupo. Sa­rebbe piaciuto anche a me, se non fossi stato così scosso.

Lui stava studiando gli oggetti, lo sguardo che saettava da un’icona all’altra, per poi esaminare i santi. «Oggetti assoluta­mente splendidi. È... è una collezione straordinaria. Non sai cosa sia tutta questa roba, vero?»

«Be’,più o meno. Non sono completamente ignorante in fat­to di arte», replicai.

«La serie di quadri sul muro», disse e indicò una lunga fila di icone, le più fragili.

«Quelle? Non saprei.»

«Il velo di Veronica», spiegò. «Queste sono antiche copie del famoso drappo — il velo stesso — che presumibilmente scomparve dalla storia secoli fa. Forse durante la quarta crociata. Questa è russa, perfetta. Questa invece? Italiana. E guarda lì, sul pavimen­to: quei quadri impilati sono le Stazioni della Croce.»

«Era ossessionato dal desiderio di trovare reliquie per Dora. Inoltre, adorava quegli oggetti. Quello, il velo di Veronica russo, lo aveva appena portato qui a New York per Dora. Ieri sera han­no litigato in proposito, perché lei si è rifiutata di prenderlo.»

Era davvero splendido il modo in cui lui aveva cercato di de­scriverlo alla figlia. Dio, avevo l’impressione che ci fossimo cono­sciuti da giovani e avessimo parlato di tutti quegli oggetti, e per me ogni superficie dell’appartamento era rivestita dal suo pecu­liare apprezzamento e corso di pensieri.

Le Stazioni della Croce. Ovviamente, conoscevo la pratica re­ligiosa; quale bambino cattolico non la conosce? Da piccolo, io e gli altri seguivamo le quattordici stazioni della passione di Cristo e del suo viaggio fino al Calvario attraversando la chiesa buia, fermandoci davanti a ognuna, con un ginocchio piegato, per re­citare le debite preghiere. Oppure il prete e i suoi chierichetti avanzavano in processione, mentre la congregazione recitava con loro la riflessione sulle sofferenze di Cristo in ogni punto. Veronica non era forse apparsa nella sesta stazione per detergere il viso di Gesù col proprio velo?

David passava da un oggetto all’altro. «E questo crocifisso! È davvero antico, potrebbe fare sensazione.»

«Ma non potresti dire altrettanto di ciascuno di essi?»

«Oh, sì, ma non sto parlando di Dora e della sua religione o di qualunque cosa si tratti, sto semplicemente dicendo che que­ste sono splendide opere d’arte. No, hai ragione, non possiamo lasciare tutto ciò in balia del fato, è inammissibile. Ecco, questa statuina potrebbe risalire al IX secolo, essere celtica e avere un grande valore. E questa... questa probabilmente viene dal Crem­lino.» S’interruppe, affascinato da un’icona raffigurante una Madonna con Bambino. Nettamente stilizzata, come tutte, e di carattere molto familiare perché il Cristo bambino stava perden­do un sandalo mentre si aggrappava alla madre, si vedevano al­cuni angeli che lo tormentavano con piccoli simboli della sua fu­tura passione e la testa della Madonna era piegata affettuosa­mente verso il figlio. Un’aureola si sovrapponeva all’altra. Gesù Bambino che fuggiva di fronte al futuro, rifugiandosi nelle pro­tettive braccia materne.

«Conosci il principio fondamentale di un’icona, vero?» chie­se David.

«Ispirata da Dio.»

«Non creata da mani umane, si presume che venga impressa direttamente da Dio sul materiale di fondo», confermò lui.

«Così come il volto di Gesù venne impresso sul velo di Vero­nica, vuoi dire?»

«Precisamente. Tutte le icone erano opera di Dio. Una rivela­zione in forma materiale. E talvolta si poteva ricavare una nuova icona da un’altra semplicemente premendo un nuovo tessuto so­pra l’originale, operando così un magico trasferimento.»

«Capisco. Si pensava che non l’avesse dipinta nessuno.»

«Infatti. Guarda, questa è una reliquia della Vera Croce con la cornice tempestata di pietre preziose, e questo, questo libro... Mio Dio, non può essere il... No, questo è un famoso Libro d’O­re che andò perduto a Berlino durante la seconda guerra mon­diale.»

«David, possiamo rimandare il nostro simpatico inventario, okay? Il problema è questo: cosa facciamo adesso?» Non avevo più tanta paura, anche se continuavo a guardare lo spazio vuoto, un tempo occupato dal demone di granito. E si era trattato del Diavolo, ne ero sicuro. Se non fossimo entrati subito in azione, avrei cominciato a tremare.

«Come facciamo a mettere al sicuro tutto questo per Dora? E dove? Avanti, esaminiamo gli schedari e i taccuini, riordiniamo tutto, troviamo i libri di Wynken de Wilde, prendiamo una decisione e architettiamo un piano», mi esortò David.

«Non pensare neanche di coinvolgere i tuoi antichi alleati mortali», sbottai tutt’a un tratto, in tono sospettoso e sgarbato, devo ammetterlo.

«Ti riferisci al Talamasca?» domandò e mi guardò. Stringeva il prezioso Libro d’Ore, la copertina fragile come pasta frolla.

«Appartiene tutto a Dora, dobbiamo salvarlo per lei. E Wyn­ken è mio, se Dora davvero non lo vuole.»

«Certo, capisco», rispose. «Santo cielo, Lestat, credi che io sia ancora in contatto col Talamasca? In un simile ambito ci si potrebbe fidare ciecamente dei suoi membri, ma non voglio ave­re nessun contatto coi miei antichi alleati mortali, come li chiami tu. Non voglio averne mai più. Non voglio che il mio fascicolo fi­guri nei loro archivi come tu volevi che vi figurasse il tuo, ricor­dalo. Il vampiro Lestat. Non voglio che mi ricordino affatto, se non come il loro Generale Superiore morto di vecchiaia. Adesso muoviamoci.»

C’era una lieve traccia di disgusto nella sua voce, e anche di dolore. Ricordai che la morte di Aaron Lightner, il suo vecchio amico, aveva rappresentato «l’ultima goccia» per lui e il suo Talamasca. Un’imprecisata controversia aveva circondato la scom­parsa di Lightner, ma non scoprii mai di cosa si trattasse.

Lo schedario si trovava in una stanza antistante il salotto, in­sieme con diversi altri scatoloni pieni di incartamenti. Trovai su­bito i documenti contabili e li esaminai, mentre David controlla­va il resto.

Poiché dispongo di un ingente patrimonio, non sono del tut­to a digiuno in fatto di documenti legali e di stratagemmi usati dalle banche internazionali. Ebbene sì, a Dora spettava un’ere­dità proveniente da fonti irreprensibili — questo riuscii ad accer­tarlo — che non potevano essere nemmeno sfiorate da quanti cer­cavano un indennizzo per i crimini commessi da Roger. Era tut­to intestato a Theodora Flynn, probabilmente il nome legale di Dora, risultato dello pseudonimo adottato da Roger in occasio­ne del matrimonio. C’erano troppi documenti perché io potessi stabilire il valore totale del patrimonio, scoprii solo che era stato accumulato nel corso degli anni. Dora, volendo, avrebbe potuto organizzare una nuova crociata per riprendere Istanbul ai tur­chi. Vi erano anche alcune lettere... Riuscii a individuare la data esatta di due anni prima in cui Dora aveva rifiutato qualsiasi ul­teriore aiuto dai due fondi fiduciari dei quali era a conoscenza. Quanto al resto, mi chiesi se lei avesse un’idea dello scopo.

Lo scopo è tutto quando si tratta di soldi. Immaginazione e scopo. Se ti manca una di queste due cose non puoi prendere de­cisioni morali, o almeno così ho sempre creduto. Potrebbe sem­brare meschino, ma, pensateci bene, non lo è. Il denaro è il pote­re di nutrire gli affamati, di vestire i poveri. Ma è necessario sa­perlo. Dora disponeva di numerosi fondi, e di fondi per pagare le tasse su ciascun fondo.

Ripensai, in preda a un momentaneo rammarico, a come ave­vo progettato di aiutare la mia amata Gretchen — sorella Marguerite — e a come la mia mera apparizione aveva rovinato tutto, tan­to che ero uscito per sempre dalla sua vita, con tutto il mio oro ancora nei forzieri. Non finiva sempre così? Non ero un santo, io. Non nutrivo gli affamati.

Ma Dora! Tutt’a un tratto me ne resi conto: era diventata mia figlia! Era diventata la mia santa così com’era stata quella di Ro­ger. Adesso aveva un altro padre ricco. Aveva me!

«Cosa c’è? Hai visto di nuovo lo spettro?» chiese David, al­larmato, interrompendo l’esame di uno scatolone zeppo di do­cumenti.

Per un attimo fui quasi assalito da uno dei miei tremiti più violenti, ma riuscii a controllarmi. Non dissi nulla, però vidi tut­to ancora più chiaramente. Badare a Dora! Certo che avrei bada­to a lei, e in qualche modo l’avrei convinta ad accettare ogni co­sa. Forse Roger non aveva usato le argomentazioni appropriate. E adesso era un martire, nonostante tutti i suoi tesori. Sì, que­st’ultimo argomento era quello giusto, lui aveva riscattato i suoi tesori. Forse, fornendo a Dora spiegazioni adeguate...

Fui distratto. Eccoli lì, i dodici libri. Ognuno avvolto in una sottile pellicola di cellofan, tutti allineati sullo scaffale più alto di un piccolo scrittoio, proprio accanto allo schedario. Capii subito cosa fossero. Lo capii subito. E poi recavano le etichette di Ro­ger, la sua calligrafia elegante che spiccava su un piccolo adesivo bianco, W. DE W.

«Guarda, questi sono tutti documenti legali riguardanti gli acquisti, apparentemente si tratta di denaro pulito oppure rici­clato; ci sono dozzine di ricevute, certificati di autenticità... Se­condo me, dovremmo portare tutto fuori di qui, adesso», disse David, alzandosi e togliendosi la polvere dai pantaloni.

«Sì, ma come? E dove dovremmo sistemarlo?»

«Rifletti. Qual è il posto più sicuro? Il tuo appartamento di New Orleans no di certo. Né possiamo affidare questi oggetti al deposito di una città come New York.»

«Giusto. Ho delle stanze qui, in un alberghetto di fronte al parco, ma...»

«Sì, ricordo, è là che ti ha seguito il Ladro di Corpi. Vuoi dire che non hai cambiato indirizzo?»

«Non ha importanza. Non sono abbastanza ampie per conte­nere tutto questo materiale.»

«Ma sai benissimo che il nostro vasto appartamento all’Olympic Tower lo è», propose lui.

«Dici sul serio?»

«Certo. Cosa potrebbe esserci di più sicuro? Adesso abbiamo del lavoro da fare. Non possiamo coinvolgere nessun mortale. Faremo questa faticaccia da soli.»

«Ah !» Emisi un sospiro disgustato. «Ti riferisci alla necessità d’imballare tutto e portarlo fuori di qui?»

Scoppiò a ridere. «Sì! Ercole doveva fare queste cose, e devo­no farle anche gli angeli. Come pensi che si sentisse Michele quando ebbe l’incarico di andare di porta in porta, in Egitto, per uccidere il primogenito di ogni famiglia? Avanti. Non sai quant’è facile proteggere tutti questi oggetti con i materiali moderni d’imballaggio. Penso che dovremmo trasferirli altrove da soli. Sarà un’impresa rischiosa. Perché non passare dai tetti?»

«Ah, non c’è niente di più irritante dell’energia di un vampiro novizio!» esclamai stancamente; eppure sapevo che aveva ragio­ne. La nostra forza era incommensurabilmente superiore a quel­la di qualsiasi aiutante mortale. Forse saremmo riusciti a svuota­re l’appartamento prima del mattino.

Che nottata!

Posso dire, col senno di poi, che la fatica rappresenta un anti­doto alla rabbia, all’infelicità generale e al timore che il Diavolo possa prenderti per il collo da un momento all’altro per condurti giù nel pozzo di fuoco!

Radunammo un’enorme quantità di materiale isolante costi­tuito da fogli di polietilene a bolle d’aria, capace di cingere in un abbraccio innocuo persino la più fragile reliquia. Presi i docu­menti finanziari e i libri di Wynken, esaminandoli con attenzione per assicurarmi che fossero ciò che sembravano, e poi ci dedi­cammo al lavoro pesante.

Sacco dopo sacco, portammo fuori tutti i manufatti più picco­li, passando dai tetti come aveva suggerito David, senza farci ve­dere da nessun mortale, due figure furtive e nere che volavano, simili a streghe dirette a un sabba. Fummo costretti a trattare con maggiore delicatezza gli oggetti più ingombranti, traspor­tandoli fuori uno alla volta. Evitai volutamente il grande angelo di marmo bianco. Ma David lo adorava e gli parlò lungo tutto il tragitto, finché non arrivammo a destinazione. Portammo le opere nelle sicure stanze dell’Olympic Tower, tramite le scale di ser­vizio, con l’obbligatoria andatura mortale.

I nostri piccoli orologi perdevano la carica non appena tocca­vamo il mondo mortale, nel quale c’infilavamo rapidamente, co­me gentiluomini impegnati ad arredare il loro nuovo apparta­mento con tesori imballati in modo adeguato e sicuro.

Ben presto, le stanze linde e coperte di moquette sopra San Patrizio ospitarono una caterva di spettrali colli bianchi, alcuni decisamente troppo simili a mummie o a cadaveri imbalsamati con poca cura. L’angelo di marmo bianco con l’acquasantiera a forma di conchiglia era forse il più grande. I libri di Wynken, av­volti nella plastica e legati, giacevano sul tavolo da pranzo orien­tale. Non avevo ancora avuto la possibilità di esaminarli, ma quello non era il momento adatto.

Mi lasciai cadere in una poltrona nella stanza anteriore, ansi­mando per la noia e per l’irritazione di aver dovuto svolgere un compito tanto umile.

David era trionfante. «Qui sono al sicuro», esclamò con en­tusiasmo. Il suo giovane corpo sembrava infiammato dallo spiri­to del David anziano. Quando lo guardavo, talvolta li vedevo emergere entrambi... il David che avevo conosciuto vivo e la gio­vane, robusta forma maschile anglosassone. Era assolutamente perfetto. Senza dubbio, il vampiro più forte che avessi mai crea­to. Non dipendeva solo dalla forza del mio sangue o dalle soffe­renze e tribolazioni che avevo patito prima di renderlo uno di noi. Quando lo avevo creato, gli avevo dato più sangue che a chiunque altro, mettendo a repentaglio la mia stessa sopravvi­venza. Ma non importava...

Rimasi fermo lì ad amarlo, ad amare la mia creazione. Ero co­perto di polvere.

Mi resi conto che avevamo sistemato tutto. Avevamo portato lì persino i tappeti, per ultimi, arrotolati. Anche quello impre­gnato del sangue di Roger. Una reliquia del Roger martirizzato. Avrei risparmiato quel dettaglio a Dora.

«Devo andare a caccia», annunciò David con un sussurro, scuotendomi dalle mie elucubrazioni.

Non risposi.

«Vieni con me?»

«Vuoi che lo faccia?» chiesi.

Rimase immobile a osservarmi con un’espressione stranissi­ma, il viso olivastro e giovanile privo della benché minima traccia di condanna e men che meno di disgusto. «Perché non mi ac­compagni? Non ti piace guardare, anche se non vuoi cacciare?»

Annuii. Non avrei mai immaginato che mi avrebbe permesso di assistere. Louis detestava che lo guardassi. L’anno prima, quando noi tre avevamo passato un po’ di tempo insieme, David si era dimostrato di gran lunga troppo riluttante e sospettoso per avanzare una simile proposta.

Scendemmo nella fitta oscurità innevata di Central Park. Si sentivano ovunque gli occupanti notturni del parco, un fioco russare, borbottii, frammenti di conversazione, fumo. Quelli so­no individui robusti, capaci di vivere allo stato brado nel bel mezzo di una città che è notoriamente fatale per gli abitanti me­no abbienti.

David trovò presto ciò che cercava: un giovane con la papali­na, le dita dei piedi che spuntavano dalle scarpe rotte, a passeg­gio di notte, da solo, drogato, insensibile al freddo e intento a parlare ad alta voce di gente ormai morta da tempo.

Rimasi in disparte sotto gli alberi, bagnato dalla neve e indif­ferente. David allungò una mano verso la spalla del giovanotto, lo fece voltare delicatamente e lo abbracciò. Un classico. Mentre David si chinava su di lui per bere, il giovane cominciò a ridere e a parlare allo stesso tempo. E poi tacque, paralizzato, finché il corpo non venne steso a riposare ai piedi di un albero spoglio.

Verso sud, i grattacieli di New York sfavillavano, e, intorno a noi, come in un abbraccio, si stendevano le luci più calde e più piccole dell’East e del West Side. David rimase immobile e io mi chiesi a cosa stesse pensando. Pareva aver perso la capacità di muoversi. Mi avvicinai. In quel momento non era il tranquillo, zelante archivista, sembrava che stesse soffrendo.

«Cosa c’è?» gli chiesi.

«Lo sai. Non sopravvivrò poi così a lungo», sussurrò.

«Lo credi davvero? Coi doni che ti ho dato...»

«Sstt, siamo troppo abituati a dirci cose che sappiamo inac­cettabili per l’altro. Dovremmo smettere.»

«E dire soltanto la verità? D’accordo. Eccoti la verità. Hai l’impressione di non poter sopravvivere. Adesso, mentre il suo sangue è caldo e scorre impetuoso dentro di te: è naturale; ma non ti sentirai così in eterno. È quella la chiave. Non intendo di­scutere oltre della sopravvivenza. Ho fatto un energico tentativo di mettere fine alla mia vita e non ha funzionato; inoltre, ho ben altro cui pensare: a questa Cosa che mi sta seguendo, e a come posso aiutare Dora prima che essa mi raggiunga.» Questo lo ri­dusse al silenzio.

C’incamminammo insieme, alla maniera mortale, nel parco buio, i miei piedi che affondavano scricchiolando nella neve. En­trammo e uscimmo dai boschetti privi di foglie, scostando i neri rami bagnati, i distanti edifici di midtown che non sparivano mai del tutto.

Temendo di sentire di nuovo il rumore di passi, avevo i nervi a fior di pelle e una cupa ipotesi mi era appena balenata nel cervel­lo: che l’orrenda Cosa manifestatasi, il Diavolo in persona o chiunque fosse, avesse semplicemente dato la caccia a Roger...

Ma allora cosa c’entrava l’uomo, anonimo e dall’aspetto asso­lutamente ordinario? Ecco com’era diventato nella mia mente l’uomo che avevo intravisto prima dell’alba.

Ci avvicinammo alle luci di Central Park South, gli edifici che svettavano più alti, con un’arroganza che nemmeno Babilonia avrebbe potuto ostentare, sfidando il paradiso. Ma c’erano i confortanti suoni prodotti dai ricchi e da gente indaffarata, che andava e veniva, e lo strombazzare dei taxi intensificava il fra­stuono.

David stava rimuginando, offeso.

Alla fine dissi: «Se tu avessi visto la Cosa che ho visto io, non saresti così ansioso di passare alla fase successiva». Sospirai. Non avrei descritto nuovamente l’essere alato a nessuno di noi due.

«Ne sono ispirato, non puoi immaginare quanto», confessò.

«Finire all’inferno? Con un Diavolo come quello?»

«Hai avuto l’impressione che fosse infernale? Hai percepito la presenza del male? Te l’ho già chiesto. L’hai percepita quando la Cosa ha preso Roger? Roger ti ha dato l’impressione di soffri­re?»

Trovavo quelle domande un po’ caviliose. «Non essere trop­po ottimista riguardo alla morte. Ti avviso. Le mie opinioni stan­no cambiando. Adesso il mio ateismo e il nichilismo di un tempo mi appaiono superficiali, e persino leggermente arroganti», ri­sposi.

Lui sorrise con l’aria di voler liquidare l’argomento, come aveva sempre fatto quando era un mortale e portava l’alloro della veneranda età. «Hai mai letto i racconti di Hawthorne?» mi chiese con dolcezza. Avevamo raggiunto la strada, l’avevamo at­traversata e adesso stavamo costeggiando lentamente la fontana di fronte al Plaza.

«Sì, una volta o due», risposi.

«E ricordi la ricerca del ‘peccato imperdonabile’ da parte di Ethan Brand?»

«Credo di sì. Brand andò a cercarlo e si lasciò alle spalle il suo prossimo.»

«Cerca di ricordare questo paragrafo», ribattè in tono genti­le. Imboccammo la Quinta, una strada che non è mai deserta o buia. David mi citò queste righe: «‘Aveva perso la presa sulla ca­tena magnetica dell’umanità. Non era più un fratello-uomo, ca­pace di aprire le camere o i sotterranei della nostra comune natu­ra con la chiave della solidarietà sacra, che gli dava il diritto di condividerne tutti i segreti; adesso era un freddo osservatore, che esaminava il genere umano come se fosse l’oggetto del suo esperimento e, alla fine, trasformava l’uomo e la donna nelle sue marionette, e ne tirava i fili portandole ai livelli di crimine essen­ziali al suo studio’».

Non dissi nulla. Volevo protestare, ma non sarebbe stato one­sto. Volevo rispondere che non avrei mai e poi mai trattato gli umani come marionette. Non avevo fatto altro che osservare Ro­ger, dannazione, e Gretchen nella giungla. Non avevo tirato nes­sun filo. L’onestà aveva rovinato sia lei sia me, insieme. Ma, in fin dei conti, lui, nel pronunciare quelle parole, non stava parlando di me, bensì di sé, della distanza che ormai sentiva tra se stesso e gli umani: aveva cominciato a trasformarsi in Ethan Brand.

«Lasciami continuare ancora un po’», chiese rispettosamen­te, poi ricominciò a citare. «‘Così Ethan Brand divenne un de­mone. Cominciò a esserlo nel momento in cui la sua natura mo­rale cessò di mantenere il passo con il miglioramento del suo in­telletto...’» S’interruppe.

Rimasi in silenzio.

«È questa la nostra dannazione. Il nostro progresso morale si è concluso mentre il nostro intelletto cresce a vista d’occhio», sussurrò.

Non aprii bocca nemmeno stavolta. Cosa avrei dovuto dire? La disperazione mi era così familiare... Poteva essere allontanata dalla visione di uno splendido manichino in vetrina; scacciata dallo spettacolo delle luci intorno a una torre; cancellata dall’e­norme sagoma spettrale di San Patrizio che cominciava ad appa­rire in lontananza. Ma poi sarebbe tornata.

Privo di significato, dissi quasi, ma ciò che mi uscì dalle labbra era completamente diverso. «Devo pensare a Dora», annunciai.

Dora.

«Sì, e grazie a te adesso devo pensarci anch’io, vero?» ribattè David.

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