3

Avanzai solo di qualche passo, vidi delle porte girevoli, entrai nell’atrio di un locale, un ristorante, credo, e mi ritrovai seduto al bar. Proprio ciò che cercavo: semivuoto, molto buio, riscalda­mento troppo alto, bottiglie che scintillavano al centro del ban­cone circolare. Il confortante rumoreggiare di quanti stavano ce­nando al di là delle porte aperte.

Posai i gomiti sul bancone, i tacchi agganciati alla barra d’ot­tone. Rimasi seduto sullo sgabello tremando, ascoltando le chiacchiere dei mortali, ascoltando il nulla, l’inevitabile accidia e stupidità di un bar, il capo chino, gli occhiali spariti — dannazio­ne, avevo perso i miei occhiali viola! —: sì, proprio gradevole e buio questo posto, molto, molto buio; una sorta di languore tipi­camente notturno ammantava ogni cosa, un club di qualche ge­nere? Non lo sapevo, non m’importava.

«Un drink, signore?» Espressione svogliata, arrogante.

Feci il nome di un’acqua minerale. E non appena lui ebbe po­sato il bicchiere davanti a me, io v’intinsi le dita per lavarle. Il barman se n’era già andato. Non avrebbe badato a me neanche se mi fossi messo a battezzare dei neonati con quell’acqua. Altri clienti erano sparsi qua e là ai tavolini, nell’oscurità; in un angolo lontano una donna piangeva e un uomo le diceva in modo bru­sco che stava attirando l’attenzione: non era vero, se ne infischia­vano tutti.

Mi lavai la bocca usando un tovagliolino di carta e l’acqua.

«Altra acqua», chiesi, mentre scostavo il bicchiere contami­nato. Pigramente, il barman prese atto della mia richiesta — san­gue giovane, personalità insulsa, vita priva di ambizione —, poi si allontanò.

Sentii una risatina poco distante... L’uomo alla mia destra a due sgabelli da me, forse; si trovava già lì quando ero entrato, giovanile, privo di odore. Completamente privo di odore, cosa davvero strana. Seccato, mi voltai a guardarlo.

«Hai intenzione di fuggire di nuovo?» sussurrò. Era la mia vittima. Era Roger, seduto su quello sgabello. Non era pieno di fratture, contuso o morto. Era tutto intero, con testa e mani. Non era lì. Dava solo l’impressione di esserci, estremamente soli­do e tranquillo, e mi sorrideva, eccitato dal mio terrore.

«Cosa c’è, Lestat?» chiese con la voce che amavo tanto, dopo averla ascoltata per sei mesi. «Nessuno, in tutti questi secoli, è mai tornato a tormentarti?»

Non dissi nulla. Non era lì. No, non c’era. Fatto di materia, ma non della stessa materia di ogni altra cosa. La parola di Da­vid. Tessuto diverso. M’irrigidii... Patetico understatement, per­ché in realtà ero paralizzato, dall’incredulità e dalla rabbia.

Lui si alzò e raggiunse lo sgabello accanto al mio. I suoi con­torni diventavano più netti e dettagliati di secondo in secondo. Adesso riuscivo a captare una specie di suono che proveniva da lui, il suono di qualcosa di vivo od organizzato, ma sicuramente non di un essere umano che respirava.

«E forse fra pochi minuti sarò abbastanza forte per chiedere una sigaretta o un bicchiere di vino», annunciò.

Infilò la mano in una tasca del cappotto — uno dei suoi preferi­ti, non quello che indossava quando lo avevo ucciso, un altro confezionato appositamente per lui a Parigi —, estrasse il suo ap­pariscente accendino d’oro e ne fece scaturire la fiammella, az­zurra e pericolosa, butano.

Mi guardò. Notai che i suoi capelli neri e ricciuti erano ben pettinati, gli occhi molto limpidi. Il bel Roger. La sua voce era identica a quella che aveva avuto da vivo: priva di accento, tipica di un nativo di New Orleans che abbia viaggiato in tutto il mon­do. Nessuna pignoleria inglese e nessuna indolenza sudista. La sua voce precisa, rapida.

«Parlo sul serio. Vuoi dire che, in tutti questi anni, nemmeno una vittima è mai tornata a tormentarti?» ripetè.

«No», risposi.

«Sei davvero incredibile. Non sopporti di aver paura neanche per un istante, vero?»

«No.»

Adesso sembrava del tutto solido. Non sapevo se anche gli al­tri riuscissero a vederlo. Non ne avevo idea, ma sospettavo di sì. Aveva un aspetto normalissimo. Riuscivo a distinguere i bottoni sui suoi polsini bianchi, e il colletto alla base della nuca, là dove i capelli sottili lo coprivano. Riuscivo perfino a distinguere le sue ciglia, che erano sempre state straordinariamente lunghe.

Il barman tornò e posò il mio bicchiere d’acqua, senza guar­dare Roger. Non ne ero ancora sicuro. Il ragazzo era troppo ma­leducato perché il suo atteggiamento dimostrasse qualcosa oltre al fatto che mi trovavo a New York.

«Come ci riesci?» chiesi.

«Nello stesso modo in cui ci riesce qualsiasi altro fantasma», rispose. «Sono morto. Ormai sono morto da un’ora e mezzo, e devo parlarti! Non so quanto posso restare qui, non so quando comincerò a... a fare Dio solo sa cosa, ma devi ascoltarmi.»

«Perché?» domandai.

«Non essere così crudele, mi hai ucciso», sussurrò, con aria genuinamente offesa.

«E tu? Che mi dici delle persone che hai assassinato, della madre di Dora? Lei torna mai a chiederti udienza?»

«Oh, lo sapevo. Lo sapevo! Sai di Dora! Dio dei cieli, porta all’inferno la mia anima, ma non permettergli di fare del male a Dora.» Era visibilmente scosso.

«Non dire assurdità! Non le farei mai del male. Eri tu quello che volevo. Ti ho seguito in giro per il mondo. Se non fosse stato per un imprevisto rispetto per Dora, ti avrei ucciso molto pri­ma.»

Il barman era ricomparso. Questo provocò un sorriso estasia­to sulle labbra del mio compagno che si rivolse direttamente al giovane.

«Sì, mio caro ragazzo, vediamo, l’ultimo, ma proprio l’ultimo drink a meno che io non mi sbagli di grosso: portami un bour­bon. Sono cresciuto nel Sud. Cosa avete? No, sai cosa ti dico, ra­gazzo? Dammi un Southern Comfort.» La sua risata fu confi­denziale, amichevole e delicata.

Il barman si allontanò e Roger posò su di me il suo sguardo furibondo. «Devi ascoltarmi, qualsiasi dannata cosa tu sia, vam­piro, demone o diavolo: non m’importa, ma non puoi fare del male a mia figlia.»

«Non ne ho nessuna intenzione. Non le farei mai del male. Vai all’inferno, starai meglio. Buonanotte.»

«Presuntuoso figlio di puttana. Quanti anni pensi che aves­si?» Stille di sudore cominciarono a imperlargli il viso. I suoi ca­pelli si agitavano dolcemente nella corrente d’aria che attraversa­va la stanza.

«Non me ne frega proprio niente! Sei stato un pasto che vale­va la pena di attendere», lo provocai.

«Sei davvero sfacciato, non credi?» chiese in tono acido. «Ma non sei affatto superficiale come fingi di essere.»

«Oh, lo pensi davvero? Mettimi alla prova. Potresti scoprirmi ‘simile a un ottone reboante o a un cembalo tintinnante’.»

Questo lo fece esitare.

Fece esitare anche me. Da dove arrivavano quelle parole? Perché mi erano uscite di bocca in quella forma? Non era da me usare quel linguaggio figurato!

Lui stava percependo la mia angoscia, la mia palese incertez­za. Mi chiesi come si fosse manifestata: mi ero afflosciato o inde­bolito un poco come fanno alcuni mortali, oppure semplicemen­te avevo assunto un’aria perplessa?

Il barman gli portò il drink. Con notevole esitazione, lui cercò di stringere il bicchiere e sollevarlo. Ci riuscì, se lo portò alle lab­bra e assaggiò il liquore. Era sbalordito, grato e improvvisamente così pieno di paura che per poco non si disintegrò. L’illusione fu sul punto di essere cancellata.

Eppure non si arrese. Era palesemente la persona che avevo appena ucciso, fatto a pezzi e sepolto in giro per Manhattan, per­ciò guardarlo mi dava la nausea. Capii che una cosa soltanto m’impediva di essere preso dal panico: il fatto che mi stesse parlando. Cosa aveva detto una volta David, quando era ancora vi­vo, a questo proposito? Che non avrebbe ucciso un vampiro per­ché il vampiro aveva la capacità di parlargli? E adesso questo dannato fantasma mi stava parlando.

«Devo raccontarti di Dora», spiegò.

«Ti ho già detto che non farò mai del male a Dora o a qualcu­no come lei. Cosa ci fai qui con me? Quando sei apparso non sa­pevi nemmeno che conoscevo Dora! E ora vuoi parlarmi di lei?»

«Profondo, sono stato ucciso da un essere profondo, una ve­ra fortuna, qualcuno che ha realmente apprezzato la mia morte, vero?» Bevve qualche altro sorso del Southern Comfort dal pro­fumo dolce. «Questo era il drink preferito di Janis Joplin, sai», disse, riferendosi alla cantante defunta che anch’io avevo amato. «Senti, voglio che tu mi ascolti, anche solo per pura curiosità, non me ne importa un fico secco, ma ascoltami. Lascia che ti rac­conti di Dora e di me. Voglio che tu capisca. Voglio che tu capi­sca davvero chi ero, a prescindere dall’idea che ti sei fatto di me. Voglio che tu ti prenda cura di Dora. E poi c’è qualcosa nell’ap­partamento, qualcosa che voglio che tu...»

«Il velo di Veronica incorniciato?»

«No! Quello è ciarpame. Certo, risale a quattro secoli fa, ma è una comune copia del velo di Veronica, basta avere abbastanza denaro. Hai frugato in casa mia?»

«Perché volevi dare il velo a Dora?» domandai.

Questo lo calmò. «Ci hai sentito parlare?»

«Parecchie volte.»

Stava facendo congetture, valutando la situazione. Sembrava perfettamente equilibrato, il suo scuro viso orientale che non ri­velava nulla se non sincerità e grande cautela.

«Hai detto ‘che tu ti prenda cura di Dora’?» chiesi. «È que­sto che mi hai chiesto di fare? Badare a lei? Ora questa è un’altra proposta e perché diavolo vuoi raccontarmi la storia della tua vi­ta? Stai esponendo il tuo personale giudizio postumo al tizio sba­gliato! Non m’interessa come sei diventato ciò che eri. E infine, gli oggetti nell’appartamento: perché mai un fantasma dovrebbe preoccuparsi di cose simili?»

Non ero del tutto sincero. Mi stavo dimostrando di gran lun­ga troppo irriverente e lo sapevamo entrambi. Era naturale che si preoccupasse dei suoi tesori. Ma era stata Dora a farlo tornare dal regno dei morti.

Adesso i suoi capelli erano di un nero più intenso, e il cappot­to aveva acquistato maggiore consistenza. Riuscivo a distinguere i fili di seta e cashmere intrecciati nel tessuto. Rivedevo le sue un­ghie, fresche di manicure, ben tagliate e lucide. Le stesse mani che avevo infilato tra i rifiuti! Non credo che tutti questi dettagli fossero stati visibili, pochi istanti prima.

«Cristo santo», mormorai.

Lui scoppiò a ridere. «Sei più spaventato di me.»

«Dove ti trovi?»

«Di cosa stai parlando? Sono seduto accanto a te. Ci trovia­mo in un bar del Village. Cosa intendi dire chiedendomi dove mi trovo? Quanto al mio corpo, sai bene quanto me dove ne hai get­tato i vari pezzi», rispose sprezzante.

«Ecco perché mi stai tormentando.»

«Niente affatto. Non potrebbe fregarmene di meno di quel corpo. La penso così sin dall’istante in cui l’ho lasciato. Lo sai benissimo!»

«No, no, insomma, in che reame ti trovi adesso, che cos’è, do­ve sei, cosa hai visto quando sei arrivato lì... cosa...?»

Lui scosse il capo con un sorriso tristissimo. «Conosci già le risposte. Non so dove mi trovo, ma qualcosa mi sta aspettando. Ne sono quasi sicuro: qualcosa sta aspettando. Forse è semplice­mente la disintegrazione. L’oscurità. Ma sembra piuttosto una questione personale. Quel qualcosa non aspetterà in eterno. Ma non so come faccio a saperlo. E non so perché mi sia permesso di contattarti, se dipenda dalla mera forza di volontà, la mia, voglio dire, che è davvero notevole, o se si tratti invece di una conces­sione di pochi istanti, non lo so! Tuttavia io ti ho dato la caccia. Ti ho seguito fuori dell’appartamento e poi di nuovo là, e subito dopo mentre giravi per la città col cadavere; sono venuto qui e adesso devo parlarti. Non ho intenzione di andarmene senza lot­tare, finché non ti avrò parlato.»

«Qualcosa ti sta aspettando», sussurrai. Si trattava di timore reverenziale, puro e semplice. «E alla fine, dopo che avremo fini­to la nostra chiacchierata, se non ti dissolvi, dove andrai, di pre­ciso?»

Lui scosse la testa e guardò in cagnesco le bottiglie allineate sulla rastrelliera centrale, una marea di luce, colore, etichette. «Tutto ciò è seccante. Sta’ zitto.»

Vi era una certa acredine nella sua voce. Sta’ zitto. Intimarmi di tacere.

«Non posso prendermi cura di tua figlia», dichiarai.

«Cosa vuoi dire?» Mi lanciò un’occhiata furibonda e bevve un’altra sorsata del suo drink, poi fece cenno al barman di por­targliene un secondo.

«Hai intenzione di ubriacarti?» chiesi.

«Non credo di poterlo fare. Tu devi prenderti cura di lei. Di­venterà tutto di dominio pubblico, non capisci? Ho dei nemici che vorrebbero ucciderla solo perché era mia figlia. Non puoi immaginare quanto io sia prudente e quanto invece lei sia avven­tata, come creda nella divina provvidenza. E poi da una parte c’è il governo, coi suoi segugi, e dall’altra i miei oggetti, le mie reliquie, i miei libri!»

Ero affascinato. Per alcuni istanti avevo dimenticato che si trattava di un fantasma. Adesso i miei occhi non me ne fornivano più nessuna prova. Nessuna. Però lui non aveva odore e il flebile suono di vita che emetteva continuava ad avere ben poco a che fare con dei veri polmoni o un vero cuore.

«D’accordo, sarò sincero», disse. «Ho paura per lei. Deve aspettare che la sua notorietà svanisca; deve passare abbastanza tempo perché i miei nemici la dimentichino. La maggior parte di loro non sospetta la sua esistenza. Ma qualcuno potrebbe esserne a conoscenza. Anzi, lo sa sicuramente, come lo sapevi tu.»

«Non necessariamente. Io non sono un essere umano.»

«Devi proteggerla.»

«Non posso fare una cosa del genere. Non la farò.»

«Lestat, vuoi ascoltarmi?»

«No. Voglio che tu te ne vada.»

«Lo so.»

«Senti, non avevo intenzione di ucciderti, mi dispiace, è stato un errore, avrei dovuto scegliere qualcuno...» Mi tremavano le mani. Oh, come sarebbe sembrato affascinante tutto ciò in un se­condo tempo, ma allora supplicai Dio, tra tutte le persone possi­bili, di farlo smettere, di mettere fine a tutto quello.

«Sai dove sono nato, vero? Conosci quell’isolato di St. Char­les vicino a Jackson?» mi chiese.

Annuii. «La pensione. Non raccontarmi la storia della tua vi­ta. Non ce n’è motivo. Inoltre, è finita. Hai avuto la possibilità di scriverla quando eri vivo, esattamente come chiunque altro. Co­sa ti aspetti che me ne faccia?»

«Voglio raccontarti le cose importanti. Guardami! Guarda­mi, ti prego, cerca di capirmi, di amarmi e di amare Dora per me. Te ne supplico.»

Non avevo bisogno di vedere la sua espressione per compren­dere quell’atroce sofferenza, quel grido protettivo. Esiste forse al mondo una tortura capace di farci soffrire tanto quanto veder soffrire nostro figlio? I nostri cari? Le persone che ci sono più vi­cine? Dora, la minuta Dora che cammina nel convento deserto. Dora su uno schermo televisivo, le braccia protese, mentre canta.

Devo aver ansimato. Non ne sono sicuro. Devo aver tremato. Qualcosa del genere. Per un istante non riuscii a chiarirmi le idee, ma non era niente di sovrannaturale, solo infelicità e la consapevolezza che lui era lì, palpabile, visibile, che aspettava qual­cosa da me, e che c’era riuscito, era sopravvissuto in questa for­ma effimera abbastanza a lungo per estorcermi una promessa.

«Mi ami», mormorò. Sembrava sereno e affascinato, superio­re all’adulazione, superiore a me.

«Passione. Dipendeva dalla tua passione», mormorai.

«Sì, lo so. Ne sono lusingato. Non sono stato investito da un camion per strada né assassinato da un sicario. Mi hai ucciso tu! Tu, che sei sicuramente uno dei migliori tra loro.»

«Loro chi?»

«Voi, comunque vi chiamiate. Non sei umano. Eppure lo sei. Hai succhiato il sangue dal mio corpo, lo hai mescolato al tuo. Adesso ne stai traendo energia. Non sei sicuramente l’unico.» Distolse lo sguardo. «Vampiri», aggiunse. «Da bambino ho vi­sto dei fantasmi nella nostra casa di New Orleans.»

«Tutti vedono fantasmi, a New Orleans.»

Rise, suo malgrado, una risata breve, pacata. «Lo so, ma io li vidi davvero e in seguito ne ho visti ancora, in altri posti. Ma non ho mai creduto in Dio, nel Diavolo, negli angeli, nei vampiri, nei lupi mannari o fenomeni simili, cose che potrebbero influenzare il destino o cambiare il ritmo, imprecisato e apparentemente caotico, che governa l’universo.»

«Adesso credi in Dio?»

«No. Ho il vago sospetto che resisterò il più a lungo possibile in questa forma — come tutti i fantasmi che ho intravisto — e poi comincerò ad affievolirmi. Scomparirò. Come una luce. Ecco co­sa mi sta aspettando, l’oblio. E non è una questione personale. Lo sembra soltanto, perché la mia mente, ciò che ne rimane, ciò che si aggrappa alla terra qui, non riesce ad afferrare nient’altro. Cosa ne pensi?»

«Sono terrorizzato.» Non intendevo parlargli del Pedinatore. Non intendevo chiedergli della statua. Adesso sapevo che lui non c’entrava niente col fatto che la statua sembrasse viva. In quel momento era già morto, stava salendo.

«Sei terrorizzato? Be’,non sta succedendo a te. Tu fai in mo­do che succeda ad altri. Lascia che ti spieghi di Dora», disse ri­spettosamente.

«È bellissima. Io... io cercherò di prendermi cura di lei.»

«No, ha bisogno di qualcosa di più, da parte tua. Le serve un miracolo.»

«Un miracolo?»

«Senti, sei vivo, qualunque cosa tu sia, ma non sei umano. Puoi fare miracoli, vero? Potresti farne uno per Dora, non sareb­be affatto un problema per una creatura dotata dei tuoi poteri!»

«Ti riferisci a un falso miracolo religioso di qualche tipo?»

«Cos’altro? Lei non riuscirà mai a salvare il mondo senza un miracolo e lo sa benissimo. Tu potresti farlo!»

«Resti aggrappato alla terra e mi tormenti in questo bar solo per farmi una proposta così squallida! Non puoi essere salvato. Sei morto, eppure sei ancora un delinquente e un criminale. Ma sentiti! Vuoi che organizzi un falso spettacolo per Dora? Credi che lei vorrebbe una cosa simile?»

Lui era palesemente sbalordito; di gran lunga troppo sbalor­dito per sentirsi offeso. Posò il bicchiere e rimase seduto, tran­quillo e composto, come intento a esaminare il bar. Aveva un’aria dignitosa e dimostrava circa dieci anni di meno di quando lo ave­vo ucciso. Immagino che nessuno voglia tornare come fantasma se non con un aspetto gradevole. Era più che naturale. E io sentii accentuarsi la mia inevitabile e fatale fascinazione per quest’uo­mo, la mia vittima. Monsieur, il vostro sangue è dentro di me!

Lui si voltò. «Hai ragione. Hai perfettamente ragione. Non posso stringere un patto con te affinchè tu simuli dei miracoli per Dora. È mostruoso. Lei lo detesterebbe», disse in un sussur­ro straziato.

«Adesso sembri uno dei Grateful Dead», risposi.

Proruppe in un’altra risatina sprezzante, poi, con umiltà e me­stizia, disse: «Lestat, devi badare a lei... per un po’». Non otte­nendo risposta, insistette gentilmente: «Solo per un po’,finché i giornalisti non si arrendono e l’orrore dell’intera faccenda non svanisce; finché la fede di Dora non viene ristabilita, e lei non ri­diventa la Dora di sempre, ricominciando a vivere la propria vi­ta. Ha una sua vita, per ora. Non può soffrire per causa mia, Le­stat, non per causa mia, non è giusto».

«Giusto?»

«Chiamami per nome. Guardami.»

Lo feci. Fu doloroso. Lui era infelice. Non sapevo se gli esseri umani potessero esprimere un’infelicità altrettanto intensa. Non lo sapevo davvero.

«Mi chiamo Roger», aggiunse. Adesso sembrava ancora più giovane, come se stesse viaggiando con la mente a ritroso nel tempo, oppure stesse semplicemente riacquistando innocenza, come se i morti, nel caso vogliano restare legati alla terra, avesse­ro il diritto di rammentare la propria innocenza.

«So come ti chiami. So tutto di te, Roger. Roger, il fantasma. E non hai mai permesso al vecchio capitano di toccarti; gli hai solo permesso di adorarti, istruirti, portarti in viaggio e comprar­ti splendide cose, e non hai mai avuto nemmeno la decenza di andare a letto con lui.» Dissi tutto ciò basandomi sulle immagini che avevo bevuto insieme col suo sangue, ma senza malizia. Sta­vo parlando solo perché ero stupito di quanto siamo tutti malva­gi, stupito di tutte le menzogne che raccontiamo.

Per il momento lui non replicò.

Io ero annientato. Il dolore mi stava davvero accecando, unito all’amarezza e a un profondo, terribile orrore per ciò che avevo fatto a lui e agli altri, e per aver fatto del male anche a una sola creatura vivente. Orrore.

Qual era il messaggio di Dora? Come avremmo dovuto essere salvati? Si trattava del solito vecchio cantico di adorazione?

Lui mi osservò. Era giovane, motivato, una splendida parven­za di vita. Roger.

«D’accordo, non sono andato a letto col vecchio capitano, hai ragione, ma in realtà lui non ha mai voluto questo da me, sai, non si trattava di questo, lui era di gran lunga troppo vecchio. Non sai come stessero davvero le cose. Puoi anche sapere come mi sento in colpa, ma non sai come mi sono pentito, in seguito, di non averlo fatto. Di non averlo scoperto col vecchio capitano. E non è stato questo a farmi deviare dalla retta via. Niente affat­to. Non si trattò del grande inganno o furto che immagini. Ama­vo le cose che mi mostrava. Lui mi voleva bene. Visse per altri due o tre anni, probabilmente grazie a me. E Wynken de Wilde lo abbiamo amato insieme. Sarebbe dovuta andare diversamen­te. Ero con lui quando è morto, sai. Non ho mai lasciato la sua stanza. Sono leale, quando le persone che amo hanno bisogno di me», spiegò in tono pacato e paziente.

«Sì, sei rimasto anche con tua moglie Terry, vero?» Una vera cattiveria, ma avevo parlato senza riflettere, rivedendo il viso di lei mentre lui le sparava. «Fa’ finta che non l’abbia detto, d’ac­cordo? Mi dispiace. Chi è, in nome di Dio, Wynken de Wilde?» Mi sentivo così infelice. «Santo cielo, mi stai tormentando. E io sono vigliacco nell’animo! Vigliacco. Perché hai pronunciato quello strano nome? Non voglio saperlo. No, non dirmelo... Ne ho abbastanza. Me ne vado. Puoi infestare questo bar fino al giorno del giudizio, se vuoi. Convinci qualche individuo virtuoso a parlare con te.»

«Ascoltami», mi sussurrò. «Tu mi ami. Mi hai scelto. Voglio semplicemente aggiungere i dettagli.»

«Baderò a Dora; in un modo o nell’altro, troverò il modo di aiutarla, farò qualcosa. E mi occuperò di tutte le reliquie, prele­vandole dall’appartamento e portandole in un luogo sicuro per custodirle per Dora, finché lei non si sentirà in grado di accetta­re.»

«Sì!»

«Okay, lasciami andare.»

«Non ti sto trattenendo», disse.

Sì, lo amavo. Volevo guardarlo. Volevo che mi raccontasse tutto, fino all’ultimo dettaglio! Allungai una mano per toccare la sua. Non viva. Non carne umana. Ma comunque dotata di vita­lità. Qualcosa di ardente ed eccitante.

Lui si limitò a sorridere. Poi allungò una mano e serrò le dita sul mio polso destro, avvicinandosi. Sentii una ciocca dei suoi ca­pelli sfiorarmi la fronte, solleticarmi la pelle. Grandi occhi scuri che mi guardavano.

«Ascoltami», ripetè. Alito inodore.

«Sì...»

Prese a parlarmi in tono sommesso, incalzante. Cominciò a raccontarmi la sua storia.

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