21

Il vento spazzava il campo sassoso, la grande forza centrifuga che si dissolveva e lasciava finalmente andare le anime che si sforzavano di liberarsene, e a quel punto assumevano una distin­ta forma umana e bussavano alle porte dell’inferno oppure vaga­vano lungo i muri troppo alti, tra il guizzare di fuochi, proten­dendosi verso le altre e implorandole.

Tutte le voci erano sovrastate dall’urlo del vento. Anime dalla forma umana combattevano e lottavano, altre vagavano come in cerca di un oggetto smarrito e poi sollevavano le braccia e lasciavano che la tromba d’aria le inglobasse di nuovo.

La forma di una donna, magra e pallida, si protese per raduna­re un gregge errante e piangente di anime giovanissime, alcune non ancora abbastanza grandi da sapersi reggere sulle gambe. Gli spiriti dei bambini si allontanarono, piangendo pietosamente.

Ci avvicinammo alle porte dell’inferno, stretti archi decorati che svettavano, neri e pregiati, come onice lavorata da artigiani medievali. L’aria risuonava di lamenti sommessi e pianti. Ovunque mani spettrali si allungavano per afferrarci; i sussurri ci rico­prirono come le mosche sul campo di battaglia. Alcuni spiriti mi tirarono per i capelli, per la giacca.

Aiutaci, facci entrare, dannazione a te, ti maledico, maledetto, riportami indietro, liberami, ti maledico in eterno, che tu sia dan­nato, aiutami, aiuto... Un boato crescente di ignominia.

Lottai per aprirmi un varco e poter vedere qualcosa. Visi gen­tili andavano alla deriva di fronte a me, bocche che emettevano caldi e dolenti rantoli contro la mia pelle.

Le porte erano dei semplici ingressi senza consistenza solida.

E subito oltre erano fermi i morti servizievoli, in apparenza più consistenti, solo più vividamente colorati e distinguibili, ma comunque diafani, che convocavano con un cenno le anime smarrite, chiamandole per nome, urlando al di sopra del vento impetuoso che dovevano trovare il modo di entrare, che quella non era la perdizione.

Molte torce venivano tenute ben alte; alcune lampade ardevano in cima alle mura. Il cielo era lacerato da saette e dalla grande pioggia mistica di scintille che uscivano da cannoni, sia moderni sia antichi. L’odore di polvere da sparo e sangue impregnava l’a­ria. Ancora e ancora le luci sfavillarono come in una magica esi­bizione mirante ad affascinare un’antica corte cinese, e poi l’oscurità regnò di nuovo, tenue, priva di sostanza e fredda tutt’intorno a noi.

«Entrate», cantavano i morti servizievoli, i fantasmi ben for­mati e ben proporzionati... fantasmi determinati com’era stato quello di Roger, con costumi di ogni epoca e nazione, uomini e donne, bambini, vecchi, nessun corpo opaco e nemmeno debo­le, tutti che ci oltrepassavano per raggiungere la vallata alle no­stre spalle, cercando di aiutare coloro che lottavano, che impre­cavano, che sprofondavano. I morti servizievoli dell’India coi sa­ri di seta, quelli dell’Egitto con le tuniche di cotone, quelli di re­gni da tempo scomparsi che avevano lasciato in eredità magnifici indumenti di corte ornati di pietre preziose; costumi di tutto il mondo, i capi di vestiario piumati che definiamo selvaggi, le to­nache scure dei preti, esempi della concezione di sé di ogni na­zione del mondo, dalla più rozza alla più sontuosa.

Mi aggrappai a Memnoch. Era bellissima oppure orrenda, questa folla di persone provenienti da tutte le nazioni e da ogni epoca? I nudi, i neri, i bianchi, gli asiatici, quelli di altre razze, che uscivano, muovendosi con sicurezza tra le anime smarrite e confuse.

Il terreno mi feriva i piedi; marna annerita e sassosa dissemi­nata di conchiglie. Perché tutto ciò? Perché?

In ogni direzione, pendii salivano o declinavano dolcemente, raggiungendo falesie che svettavano più indietro o si spalancava­no in voragini così profonde e piene di fumosa oscurità sempre più tenue che sembravano l’abisso stesso.

C’erano soglie che guizzavano e lampeggiavano di luce, scali­nate che si attoreigliavano vertiginosamente su e giù lungo le nu­de e ripide pareti, portando verso luoghi invisibili, verso valli che potevo solo intravedere o verso impetuosi ruscelli dorati, fuman­ti e arrossati dal sangue.

«Memnoch, aiutami!» sussurrai. Non osavo lasciar andare il velo e quindi non potevo tapparmi entrambe le orecchie. Le urla stavano scalfendo la mia anima come se fossero asce capaci di staccarne dei pezzi. «Memnoch, è insopportabile!»

«Tutti noi ti aiuteremo», gridarono i fantasmi servizievoli, un capannello che mi circondava per baciarmi e abbracciarmi, i loro occhi sgranati per la preoccupazione. «Lestat è venuto. Lestat è qui. Memnoch lo ha riportato indietro. Entra all’inferno.»

Voci che si alzavano, si abbassavano e si sovrapponevano, co­me se una moltitudine recitasse il rosario, ognuno iniziando da un punto diverso, le voci diventate ormai una salmodia.

«Ti amiamo.»

«Non temere. Abbiamo bisogno di te.»

«Resta con noi.»

«Abbrevia il nostro tempo.»

Sentii il loro tocco gentile, dolce e rassicurante persino men­tre la luce livida mi terrorizzava, le esplosioni sfavillavano nel cielo e l’odore del fumo mi aggrediva le narici.

«Memnoch!» Mi aggrappai alla sua mano annerita che mi ti­rava, il suo profilo distante, gli occhi che sembravano esaminare con severità il suo regno.

E sotto di noi, poiché la montagna era divisa in due, si stende­vano pianure illimitate, coperte da defunti erranti e impegnati a discutere, da spiriti piangenti, smarriti, intenti a cercare e spa­ventati, da coloro che venivano guidati, radunati e consolati dai fantasmi servizievoli, e da altri che correvano a perdifiato come se potessero fuggire, solo per ritrovarsi a piombare tra le moltitu­dini di spiriti, in cerchi disperati.

Da dove arrivava questa luce infernale, questa illumuiazione magnifica e spietata? Piogge di scintille, improvvise esplosioni di rosso ardente, fiamme, comete che descrivevano archi sopra i picchi.

Si levarono delle urla, riecheggiando sulle scogliere. Alcune anime gemevano e cantavano. I morti servizievoli corsero ad aiu­tare a rialzarsi quanti erano caduti, a fare strada a quelli che avrebbero finalmente raggiunto questa o quella scalinata, porta, ingresso di caverna o sentiero.

«Lo maledico, lo maledico, lo maledico!» Il grido riecheggiò sulle montagne e nelle vallate.

«Nessuna giustizia, dopo ciò che è stato fatto!»

«Non puoi dirmi...»

«... qualcuno deve raddrizzare il torto...»

«Vieni, ti tengo per mano», mi disse Memnoch, e s’incam­minò, la stessa espressione severa sul viso mentre mi guidava con rapidità giù per una scalinata echeggiante, ripida, stretta, che si snodava lungo la scogliera.

«Non riesco a sopportarlo!» gridai, ma la mia voce venne portata via dal vento. La mia mano destra s’infilò di nuovo sotto i vestiti per tastare il velo, e poi si allungò verso la parete di roccia bucherellata e cadente. Quelli erano intagli nella roccia? Quelli erano i punti in cui altre mani avevano tentato di aggrapparsi o arrampicarsi? Le urla e i lamenti mi ottenebrarono la mente. Avevamo raggiunto un’ennesima vallata.

Oppure era un mondo, di per sé vasto e complesso come il paradiso? Perché c’era una miriade di palazzi, torri e archi come prima, in varie sfumature di marrone cupo, terra di siena brucia­ta, ocra e oro brunito se non annerito, e stanze piene di spiriti provenienti da ogni tempo e ogni nazione, impegnati a discutere, conversare, lottare o addirittura cantare; alcuni che si abbraccia­vano come amici appena ritrovati nel bel mezzo di una sventura, soldati in uniforme di guerre antiche e guerre moderne, donne avvolte negli informi drappi neri della Terra Santa, le anime del mondo moderno coi loro vestiti fatti a macchina, adesso ricoper­ti di polvere e fuliggine, tanto che tutto ciò che sfavillava lo face­va in modo tenue, come se nessun colore potesse brillare nella sua gloria più fulgida. Piangevano e si davano colpetti sul viso, e altri scuotevano il capo mentre gridavano la loro ira, le mani strette a pugno.

Anime con cenciosi sai monacali di ruvido tessuto marrone, suore coi rigidi soggoli bianchi ancora intatti, principi con mani­che a sbuffo di velluto, uomini nudi che camminavano come se non avessero mai conosciuto i vestiti, abiti di cotonina e pizzo antico, di moderne sete sfavillanti e lucidi tessuti artificiali e pe­santi giacche militari verde oliva, o armature d’acciaio lucido, vesti da contadino di stoffa rozza, o eleganti completi in lana fatti a mano e di taglio moderno, abiti da sera color argento; capelli di ogni colore, arruffati dal vento; visi di ogni colore; i vecchi ingi­nocchiati a mani giunte, teste calve rosa e rugose appena sopra il collo; e le sottili e bianche anime corporee di coloro che avevano sofferto la fame in vita bevevano l’acqua dei ruscelli come po­trebbero fare i cani, direttamente con la bocca, e altri erano ap­poggiati con gli occhi semichiusi alle rocce e agli alberi contorti, cantando, sognando e pregando.

I miei occhi si abituarono sempre più all’oscurità. Dettagli via via più precisi si delineavano nel mio campo visivo, una maggio­re comprensione rischiarava ogni centimetro o metro quadrato di ciò che osservavo! Perché, intorno a ogni anima, una dozzina di figure intente a ballare o cantare o gemere non erano altro che immagini proiettate da quell’anima e per quell’anima, in modo che potesse comunicare con loro.

L’orrenda figura di una donna divorata dalle fiamme non era altro che una chimera per le anime che, ululanti, si gettavano nel fuoco, nel tentativo di staccarla dal palo del rogo, di spegnere le fiamme che le divoravano i capelli, di salvarla dalla sua indicibile sofferenza! Era il luogo delle streghe! Stavano tutte bruciando! Salvatele! Oddio, i suoi capelli hanno preso fuoco!

In realtà, i soldati intenti a caricare i cannoni e a tapparsi le orecchie mentre facevano fuoco erano solo un’illusione per quel­le autentiche legioni che piangevano inginocchiate, e la sagoma di un gigante che brandiva un’ascia era solo un fantasma per quanti lo fissavano, divisi fra comprensione e confusione, veden­do se stessi in lui.

«Non posso... non posso guardare!»

Spaventose immagini di torture e omicidi lampeggiarono da­vanti ai miei occhi, così ardenti da ustionarmi il viso. Fantasmi venivano trascinati a morire in calderoni di pece bollente, soldati crollavano in ginocchio con gli occhi spalancati, il principe di un regno persiano ormai perduto gridava e faceva salti in aria, le braccia allargate, gli occhi neri riempiti dal fuoco riflesso.

I lamenti e i sussurri acquisirono l’urgenza della protesta, del­la domanda e della scoperta. Tutt’intorno c’erano voci discernibili, se soltanto si avesse avuto il coraggio di udirle, d’isolare i te­mi sottili come fil di ferro dall’impetuoso canto funebre.

«Sì, sì, e pensavo, e sapevo...»

«... miei cari, miei piccoli...»

«... tra le tue braccia, perché non hai mai...»

«... e per tutto il tempo ho riflettuto e tu...»

«Ti amo, ti amo, ti amo, sì, e sempre... e no, non lo sapevi. Non lo sapevi, non lo sapevi.»

«... e ho sempre pensato che fosse ciò che avrei dovuto fare, ma sapevo, sentivo...»

«... il coraggio di voltarsi e dire che non si trattava...»

«Non lo sapevamo! Non lo sapevamo!»

Alla fine tutto si fuse in un unico grido incessante.

Non lo sapevamo!

Davanti a me svettava il muro di una moschea, sormontato da coloro che urlavano e si riparavano la testa mentre l’intonaco ca­deva sopra di loro, il boato dell’artiglieria assordante. Tutti fan­tasmi.

«Non lo sapevamo! Non lo sapevamo!» gemevano le voci delle anime. I morti servizievoli si riunirono, in ginocchio, le guance rigate di lacrime... «Sì, capiamo, capite.»

«E quell’anno, il semplice fatto di tornare a casa e stare con...»

«Sì...»

Caddi in avanti, il mio piede che colpiva un sasso e mi cata­pultava nel bel mezzo di una frotta di soldati messi carponi, piangenti, mentre artigliavano i compagni e gli spettrali fantasmi dei conquistati, degli uccisi, di quanti erano morti d’inedia; tutti che si dondolavano e piangevano insieme con un’unica voce.

Ci fu una serie di esplosioni, ognuna più violenta della prece­dente, come quelle che solo il mondo moderno può produrre. Il cielo era luminoso come se fosse giorno e se il giorno stesso potesse essere incolore e spietato per poi dissolversi in una guizzan­te oscurità.

Oscurità visibile.

«Aiutatemi, aiutatemi a uscire di qui», gridai, ma loro parve­ro non sentire o notare le mie urla, e, quando cercai Memnoch, vidi solo la doppia porta di un ascensore spalancarsi all’improv­viso, e davanti a me si stagliò un’enorme stanza moderna piena di elaborati lampadari a bracci e pavimenti ben lucidati e tappeti sconfinati. Il duro, lucido scintillio del nostro mondo creato dal­le macchine. Roger corse verso di me.

Roger, in tutta la sua raffinata eleganza: giacca di seta viola e pantaloni aderenti di ottimo taglio, capelli profumati e mani fre­sche di manicure.

«Lestat», gridò. «Terry è qui, loro sono qui. Lestat.» Si ag­grappò alla mia giacca, gli stessi occhi che avevo visto nel fanta­sma e nell’umano tra le mie braccia, fissi su di me, il suo fiato sul mio viso, la stanza che si dissolveva nel fumo, il fioco spirito di Terry coi suoi luminosi capelli biondi che gli gettava le braccia al collo, l’espressione stupita, le labbra rosa senza parole, l’ala di Memnoch che si abbassava, separandomi da loro, il pavimento che si frantumava con un crac.

«Volevo dire a Roger del velo...» Insistetti. Lottai. Memnoch mi tenne stretto.

«Da questa parte!»

I cieli si squarciarono con un’altra violenta scarica di scintille e le nubi esplosero, scontrandosi, il lampo che brillava sopra le nostre teste, e poi un tonante diluvio di pioggia terribile e ragge­lante.

«Oh, Dio, oh, Dio, oh, Dio!» gridai. «Questa non può essere la tua scuola! Dio! No!»

«Guarda, guarda

Indicò la figura di Roger a quattro zampe, che si girava come un cane, in mezzo a coloro che aveva ucciso, uomini che lo im­ploravano tendendo le braccia, donne che si strappavano i vestiti per mostrare le ferite, il chiacchierio di voci che cresceva come se il suono dell’inferno stesso potesse improvvisamente esplodere, e Terry — la stessa Terry — con le braccia che gli cingevano ancora il collo. Roger era a terra, la camicia lacerata, scalzo, la giungla che svettava intorno a lui. Alcuni spari risuonarono nel buio. Crepitare di fucili automatici che sputavano i loro innumerevoli proiettili fatali con una furia illimitata. Le luci di una casa tremo­lavano tra i rampicanti, tra gli alberi enormi. Roger si voltò verso di me, cercando di alzarsi, ricadendo, piangendo, le lacrime che gli colavano sulle guance.

«... e ogni atto, a suo modo, Lestat, e io non sapevo... io non sapevo...»

Distinto, orribile e severo, Roger si alzò di fronte a me solo per indietreggiare e perdersi tra gli innumerevoli altri.

Li vedevo in ogni direzione. Gli altri.

Scenari che si sovrapponevano, sfumature di grigio che diven­tavano brillanti o morivano in buia foschia; e, levandosi qua e là dagli orrendi, furiosi, turbolenti campi dell’inferno, le anime purificate. Si udivano il rullare di tamburi, gli strilli penetranti di una tortura insopportabile; si vedeva una massa di uomini con rozze tuniche bianche spinti tra i ceppi ardenti, le loro braccia che si appellavano alle anime che si ritraevano e urlavano per il rimorso, per il terribile atto della consapevolezza.

«Mio Dio, mio Dio, siamo entrambi perdonati!»

Cos’era questo improvviso mulinare del. sudicio vento puzzo­lente?

Le anime salirono verso l’alto con le braccia spalancate, gli in­dumenti improvvisamente strappati o che sbiadivano nelle indi­stinguibili tuniche dei salvati, il tunnel che si apriva.

Vidi la luce, vidi la miriade di spiriti che risalivano disordina­tamente il tunnel verso il fulgore celestiale, il tunnel rotondo e che si ampliava mentre loro ascendevano, e per un misericordio­so momento, un misericordioso, minuscolo istante, i canti del paradiso risuonarono lungo il tunnel come se le sue curve non fossero fatte di vento ma di un materiale solido che poteva far riecheggiare questi canti eterei, e il loro ritmo organizzato, la lo­ro struggente bellezza che penetrava nella catastrofica sofferenza di quel luogo.

«Non lo sapevamo! Non lo sapevamo!» Le voci si alzarono e il tunnel si chiuse.

Inciampai, voltandomi da una parte e dall’altra. Lì i soldati torturavano una giovane donna con le lance, mentre altri piange­vano e cercavano di frapporsi tra la sua forma che si dimenava e i suoi aguzzini. Là alcuni bimbi correvano su gambe grassocce con le manine protese per farsi prendere in braccio da padri, ma­dri, assassini piangenti.

E, inchiodato a terra, il corpo coperto dall’armatura, la barba lunga e rossa, la bocca aperta in un urlo, c’era un uomo che ma­lediceva Dio, malediceva il Diavolo e malediceva il destino. «Non lo farò, non lo farò, non lo farò!»

«E chi è in piedi dietro quelle porte», disse un triste fantasma servizievole, una donna, i suoi splendidi capelli che le scintillava­no intorno con un candore etereo, la sua mano soffice sul mio viso. «Guarda là...» Le doppie porte dell’ascensore sul punto di aprirsi, le pareti coperte di libri. «I tuoi morti, mio caro, i tuoi morti, tutti coloro che hai ucciso!»

Fissai il soldato supino, che ruggiva con la sua bocca bordata dalla barba rossa: «Mai, non dirò mai che era giusto, mai, mai...»

«Non i miei morti», gridai. Mi voltai e scappai via. Inciampai e caddi di nuovo a faccia in giù sulla morbida ressa di corpi. Più in là, le rovine di una città si consumavano nel fuoco; muri crollavano da ogni parte; il cannone sparò di nuovo e, ancora una volta, un gas nocivo riempì l’aria, la gente cadde tossendo e ansi­mando violentemente, il coro di non lo sapevamo si fuse in un istante di ordine che era peggiore del caos!

«Aiutatemi!» gridai più volte. Non provai mai un simile sol­lievo nell’urlare, una codardia così pura e abbandonata, gridare verso il paradiso in questo luogo dimenticato da Dio dove le gri­da erano l’aria stessa, e dove nessuno prestava ascolto, nessuno tranne i sorridenti morti servizievoli.

«Impara, mio caro.»

«Impara.» Sussurri simili a baci. Uno spettro, un indiano, la testa avvolta in un turbante, viso scurito. «Impara, giovanotto.»

«Guarda su, osserva i fiori, osserva il cielo...» Un fantasma servizievole, una donna, danzò in cerchio, il suo abito bianco che entrava e usciva dalle nubi e da zampilli di fuliggine e sporcizia, i piedi che affondavano nella marna, ma piroettavano ancora con sicurezza.

«Non prendermi in giro, non c’è nessun giardino qui!» sbraitai. Ero in ginocchio. I miei abiti erano stracciati, ma sotto la ca­micia avevo il velo! Lo avevo.

«Prendi le mie mani...»

«No, lasciami andare!» Infilai la mano sotto la giacca per co­prire il velo. Una fioca figura mi si avvicinò con passo malfermo, le mani protese. «Tu, maledetto ragazzo, osceno ragazzo, tu, nel­le strade di Parigi, come Lucifero stesso pieno di luce dorata, tu! Pensa a cosa mi hai fatto!»

La taverna prese forma, il ragazzo che cascava all’indietro sot­to l’impatto del mio pugno mortale, i barili che cadevano e il grugnito degli uomini scarmigliati e ubriachi che si gettavano su di me.

«No, basta», tuonai. «Allontanatelo da me. Non mi ricordo di lui. Non l’ho mai ucciso. Non ricordo, vi dico, non riesco... Claudia, dove sei? Dove sei tu, quella cui ho fatto un torto! Claudia! Nicolas, aiutami!»

Ma si trovavano forse lì, persi in quel torrente, oppure se n’e­rano andati, ormai da tempo, passando nel tunnel, verso la sfol­gorante gloria soprastante, verso i canti benedetti che tessevano il silenzio nelle loro stesse corde e melodie? Oh, fa’ che siano là, ti prego, lassù.

Le mie grida avevano perso qualunque dignità, eppure quan­to suonavano sprezzanti alle mie orecchie. «Qualcuno mi aiuti! Aiuto!»

«Devi prima morire, per servirmi?» chiese Memnoch. Si levò davanti a me, l’angelo delle tenebre nella sua forma di granito, le ali spiegate. Oh, sì, cancella gli orrori dell’inferno, ti prego, persino in questa forma, la più mostruosa! «Urli all’inferno come cantavi in paradiso. Questo è il mio regno, questo è il nostro la­voro. Ricorda la luce!»

Ricaddi all’indietro sulla spalla, facendomi male al braccio si­nistro, ma rifiutandomi di staccare la mano destra dal velo. Vidi il cielo azzurro sopra di me in un lampo e i fiori di pesco spuntati dalle foglie verdi dell’albero mentre già i deliziosi frutti erano fis­sati ai rami.

Il fumo mi fece bruciare gli occhi. Una donna inginocchiata mi sussurrò: «Adesso so che nessuno tranne me può perdonarmi, ma come ho potuto farle quelle cose, lei era così piccola, co­me ho potuto...»

«Pensavo si trattasse delle altre cose», sussurrò una ragazza che mi aveva gettato le braccia al collo, il suo naso che toccava il mio mentre parlava. «Ma conosci quella gentilezza, quel sempli­ce tenergli la mano e lui...»

«Perdona!» disse Memnoch, e si aprì un varco, spingendo da parte le anime con delicatezza. Ma la folla si riunì di nuovo, pres­sante; pallide figure corsero da me come verso un sollievo che non riuscivo a vedere o verso una fonte di turbamento.

«Perdona!» sussurrò Memnoch. Tirò bruscamente in piedi un monaco coperto di sangue, il saio a brandelli, i piedi pieni di vesciche e ustionati dal fuoco deliberato. «Nel tuo cuore, il pote­re!» gli disse. «Sii migliore di Lui, migliore di Lui, dagli l’esem­pio.»

«Amo... persino Lui», rispose il sussurro uscito dalle labbra dell’anima, mentre si dissolveva all’improvviso. «Sì, Lui non può certo aver voluto che soffrissimo così... non può.»

«Ha superato la prova?» chiesi. «Quell’anima è risultata al­l’altezza in questo luogo infernale, con ciò che ha appena detto? È bastato? Il fatto d’ignorare Dio era sufficiente? Lui sta arran­cando altrove, in tutto questo sudiciume, o il tunnel l’ha portato su? Memnoch! Aiutami.»

Cercai ovunque il monaco coi piedi bruciati. Guardai e guar­dai.

Un’esplosione frantumò le torri della città, che crollarono ro­vinosamente. Quello era il rintocco di una campana? L’enorme moschea si era sbriciolata. Un uomo armato di fucile sparava sul­la gente in fuga. Donne velate gridavano mentre stramazzavano al suolo. La campana suonava a distesa, sempre più forte.

«Buon Dio, Memnoch, una campana che suona, ascolta, più di una.»

«Le campane dell’inferno, Lestat, e non stanno suonando per chiunque! Stanno suonando per noi, Lestat!» Mi prese per il ba­vero come se volesse farmi rialzare. «Ricorda, lo hai detto tu stesso, Lestat, le campane dell’inferno: ascolta la chiamata delle campane dell’inferno!»

«No, lasciami andare. Non sapevo cosa dicevo. Era una poe­sia. Era pura stupidità. Lasciami andare. Non lo sopporto!»

Intorno al tavolo, sotto il lampadario, una dozzina di persone stava discutendo ed esaminando una mappa, alcune si abbrac­ciavano mentre indicavano varie zone contrassegnate da colori opachi. Una testa era voltata. Un uomo? Un viso. «Tu!»

«Lasciami andare.» Mi girai e venni scagliato contro una pa­rete coperta da scaffali di libri, i dorsi che brillavano nella luce, i volumi che cadevano, colpendomi le spalle... Dio santo, le mie membra non avrebbero potuto sopportare altri colpi. Il mio pu­gno penetrò nel mappamondo, fissato al suo elegante arco di le­gno. Un bambino con le ginocchia piegate mi stava fissando dal basso, le orbite oculari vuote.

Vidi la soglia e fuggii. «No, lasciami andare. Non posso. Non lo farò. Non lo farò.»

«Non lo farai?» Memnoch mi afferrò il braccio destro, un fo­sco cipiglio che svettava sopra di me, le ali che si flettevano e si sollevavano, escludendo di nuovo la luce mentre si chiudevano per avvilupparmi, come se appartenessi a lui. «Non mi aiuterai a svuotare questo posto, a mandare queste anime in paradiso?»

«Non posso!» gridai. «Non lo farò!» D’un tratto, la mia fu­ria montò. La sentii annullare paura, tremori e dubbi; la sentii sfrecciarmi nelle vene come metallo fuso. L’antica rabbia, la determinazione di Lestat. «Non sarò parte di tutto ciò, non per te, non per Lui, non per loro né per chicchessia!» Indietreggiai vacil­lando, guardandolo in cagnesco. «No, non questo. Non per un Dio cieco come Lui, e non per qualcuno che esige quello che tu esigi da me. Voi due siete pazzi! Non ti aiuterò. No. Mi rifiuto.»

«Tu faresti una cosa del genere, mi abbandoneresti?» gridò Memnoch, sconvolto, il viso scuro contorto dal dolore, le lacri­me che brillavano sulle guance nere. «Mi lasceresti con tutto ciò e non alzeresti un dito per aiutarmi dopo tutto ciò che hai fatto? Tu, Caino, uccisore dei fratelli, uccisore degli innocenti, non puoi aiutarmi?»

«Smettila, smettila. Non lo farò. Non posso sostenere tutto questo. Non posso evitare che succeda! Non posso crearlo! Non posso sopportarlo! Non posso insegnare in questa scuola!» La mia gola era secca e bruciava, e il frastuono sembrava inghiottire le mie parole, ma lui le sentì. «No, no, non lo farò, non questa trama, non queste regole, non questo disegno, mai, mai, mai!»

«Vigliacco», ruggì lui, gli occhi a mandorla immensi, il fuoco che guizzava sulla fronte e le guance dure e nere. «Ho in mano la tua anima, ti offro la salvezza a un prezzo che quanti stanno sof­frendo qui da millenni implorerebbero di poter pagare!»

«Non io. Non sarò parte di questo dolore, no, né adesso né mai... Va’ da Lui, cambia le regole, fa’ in modo che abbia senso, miglioralo, ma non questo, questo è al di là della sopportazione umana, è ingiusto, ingiusto, ingiusto, è inconcepibile.»

«Questo è l’inferno, sciocco! Cosa ti aspettavi? Di poter ser­vire il Signore dell’inferno senza soffrire?»

«Non farò loro una cosa simile!» gridai. «All’inferno con me e con te.» Stavo digrignando i denti. Fumavo di rabbia ed ero agitato dalla mia convinzione. «Non parteciperò a tutto questo con loro! Non capisci! Non posso accettarlo! Non posso dedi­carmi a questo. Non posso consentirlo. Ti lascio subito, mi hai concesso la libertà di scegliere, torno a casa! Liberami!» Mi vol­tai.

Lui mi ghermì di nuovo il braccio e stavolta la rabbia dentro di me non conobbe limiti. Lo scaraventai all’indietro, al di sopra delle anime che si dissolvevano e precipitavano. Qua e là i morti servizievoli si voltarono a guardare e gridarono, i pallidi visi ovali pieni di ansia e turbamento.

«Ora vai», sibilò Memnoch, mentre era riverso a terra, là do­ve l’avevo scagliato. «E, che Dio mi sia testimone, quando mori­rai, tornerai come mio allievo e studente, in ginocchio, e mai più ti sarà proposto di diventare il mio principe, il mio aiutante!»

Rimasi paralizzato, girando la testa per fissarlo, per fissare la sua figura prostrata, il gomito che affondava nel soffice piumaggio nero dell’ala mentre si alzava sugli zoccoli e si avvicinava di nuovo a me, con quella mostruosa andatura zoppicante.

«Mi hai sentito?»

«Non posso servirti!» tuonai con tutto il fiato che avevo in gola. «Non posso farlo.» Poi mi voltai per l’ultima volta, sapen­do che non mi sarei guardato indietro, con un solo pensiero nella mente: Scappa! Cominciai a correre a perdifiato, slittando sulla marna friabile e sulla riva scivolosa, e attraversando con passo deciso i torrenti poco profondi e i capannelli di morti servizievo­li sbalorditi, e oltrepassando anime gemebonde.

«Dove sono le scale? Dove sono le porte? Non puoi negarme­lo. Non ne hai il diritto. La morte non mi ha preso!» gridai, ma senza mai guardare indietro o smettere di correre. «Dora! Da­vid, aiutami!» urlai.

E giunse la voce di Memnoch, quasi accanto al mio orecchio. «Lestat, non farlo, non andare. Non tornare indietro. Lestat, non farlo, è una follia, non capisci, ti prego, per l’amor di Dio, se riesci ad amare Lui e ad amare loro, aiutami!»

«No!» Mi voltai e gli diedi una spinta violenta, e lo vidi ruz­zolare all’indietro giù per i ripidi gradini, la figura inebetita, gof­fa, grottesca in mezzo alle enormi ali fluttuanti. Ruotai su me stesso, dandogli la schiena. Davanti a me riuscivo a vedere la luce proprio in cima, la porta aperta.

Corsi da quella parte.

«Fermatelo! Non lasciatelo uscire. Non lasciategli portare via il velo», gridò Memnoch.

«Ha il velo di Veronica!» urlò uno dei morti servizievoli, lan­ciandosi verso di me nell’oscurità.

Per poco il mio piede non scivolò, ma continuai a correre, un passo dopo l’altro, saltellando, le gambe doloranti. Sentivo che i morti servizievoli guadagnavano terreno.

«Fermatelo!»

«Non lasciatelo scappare !»

«Fermatelo!»

«Prendetegli il velo», gridò Memnoch. «Sotto la sua camicia, il velo, il velo non deve andarsene con lui!»

Feci oscillare la mano sinistra, spingendo i morti servizievoli contro la scogliera, in un caos informe. Molto più su si stagliava la porta. Riuscivo a vedere la luce. La vedevo e sapevo che era la luce della terra, brillante e naturale.

Le mani di Memnoch si serrarono sulle mie spalle e lui mi co­strinse a voltarmi.

«No, non farlo!» ringhiai. «Che Dio mi perdoni. Che tu mi perdoni, ma non prenderai me o il velo!» tuonai. Sollevai il braccio sinistro per scostare le sue mani protese, artiglianti, e lo spinsi di nuovo, ma lui volò contro di me come se le ali fossero accorse in suo aiuto, e mi schiacciò quasi sugli scalini. Sentii le sue dita affondare nel mio occhio sinistro! Le sentii aprire le pal­pebre, spingermi l’occhio all’interno della testa in un’esplosione di dolore, e poi la massa gelatinosa mi scivolò lungo una guancia, passando tra le mie dita tremanti.

Sentii Memnoch ansimare. «Oh, no...» gemette, le dita posa­te sulle labbra, fissando orripilato lo stesso oggetto che fissavo io.

Il mio occhio, il mio rotondo occhio azzurro, vibrante e scin­tillante sulla scala. Tutti i morti servizievoli fissavano l’occhio.

«Calpestatelo, schiacciatelo», gridò uno di loro e corse in avanti. «Sì, schiacciatelo, calpestatelo, distruggetelo!» urlò un altro, avventandocisi sopra.

«No, non fatelo, no! Fermatevi, tutti! Non nel mio regno, non lo farete!» gemette Memnoch.

«Calpestate l’occhio!»

Quello era il mio momento, la mia occasione.

Corsi su, i piedi che toccavano a malapena i gradini, sentii la mia testa e le spalle tuffarsi nella luce, nel silenzio e nella neve.

Ero libero.


Mi trovavo sulla terra. I miei piedi calpestavano il terreno ghiac­ciato sotto la scivolosa poltiglia di neve. Stavo correndo, guercio e sanguinante, col velo sotto la camicia, correndo attraverso la violenta bufera, attraverso le raffiche di neve, le mie grida che riecheggiavano sugli edifici che conoscevo, gli scuri e ostinati grattacieli della città che conoscevo così bene. Casa, la terra. Il sole era appena tramontato dietro il velo grigio scuro del turbine che calava, il crepuscolo invernale inghiottito nell’oscurità dal candore della neve.

«Dora, Dora, Dora!»

Continuai a correre.

Mortali immersi nell’ombra arrancavano stancamente nella tormenta; umani immersi nell’ombra percorrevano, veloci, sentierini sdrucciolevoli di ghiaccio, automobili strisciavano attra­verso l’uragano, i fari che scrutavano il biancore che si accumula­va sempre più alto. La neve cadeva in folate così dense che finii lungo disteso, ma poi m’inginocchiai faticosamente e continuai ad avanzare.

Gli archi e le guglie di San Patrizio si levarono di fronte a me. San Patrizio.

E, dietro, la parete dell’Olympic Tower che saliva, il suo vetro come pietra lucidata, quasi invisibile, la sua altezza gigantesca come se, simile alla torre di Babele, stesse cercando di raggiunge­re direttamente il paradiso.

Mi fermai, il cuore sul punto di scoppiare.

«Dora! Dora!»

Raggiunsi le porte dell’atrio, le luci abbaglianti, i pavimenti li­sci, la ressa di mortali, solidi mortali ovunque, che si voltavano per vedere ciò che si muoveva troppo rapidamente per poter essere visto. Musica indistinta e luci rasserenanti, il fiotto del calo­re artificiale! Trovai le scale e mi levai in volo come cenere che salga su per una canna fumaria, e infine piombai attraverso la porta di legno dell’appartamento, entrando con passo malfermo.

Dora.

La vidi, sentii il suo odore, l’odore del sangue tra le sue cosce, vidi il suo tenero visino, bianco e sconvolto, e accanto a lei, ai due lati, come folletti usciti da filastrocche per bambini o rac­conti dell’inferno, Armand e David, vampiri, mostri, che mi fis­savano con la stessa assoluta meraviglia.

Mi sforzai di aprire l’occhio sinistro che non c’era più, quindi girai la testa da una parte e dall’altra per vederli tutti e tre con l’unico occhio che mi restava, il destro. Sentivo un dolore acuto, come se migliaia di aghi fossero conficcati nei tessuti vuoti che un tempo avevano ospitato il mio occhio.

Ah, l’orrore sul viso di Armand. Era immobile, sfoggiava i suoi vecchi vestiti eleganti, pesante giacca di velluto, pizzo mo­derno, stivali tirati a lucido come cristallo. Il suo volto, che ricor­dava quello di un angelo del Botticelli, era straziato dal dolore mentre mi guardava.

E David, la compassione, l’empatia. Entrambe le figure paralizzate in una sola, l’anziano inglese e il giovane corpo prestante in cui era stato imprigionato, oppresso dagli indumenti invernali di tweed e cashmere.

Mostri vestiti da uomini, ma legati alla terra, reali!

E la lucente figura da monella di Dora, la mia snella, desidera­ta Dora dagli enormi occhi neri.

«Caro, caro, sono qui!» gridò. Le sue sottili braccia tiepide mi cinsero le spalle doloranti, indifferenti alla neve che mi cade­va dai capelli, dai vestiti. M’inginocchiai, il viso nascosto nella sua gonna, vicino al sangue tra le sue cosce, il sangue del ventre vivente, il sangue della terra, il sangue di Dora che il corpo pote­va offrire, e poi caddi supino sul pavimento.

Non riuscivo a parlare né a muovermi. Sentii le sue labbra toccare le mie.

«Adesso sei al sicuro, Lestat», disse lei.

Oppure era la voce di David?

«Sei con noi», disse Dora.

Oppure era Armand?

«Siamo qui.»

«Guardate, guardate i suoi piedi. Gli è rimasta solo una scar­pa.»

«... la sua giacca, stracciata... i bottoni scomparsi.»

«Tesoro, tesoro.» Dora mi baciò.

La feci rotolare delicatamente, badando di non schiacciarla col mio peso, le sollevai la gonna e posai il viso sulle sue cosce calde e nude. L’odore del sangue mi riempì il cervello.

«Perdonami, perdonami», sussurrai, e la mia lingua penetrò nel cotone sottile delle sue mutandine, strappando il tessuto e scostandolo dalla soffice peluria del suo pube, spingendo da par­te il tampone insanguinato, e lappai il sangue appena dentro le sue giovani labbra vaginali rosa, appena giunto dall’imboccatura del suo ventre, non sangue puro, ma sangue proveniente da lei, dal suo forte e giovane corpo, il sangue di tutte le cellule roventi della sua carne vaginale, sangue che non recava nessun dolore, nessun sacrificio, solo la gentile pazienza di Dora nei miei con­fronti, nei confronti del mio indescrivibile atto, la mia lingua che penetrava a fondo dentro di lei, estraendo il sangue che ancora doveva arrivare, delicatamente, delicatamente, leccandolo sui soffici peli delle sue labbra pubiche, succhiandone ogni minu­scola goccia.

Immondo, immondo. L’avevano gridato sulla strada verso il Golgota, quando Veronica aveva detto: «Signore, per dodici an­ni ho sofferto di un’emorragia, ma quando ho toccato l’orlo della tua veste sono guarita». Immondo, immondo.

«Immondo, grazie a Dio, immondo», sussurrai, la mia lingua che leccava il luogo segreto e insanguinato, gusto e odore di san­gue, il suo dolce sangue, un luogo dove il sangue scorre libero e nessuna ferita viene inflitta o richiede mai di essere inflitta, l’ac­cesso al suo sangue che mi veniva offerto nella sua indulgenza.

La neve batteva contro i vetri. Riuscivo a sentirla, a sentirne l’odore, l’accecante neve candida di una tempesta terribile per New York, un profondo inverno bianco, che gelava tutto sotto il suo mantello.

«Mio tesoro, mio angelo», sussurrò lei.

Rimasi sdraiato su Dora, ansimando. Tutto il sangue era en­trato in me, ormai. Avevo estratto dal suo ventre tutto quello che doveva arrivare e avevo leccato persino quello che si era raccolto sul tampone.

Lei si mise seduta, cercando di coprirmi circondandomi con le sue braccia, chinandosi in avanti come per ripararmi dai loro occhi — quelli di David e di Armand —, senza avermi mai spinto via nemmeno una volta, senza aver urlato o essersi ritratta, e adesso mi teneva la testa mentre piangevo.

«Sei al sicuro», ripetè. Dicevano che ero al sicuro. Dicevano tutti: «al sicuro» come se le due parole avessero un potere magi­co. Al sicuro, al sicuro, al sicuro.

«Oh, no», gridai. Piansi. «No, nessuno di noi è al sicuro. E non lo saremo mai, mai, mai più...»

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