10

Ci trovavamo all’interno della tromba d’aria, in una sorta di tunnel, ma tra noi calò un silenzio in cui riuscivo a udire il mio stesso respiro. Memnoch, le sue braccia serrate sul mio corpo, era talmente vicino a me che riuscivo a vederne il profilo del viso scuro e a sentirne la massa di capelli sfiorarmi il volto. Non era più l’Uomo Comune, bensì l’angelo di granito, le ali così alte da impedirmi di metterle a fuoco e ripiegate intorno a noi per ripa­rarci dal vento.

Mentre ci sollevavamo a ritmo costante, senza la minima trac­cia di gravita, due cose mi risultarono subito evidenti: la prima, che eravamo circondati da un numero indeterminato di anime. Anime, dico! Cosa vidi? Vidi sagome nella tromba d’aria, alcune antropomorfe, altre semplici volti, ma ovunque, intorno a me, c’erano distinte entità spirituali o individui, di cui udivo molto vagamente le voci — sussurri, grida e lamenti — che si mescolava­no al vento. Il suono non poteva più ferirmi, come aveva fatto durante le precedenti apparizioni, ma sentii comunque questa ressa mentre schizzavamo verso l’alto, ruotando come intorno a un asse, il tunnel che si restringeva improvvisamente tanto che le anime parevano toccarci, e poi si ampliava, per restringersi di nuovo poco dopo.

La seconda cosa di cui mi accorsi subito era che l’oscurità si stava diradando oppure qualcosa la stava risucchiando dalla fi­gura di Memnoch. Il suo profilo era luminoso, addirittura traslu­cido, così come i suoi insignificanti indumenti; e le zampe capri­ne del Diavolo scuro erano diventate le gambe di un uomo mas­siccio. In breve, l’intera sagoma vaga e fumosa era stata sostituita da qualcosa di cristallino e riflettente, ma che al tatto risultava elastico, tiepido, vivo.

Alcune parole mi balenarono nella mente, brani delle Sacre Scritture, brandelli di visioni, profezie, poesie; ma non c’era il tempo di valutare, analizzare e imprimere nella memoria.

Memnoch mi parlò con una voce che forse non era tecnicamente udibile, anche se io sentii il familiare eloquio privo di ac­cento dell’Uomo Comune.

«È difficile andare in paradiso senza preparazione, perciò re­sterai sbalordito e confuso da quello che vedrai. Ma se non lo ve­di subito, lo desidererai ardentemente durante tutta la nostra conversazione, quindi ti sto accompagnando verso le sue porte. Sappi che la risata che senti non è una risata. È gioia. Ti sembrerà una risata perché è solo in questo modo che un suono tanto esta­tico può essere captato o percepito fisicamente.»

Non appena ebbe pronunciato l’ultima sillaba, ci ritrovammo in piedi in un giardino, su un ponte che valicava un torrente! Per un attimo la luce m’inondò gli occhi tanto da costringermi a chiuderli, pensando che il sole del nostro sistema solare mi aves­se trovato e stesse per bruciarmi, così come avrei dovuto essere bruciato: un vampiro trasformato in una torcia ardente e annien­tato per l’eternità.

Ma questa luce priva di fonte era penetrante e benevola. Aprii gli occhi e mi resi conto che ci trovavamo di nuovo tra miriadi di altri individui e sulle rive del torrente e, in ogni direzione, vidi esseri che si salutavano, si abbracciavano, conversavano, piange­vano e urlavano di gioia. Anche stavolta le sagome mostravano tutte le diverse gradazioni di nitidezza. Un uomo appariva solido come se lo avessi incontrato in una strada cittadina; un altro sem­brava solo una gigantesca espressione facciale; altri parevano turbinanti brandelli di materia e luce; altri ancora erano completamente diafani. Alcuni sembravano invisibili, solo che io sapevo che erano lì! Era impossibile determinarne il numero.

Il luogo era sconfinato. Le acque del ruscello brillavano di lu­ce riflessa; l’erba del giardino era di un verde così vivido da dare l’impressione che stesse nascendo in quel preciso istante, come in un dipinto o in un filmato!

Mi aggrappai a Memnoch e mi voltai per osservare la sua nuo­va forma chiara. Adesso era l’esatto contrario dell’angelo scuro sempre più denso, eppure il viso mostrava gli stessi lineamenti marcati della statua di granito, e gli occhi lo stesso dolce cipiglio. Osservate gli angeli e i demoni di William Blake e anche voi lo avrete visto; è al di là dell’innocenza.

«Adesso entriamo», annunciò.

Mi accorsi che mi stavo aggrappando a lui con entrambe le mani. «Vuoi dire che questo non è il paradiso?» gridai, e la voce mi uscì sotto forma di discorso intimo, riservato unicamente a noi due.

«No», rispose, sorridendo e guidandomi lungo il ponte. «Quando entriamo devi essere forte. Devi renderti conto che ti trovi nel tuo corpo legato alla terra, per quanto insolito, e i tuoi sensi saranno sopraffatti! Non riuscirai a sopportare ciò che ve­drai, come invece potresti fare se fossi morto, oppure un angelo, oppure il mio luogotenente, che è quello che voglio tu diventi.»

Non c’era il tempo per discutere. Avevamo percorso il ponte; porte gigantesche si stavano aprendo davanti a noi. Non riuscivo a vedere la sommità dei muri.

Il suono aumentò e ci avviluppò; sembrava davvero una risa­ta, ondate susseguenti di una risata cristallina, solo che era cano­ra, come se tutti coloro che ridevano stessero anche cantando a squarciagola dei cantici.

Ciò che vidi mi sbalordì tanto quanto il suono.

Questo era il luogo più denso, intenso, ricco di attività e splendido che avessi mai visto. Il nostro linguaggio richiede in­numerevoli sinonimi per l’aggettivo «bello»; gli occhi riusciva­no a vedere ciò che la lingua non può assolutamente descrivere.

Ancora una volta c’era gente dappertutto, gente colma di luce e dalla forma umana; avevano braccia, gambe, visi raggianti, ca­pelli, indumenti di ogni tipo, eppure nessun costume sembrava particolarmente importante, e si stavano muovendo, percorren­do dei sentieri in gruppo o da soli, oppure riunendosi, abbrac­ciandosi, stringendosi, allungando le braccia e tenendosi per mano.

Mi voltai a destra e a sinistra, poi ruotai su me stesso, e in ogni direzione vedevo queste moltitudini di esseri, immersi in conver­sazione o dialogo o qualche genere di comunicazione, alcuni che si abbracciavano e si baciavano, altri che ballavano, e i crocchi e capannelli che continuavano a spostarsi e ingrandirsi o rimpic­ciolirsi e ampliarsi.

In realtà, il vero mistero era rappresentato dall’abbinamento di apparenti disordine e ordine. Questo non era caos, non era confusione, non era frastuono; sembrava piuttosto l’ilarità di una grande riunione finale, e con «finale» intendo dire che sembrava una continua soluzione di qualcosa, una miracolosa rivelazione protratta, una riunione e una crescente comprensione, condivisa da tutti i partecipanti mentre si muovevano con rapidità o lan­guidamente (o addirittura, in alcuni casi, restavano seduti a fare ben poco), tra colline e vallate, e lungo sentieri, in aree boschive e dentro edifici che sembravano spuntare l’uno dall’altro, diver­samente da qualsiasi fabbricato io avessi mai visto sulla terra.

Non notai da nessuna parte qualcosa di specificamente dome­stico come una casa o un palazzo. Al contrario, gli edifici erano molto più ampi, colmi di luce brillante come il giardino, con cor­ridoi e scalinate che si diramavano con perfetta fluidità. Eppure, elementi decorativi ricoprivano ogni cosa. Le superfici e le consi­stenze erano talmente variegate che una qualunque di esse avrebbe potuto catturare il mio interesse in eterno.

Non posso spiegare la sensazione che provai, quella di poter osservare tutto simultaneamente. Adesso sono costretto a parlare in sequenza. Devo prendere sezioni di questo ambiente illimitato e magnifico, per poter proiettare la mia fallibile luce sul tutto.

C’erano arcate, torri, saloni, gallerie, giardini, campi immensi, foreste, ruscelli. Le diverse aree fluivano l’una nell’altra, e io le stavo attraversando tutte, con accanto Memnoch che mi stringe­va forte per rassicurarmi. Il mio sguardo veniva attirato ora da una scultura di spettacolosa bellezza, ora da una cascata di fiori, ora da un gigantesco albero proteso nel cielo limpido e azzurro, solo per sentire le sue mani che mi costringevano a voltarmi, co­me se fossi trattenuto su una fune sospesa nel vuoto da cui pote­vo cadere fatalmente.

Risi; piansi; feci entrambe le cose, e il mio corpo fu assalito da convulsioni dovute alle emozioni. Mi aggrappavo a Memnoch e cercavo di guardare al di sopra della sua spalla e dietro di lui, e ruotavo nella sua stretta come un bimbo, voltandomi per incro­ciare lo sguardo di questa o quella persona che mi stava guardan­do o per cercare un momento di stasi mentre i gruppi e gli assembramenti si spostavano e si muovevano.

All’improvviso, ci ritrovammo in un vasto salone. «Dio, se so­lo David potesse vederlo!» gridai. I libri e i rotoli di pergamena erano innumerevoli, e all’apparenza non c’era niente d’illogico o caotico nel modo in cui tutti quei documenti erano aperti e pronti per essere esaminati.

«Non guardare perché non te ne ricorderesti», disse Mem­noch. Mi afferrò la mano come se fossi un bambino. Avevo cer­cato di prendere un rotolo di pergamena che conteneva la stupe­facente spiegazione di un problema legato ad atomi, fotoni e neutrini. Ma aveva ragione. La conoscenza scomparve all’istante, e il giardino ci circondò mentre perdevo l’equilibrio e cadevo ad­dosso a lui. Abbassai gli occhi sul terreno e vidi fiori assoluta­mente perfetti, che erano ciò che i nostri fiori sulla terra potreb­bero diventare! Non conosco altro modo per descrivere come fossero ben realizzati i petali e la parte centrale e i colori. I colori stessi erano così vividi e così elegantemente delineati che all’im­provviso dubitai che il nostro spettro cromatico vi fosse incluso. Voglio dire che non penso che il nostro spettro cromatico rap­presentasse il limite! Credo che vigesse un diverso insieme di regole, oppure si trattava di un ampliamento, la facoltà di distin­guere abbinamenti di colori che non sono chimicamente visibili sulla terra.

Le ondate di risate, canti e conversazioni divennero così forti da sopraffare gli altri miei sensi; mi sentii improvvisamente acce­cato dal suono; eppure la luce stava rivelando ogni prezioso det­taglio.

«Zaffirino!» gridai tutt’a un tratto, cercando d’identificare l’azzurro verdognolo delle grandi foglie che ci circondavano e ondeggiavano delicatamente, al che Memnoch sorrise e annuì, con aria di approvazione, allungando di nuovo una mano per im­pedirmi di toccare il paradiso, nel mio tentativo di afferrare qualcosa della magnificenza che vedevo.

«Ma non posso provocare nessun danno, vero?»

All’improvviso sembrò inconcepibile che qualcuno potesse rovinare qualcosa lì, dalle pareti di quarzo e cristallo con le loro guglie e i loro campanili svettanti ai dolci, morbidi rampicanti che salivano intrecciandosi ai rami d’albero da cui pendevano frutti e fiori splendidi. «No, no, non vorrei mai rovinarlo!» esclamai. Udii distintamente la mia voce, benché le voci di tutti coloro che mi circondavano sembrassero sovrastarla.

«Guarda!» mi esortò Memnoch. «Guardali! Guarda!» E mi ruotò la testa come a impedirmi di rannicchiarmi pavidamente contro il suo petto, fissando invece le moltitudini. E capii che erano riunioni, quelle che stavo vedendo, clan che si radunava­no, famiglie, gruppi di parenti o amici sinceri, esseri con una profonda conoscenza reciproca, creature che condividevano ma­nifestazioni fisiche e materiali simili! E per un audace momento, un audace istante, vidi che tutti quegli esseri, da un capo all’altro di quel luogo sconfinato, erano collegati grazie a una mano, la punta di un dito, un braccio o il tocco di un piede. Che un clan s’infilava nel ventre di un altro, e una tribù si espandeva per diffondersi tra innumerevoli famiglie, e le famiglie si univano per formare nazioni, e che l’intera congregazione era in realtà una conformazione palpabile, visibile e interconnessa! Ciascuno in­fluenzava tutti gli altri; ciascuno, nella propria separatezza, attin­geva alla separatezza di chiunque altro!

Sbattei le palpebre, in preda alle vertigini, sul punto di sve­nire.

Memnoch mi sorresse. «Guarda ancora!» sussurrò, aiutan­domi a reggermi in piedi.

Tuttavia io mi coprii gli occhi, perché sapevo che se avessi ri­visto le varie connessioni sarei crollato! Sarei morto all’interno del mio senso di separatezza! Eppure ogni essere che vedevo era separato.

«Sono tutti se stessi!» gridai. Tenevo le mani sugli occhi e sentivo più intensamente i canti travolgenti e levantisi in alto; le straordinarie melodie e le cascate di voci. E al di sotto di tutto questo giunse una tale sequenza di ritmi fluttuanti, che si sovrap­ponevano l’uno all’altro, che cominciai a cantare.

Cantai insieme con tutti gli altri! Rimasi immobile, per un at­timo libero dalla stretta di Memnoch, aprii gli occhi e sentii la mia voce uscire da me e salire, come nell’universo stesso.

Cantai e cantai, ma il mio canto era colmo di desiderio e im­mensa curiosità e frustrazione, così come di celebrazione. E mi assalì, mi colpì violentemente la consapevolezza che da nessuna parte, intorno a me, c’era qualcuno che fosse insicuro o insoddi­sfatto; che non c’era nulla di simile alla stasi o al tedio, eppure il termine «frenesia» non si poteva assolutamente applicare al co­stante movimento e spostamento di visi e forme cui assistevo.

Il mio canto rappresentò l’unica nota triste nel paradiso, ep­pure la tristezza venne subito trasfigurata nell’armonia, in una forma di salmo o cantico, in un inno di lode, meraviglia e gratitudine.

Gridai. Molto probabilmente gridai una sola parola: «Dio». Non era una preghiera o un’ammissione o un appello, ma solo una potente esclamazione.

Eravamo fermi su una soglia. Oltre si stagliava un panorama dopo l’altro, e all’improvviso provai la vaga sensazione che al di là della balaustrata vicina, sotto di essa, ci fosse il mondo.

Il mondo come non l’avevo mai visto, in tutte le sue epoche, con tutti i segreti del passato finalmente svelati. Dovevo solo cor­rere verso il parapetto e avrei potuto osservare l’epoca dell’Eden o dell’antica Mesopotamia, o l’attimo in cui le legioni romane avevano marciato nei boschi della mia casa terrena. Avrei visto la grande eruzione del Vesuvio riversare la sua orrenda cenere leta­le sull’antica città di Pompei...

Era tutto lì, pronto per essere appreso e finalmente capito, tutti i dubbi risolti, il profumo di un’altra epoca, il suo gusto...

Mi lanciai verso la balaustrata, che appariva sempre più lonta­na. Corsi più forte, eppure la distanza continuava a sembrare incolmabile, e all’improvviso fui colto dall’intensa consapevolezza che quella visione della terra poteva essere mescolata a fumo e fuoco e sofferenza, e che avrebbe potuto cancellare la traboccan­te sensazione di gioia dentro di me. Ma dovevo vedere. Non ero morto. Non ero venuto lì per restare.

Memnoch allungò una mano per fermarmi, ma io correvo più forte di quanto potesse fare lui.

A un tratto si levò una luce immensa, una fonte diretta im­mensamente più calda e luminosa della splendida luce che cade­va già senza pregiudizi su qualunque cosa io vedessi. Questa grande luce sempre più intensa e magnetica continuò a dilatarsi fino a rendere bianco il mondo sottostante, l’immenso paesaggio confuso di fuoco e orrore e sofferenza, e a trasformarlo in un’a­strazione di se stesso, sull’orlo della combustione.

Memnoch mi tirò indietro, sollevando di scatto le braccia per coprirmi gli occhi. Lo imitai. Mi accorsi che aveva chinato il ca­po e stava riparando i suoi occhi dietro di me.

Lo sentii sospirare, oppure era un gemito? Non riuscii a stabi­lirlo. Per un attimo il suono riempì l’universo; tutte le urla e le ri­sate e i canti, e qualcosa di lugubre che giungeva dalle profondità della terra — tutti questi suoni —, vennero assorbiti nel sospiro di Memnoch.

Improvvisamente, sentii i muscoli delle sue possenti braccia rilasciarsi e lasciarmi andare. Alzai lo sguardo e, al centro dell’i­nondazione di luce, vidi di nuovo la balaustrata, contro la quale si stagliava una sagoma.

Era una figura alta, eretta e con le mani posate sul parapetto, intenta a guardare al di là, verso il basso. Sembrava un uomo. Si voltò, mi guardò e allungò una mano per darmi il benvenuto. I suoi capelli e i suoi occhi erano scuri, sul castano, il suo viso sim­metrico e privo di difetti, il suo sguardo intenso; e la stretta delle sue dita molto vigorosa.

Rimasi senza fiato. Percepii il mio corpo in tutta la sua concre­tezza e fragilità, mentre le sue dita serravano le mie. Ero in punto di morte. Avrei potuto smettere di respirare in quel preciso istan­te o smettere di muovermi per dedizione alla vita e morire!

L’essere mi attirò a sé, emanando una cascata di luce che si mescolò con la luce che brillava dietro e tutt’intorno a lui, tanto che il suo viso divenne luminoso eppure più distinto e dettaglia­to. Vidi i pori della sua pelle dorata sempre più scura, vidi le screpolature sulle sue labbra, l’ombra della barba rasata.

E poi mi parlò, in tono supplichevole, con voce disperata, una voce forte e mascolina, forse addirittura giovane.

«Non saresti mai mio nemico, vero? Non potresti, vero? Non tu, Lestat, no, non tu!»

Il mio Dio.

In preda allo strazio più intenso, venni strappato dalla sua stretta, dal suo centro e dal suo ambiente.

La tromba d’aria circondava di nuovo me e Memnoch. Sin­ghiozzai e picchiai sul petto del Diavolo. Il paradiso era sparito!

«Memnoch, lasciami andare! Dio, era Dio!»

Lui rafforzò la presa, cercando con tutte le sue energie di por­tarmi giù, di sottomettermi, di costringermi a iniziare la discesa.

Precipitammo in un’orrenda caduta, il che mi terrorizzò tanto che non riuscii a protestare o ad aggrapparmi a Memnoch o a fa­re qualunque altra cosa se non osservare le rapide correnti di ani­me tutt’intorno a noi che salivano, guardavano, scendevano, l’o­scurità che giungeva di nuovo, ogni cosa che si scuriva, finché improvvisamente non viaggiammo nell’aria umida, piena di pro­fumi familiari e naturali, e poi raggiungemmo una pausa dolce e silenziosa.

Era un altro giardino. Tranquillo e magnifico. Ma questa era la terra. Lo sapevo. La mia terra; e non rimasi deluso dalla sua complessità o dai suoi profumi o dalla sua sostanza. Anzi, mi la­sciai cadere sull’erba e affondai le dita nel terriccio. Lo sentii morbido e sabbioso sotto le unghie. Singhiozzai. Riuscii a distin­guere il gusto del fango.

Il sole splendeva su di noi, su entrambi. Memnoch era seduto e mi stava fissando, le sue ali immense che cominciavano a svani­re lentamente, finché non diventammo due figure simili a uomini: l’una, prona e piangente come un bambino; l’altra, un grande angelo, meditabondo e in attesa, i suoi capelli una criniera di lu­ce sempre più fioca.

«Hai sentito cosa mi ha detto!» urlai, mettendomi seduto. La mia voce avrebbe dovuto essere assordante, invece sembrava so­lo abbastanza chiara da poter essere udita perfettamente. «Ha detto: ‘Non saresti mai mio nemico, vero?’ Lo hai sentito! Mi ha chiamato per nome!»

Memnoch era imperturbabile e di gran lunga più seducente e ammaliante, in quella pallida forma angelica, di quanto non avrebbe mai potuto risultare come Uomo Comune. «Certo che ti ha chiamato per nome», convenne, sgranando gli occhi per dare maggiore enfasi alla frase. «Non vuole che tu mi aiuti. Te l’ho già detto. Sto vincendo.»

«Ma cosa ci facevamo là? Come abbiamo potuto entrare in paradiso pur essendo suoi nemici?»

«Vieni con me, Lestat, e sii il mio luogotenente; così potrai andare e venire da là a tuo piacimento.»

Lo fissai, ammutolito dallo stupore. «Dici sul serio? Andare e venire dal paradiso?»

«Sì. Ogni volta che vorrai. Non conosci le Scritture? Non sto sostenendo l’autenticità dei frammenti rimasti e nemmeno del testo originale, ma potrai andare e venire quando vorrai. Non apparterrai a quel luogo finché non verrai redento e non ci vi­vrai. Ma, una volta che sarai dalla mia parte, potrai sicuramente entrare e uscire a tuo piacimento.»

Cercai di capire cosa stava dicendo. Cercai di rievocare le gal­lerie, le biblioteche, le lunghissime file di libri, e mi accorsi che erano diventate inconsistenti; i dettagli stavano svanendo. Riu­scivo a ricordare un decimo di ciò che avevo visto, forse addirit­tura meno. Quello che ho descritto in questo libro è ciò che riu­scii a rammentare allora e che rammento adesso. E avevo visto così tante altre cose!

«Com’è possibile che Dio ci abbia lasciato entrare in paradi­so?» chiesi. Tentai di concentrarmi sulle Scritture, su qualcosa che David mi aveva detto tanto tempo prima sul Libro di Giob­be, qualcosa su Satana che volava qua e là, e Dio che chiedeva, quasi casualmente: ‘Dove sei stato?’ Una spiegazione del bene ha elohim o tribunale celeste...

«Siamo i suoi figli», spiegò Memnoch. «Vuoi che ti racconti subito com’è cominciato tutto, l’intera, autentica storia della creazione e della caduta, oppure preferisci tornare indietro e get­tarti tra le sue braccia?»

«Cosa c’è di più importante?» chiesi, e tuttavia lo sapevo: c’era la comprensione di ciò che Memnoch stava dicendo. Inol­tre, occorreva qualcosa per entrare là! Non potevo semplice­mente andarci, e Memnoch lo sapeva. Potevo scegliere, sì, ma queste erano le alternative: andare con Memnoch oppure torna­re sulla terra. L’ammissione al paradiso non era certo automatica; il suo commento era stato sarcastico, non potevo certo tornare là e lanciarmi tra le braccia di Dio.

«Hai ragione», dichiarò. «E ti sbagli completamente.»

«Non voglio vedere l’inferno!» esclamai all’improvviso. Mi alzai e indietreggiai. Mi guardai intorno. Quello era un giardino incolto, il mio giardino selvaggio, fatto di rampicanti spinosi e al­beri tozzi, di erba selvatica e orchidee abbarbicate ai nodi muschiosi dei rami, di uccelli che sfrecciavano tra le alte ragnatele di foglie. «Non voglio vedere l’inferno!» gridai di nuovo. «Non voglio, no!»

Memnoch non rispose. Sembrava che stesse riflettendo. E poi disse: «Vuoi conoscere la ragione di tutto questo oppure no? Ero così sicuro che volessi scoprirlo, tu fra tutte le creature. Pen­savo che avresti desiderato ogni minima informazione!»

«È così! Certo che voglio saperlo. Ma non... non penso di po­terci riuscire», urlai.

«Posso raccontarti quello che so», spiegò in tono gentile, stringendosi nelle spalle possenti.

I suoi capelli erano più lisci e forti dei capelli umani, forse più spessi e sicuramente più incandescenti. Riuscivo a distinguerne le radici sulla sommità della fronte liscia. Stavano ricadendo si­lenziosamente in una sorta di ordine oppure stavano semplice­mente facendosi meno scarmigliati. La pelle del suo viso era al­trettanto liscia ed elastica, il lungo naso ben disegnato, la bocca larga e carnosa, la mascella dalla linea decisa. Mi resi conto che le sue ali c’erano ancora, ma che ormai era quasi impossibile veder­le. Il disegno formato dalle piume, uno strato di piume dopo l’al­tro, era visibile, ma solo se strizzavo gli occhi e cercavo di distin­guerne i dettagli contro uno sfondo scuro alle sue spalle, come quello rappresentato dalla corteccia dell’albero.

«Non riesco a ragionare!» mi lagnai. «Vedo cosa pensi di me, pensi di aver scelto un codardo! Pensi di aver commesso un terribile errore. Ma cerca di capire, non riesco a ragionare. Io... io l’ho visto. Ha detto: ‘Non saresti mai mio nemico, vero?’ Tu mi stai chiedendo di diventarlo. Mi hai portato da Lui e poi lon­tano da Lui.»

«Come Lui stesso mi ha consentito di fare!» ribattè Mem­noch con un lieve arcuarsi delle sopracciglia.

«È così?»

«Certo.»

«Allora perché mi ha supplicato? Perché aveva quell’aspet­to?»

«Perché era Dio Incarnato, e Dio Incarnato soffre e sente le cose con la sua forma umana, e perciò ti ha concesso quel tanto di sé, tutto qui! Soffrendo! Ah, soffrendo!» Alzò gli occhi al cielo e scosse il capo. Si accigliò, con aria pensierosa. Il suo viso, in questa forma, non poteva apparire irato o contorto da un’emo­zione negativa. Blake era riuscito a guardare all’interno del para­diso.

«Ma era Dio», sussurrai.

Lui annuì, voltando la testa di lato. «Ah, sì, il Signore Viven­te», disse stancamente. Guardò in lontananza, verso gli alberi. Non sembrava arrabbiato, impaziente o stanco. Ancora una vol­ta, mi chiesi se potesse esserlo. Capii che stava ascoltando dei ru­mori nel giardino, e li udii anch’io.

Riuscivo a sentire l’odore delle cose: animali, insetti, l’ine­briante profumo dei fiori della giungla, quei fiori surriscaldati, che una foresta pluviale può nutrire sia nei suoi recessi più profondi sia tra le sue vette frondose. All’improvviso captai l’o­dore degli umani. C’era della gente in quella foresta. Ci trovava­mo in un luogo reale.

«C’è qualcun altro qui», constatai.

«Sì», disse, sorridendomi molto teneramente. «Non sei un codardo. Devo raccontarti tutto oppure lasciarti semplicemente andare? Adesso sai più cose di quelle che milioni di persone riescono a intravedere in tutta una vita. Non sai cosa fartene di quella conoscenza o come continuare a esistere o essere ciò che sei... ma hai sperimentato la tua fugace visione del paradiso. De­vo lasciarti andare? Oppure vuoi sapere come mai ho tanto biso­gno di te?»

«Sì, voglio saperlo», dichiarai. «Ma soprattutto, più di qualsiasi altra cosa, voglio sapere come noi due possiamo restare qui l’uno accanto all’altro, avversari, e come fai ad avere quell’aspet­to ed essere il Diavolo, e come... e come...» Scoppiai a ridere. «...e come faccio ad avere questo aspetto ed essere il demone che sono stato! Ecco cosa voglio sapere. Nel corso della mia esistenza non ho mai visto infrangere le leggi estetiche del mondo. Bellezza, ritmo, simmetria: sono le uniche leggi che mi siano mai sembrate naturali. E le ho sempre chiamate il giardino selvaggio! Perché sembravano spietate e insensibili davanti alla sofferen­za... Davanti alla bellezza della farfalla intrappolata nella ragna­tela! Davanti all’animale riverso nel veldt sudafricano col cuore che batte ancora mentre i leoni leccano la ferita nella sua gola.»

«Sì, capisco benissimo, e rispetto la tua filosofia. Le tue paro­le sono le mie», assentì.

«Ma ho visto qualcosa di più, lassù!» esclamai. «Ho visto il paradiso. Ho visto il giardino redento, non più selvaggio!» Rico­minciai a piangere.

«Lo so, lo so», mormorò, cercando di consolarmi.

«D’accordo.» Mi raddrizzai di nuovo, vergognandomi. Mi frugai nelle tasche, trovai un fazzoletto di lino e mi ci asciugai il viso. Il lino aveva lo stesso profumo della mia casa di New Orleans, dove giacca e fazzoletto erano rimasti fino al tramonto di quella sera, quando li avevo tolti dall’armadio per poi andare a rapire Dora per la strada.

Era successo quella sera? Non ne avevo idea. Mi premetti il fazzoletto sulla bocca. Sentii l’odore della polvere, del terriccio e del tepore di New Orleans. Mi tamponai le labbra. «D’accor­do!» dichiarai, senza fiato. «Se non sei completamente disgusta­to da me...»

«Certo che no!» m’interruppe educatamente, come avrebbe potuto fare David.

«Allora raccontami la storia della creazione. Raccontami tut­to. Avanti! Parla! Io...»

«Sì?»

«Io devo saperlo!»

Si alzò in piedi, si tolse qualche filo d’erba dall’ampia tunica e annunciò: «È questo che stavo aspettando. Ora possiamo davvero cominciare».

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