25

L’orfanotrofio era freddo. Le spesse pareti di mattoni, prive di qualsiasi materiale isolante, trattenevano il freddo e rendevano l’interno più gelido dell’inverno fuori. A quanto pareva, me lo rammentavo dalla volta precedente. Perché lei lo aveva lasciato a me? Perché? Mi aveva ceduto l’atto di proprietà, e tutte le reli­quie di Roger. Cosa significava? Solo che lei aveva attraversato il cielo come una cometa.

Esisteva un Paese sulla terra in cui i network giornalistici non avessero portato il suo viso, la sua voce, il suo velo, la sua storia?

Ma eravamo a casa; quella era la nostra città, New Orleans, il nostro piccolo territorio, e li non c’era neve che cadeva, solo il te­nue profumo dei dolci ulivi e i liriodendri nel vecchio e trascura­to giardino del convento che perdevano i loro petali gialli. Guar­date, petali gialli sul terreno.

Era tutto così tranquillo, lì. Nessuno sapeva di quel posto. Co­sì adesso la Bestia poteva avere il suo palazzo e ricordare la Bella, e chiedersi in eterno se Memnoch stesse piangendo all’inferno o se tutti e due — i Figli di Dio — stessero ridendo in paradiso!

Entrai nella cappella.

Mi ero aspettato di trovare tendaggi e cumuli di oggetti e sca­tole di cartone e casse. Invece sembrava un santuario appena completato. Tutto era debitamente sistemato al suo posto, disimballato e ben spolverato, immerso nella semioscurità. Statue di sant’Antonio, santa Lucia con gli occhi su un vassoio, il Bambin Gesù di Praga coi suoi abiti spagnoli, e le icone appese alle pareti, tra una finestra e l’altra, in modo ordinato.

«Ma chi ha fatto tutto ciò?»

David se n’era andato. Dove? Sarebbe tornato. Non aveva im­portanza. Io avevo i dodici libri. Mi serviva un posto caldo in cui sedermi, magari sui gradini dell’altare, e avevo bisogno di luce. Con un solo occhio, avevo bisogno di qualcosa di più della luce della notte che filtrava dalle alte finestre di vetro istoriato.

Una figura era ritta nel vestibolo. Priva di odore. Vampiro. Un mio novizio. Sicuramente. Giovane. Louis. Inevitabile.

«Sei stato tu a fare tutto questo?» chiesi. «A sistemare in mo­do così splendido gli oggetti qui nella chiesa?»

«Sembrava la cosa giusta da fare», rispose. Si avvicinò a me. Lo vidi chiaramente, anche se fui costretto a girare la testa per­ché il mio unico occhio potesse metterlo a fuoco e a smettere di aprire un occhio sinistro che non c’era. Alto, pallido, un poco af­famato. Capelli neri piuttosto corti. Occhi verdi molto dolci. L’andatura aggraziata di chi non ama fare rumore, fare confusio­ne o farsi vedere. Sobri abiti neri, come quelli degli ebrei di New York che si erano radunati davanti alla cattedrale, osservando lo spettacolo, e come quelli degli amish venuti in treno, abiti sobri e semplici, come l’espressione sul suo viso.

«Vieni a casa con me», propose. Una voce così umana, così gentile. «C’è tutto il tempo di tornare qui a riflettere. Non prefe­riresti essere a casa, nel quartiere francese, tra le nostre cose?»

Se qualcosa al mondo avesse davvero potuto consolarmi, quel qualcosa sarebbe stato lui... con l’accattivante inclinazione della testa o il modo in cui continuava a guardarmi, proteggendomi con calma confidenziale da ciò che temeva per me, e per lui, e forse per tutti noi. Il mio vecchio e familiare amico gentiluomo, il mio allievo tenero e tollerante, istruito dal galateo vittoriano più autenticamente di quanto io lo avessi educato su come essere un mostro. E se Memnoch si fosse appellato a lui? Perché Mem­noch non lo faceva?

«Cosa ho fatto?» chiesi. «Era la volontà di Dio?»

«Non lo so», rispose. Posò la sua mano morbida sulla mia. La sua voce suadente era un balsamo per i miei nervi. «Vieni a casa. Ho ascoltato per ore la radio, la televisione, la storia dell’angelo della notte che ha portato il velo. Gli abiti laceri dell’angelo sono stati consegnati a preti e scienziati. Dora sta imponendo le mani. Il velo ha curato degli ammalati. La gente si sta riversando a New York da ogni parte del mondo. Sono felice che tu sia tornato. Ti voglio qui.»

«Ho servito Dio? È possibile? Un Dio che continuo a odia­re?»

«Non ho sentito il tuo racconto», disse. «Vuoi narrarmi la vicenda?» chiese, diretto, senza emozione. «Oppure è troppo do­loroso ripetere tutto da capo?»

«Lascia che David lo scriva affidandosi alla memoria.» Mi picchiettai l’indice sulla tempia. «Abbiamo una memoria così perfetta. Credo che alcuni degli altri ricordino cose che non sono mai successe.» Mi guardai intorno. «Dove siamo? Oh, mio Dio, dimenticavo. Siamo nella cappella. C’è l’angelo col bacile tra le mani, e quel crocifisso, quello c’era già.»

Come sembrava rigido e senza vita, così diverso dal velo scin­tillante.

«I notiziari serali hanno mostrato il velo?»

«Lo fanno di continuo.» Sorrise. Nessuna traccia di scherno. Solo amore.

«Cos’hai pensato, Louis, quando l’hai visto?»

«Che fosse il Cristo in cui un tempo credevo. Che fosse il Fi­glio di Dio che conoscevo quand’ero ragazzo e questi erano ter­reni paludosi.» La sua voce era paziente. «Vieni a casa. Andia­mo. Ci sono... delle cose in questo posto.»

«Davvero?»

«Spiriti? Fantasmi?» Non sembrava intimorito. «Sono pic­coli ma li percepisco, e sai, Lestat, non ho i tuoi poteri.» Sorrise di nuovo. «Quindi tu sai sicuramente che ci sono. Non li senti?»

Chiusi gli occhi, o, meglio, l’occhio. Sentii uno strano suono, come quello prodotto da molti, moltissimi bambini che cammi­nino in fila. «Credo che stiano cantando le tabelline.»

«E di che si tratta?» chiese Louis. Mi strinse il braccio, pie­gandosi verso di me. «Lestat, cosa sono le tabelline?»

«Oh, sai, il modo in cui insegnavano la moltiplicazione a quei tempi, devono averle cantate nelle aule, due per due quattro, due per tre sei, due per quattro otto... è così che fanno... Le stanno cantando.» M’interruppi.

C’era qualcuno lì, nel vestibolo, tra le porte dell’atrio e quelle della cappella, nell’ombra in cui mi ero nascosto da Dora. Era uno di noi. Per forza. Ed era vecchio, molto vecchio. Riuscivo a captare il suo potere. Lì c’era qualcuno talmente antico che solo Memnoch e Dio Incarnato l’avrebbero riconosciuto oppure... Louis, forse, Louis, se credeva ai suoi ricordi, alle sue visioni fugaci, alle sue brevi e devastanti esperienze coi vampiri molto an­tichi, forse...

Eppure lui non aveva paura. Mi stava guardando, all’erta, ma non spaventato.

«Avanti, non ho paura!» esclamai e mi avvicinai. I due sac­chetti coi libri erano posati sulla mia spalla destra, il tessuto dei sacchetti ben tirato nella mia mano sinistra. Così avevo libera la destra. E l’occhio destro. Lo avevo ancora. Chi era quel visita­tore?

«Là c’è David», disse Louis in tono sobrio e rassicurante, co­me a dire: vedi? Non hai motivo di preoccuparti.

«No, accanto a lui. Guarda meglio, scruta più a fondo, nel buio. Vedi la figura di una donna, così bianca, così solida che po­trebbe benissimo essere una delle statue conservate qui? Maharet!» dissi.

«Sono qui, Lestat», rispose.

Scoppiai a ridere. «E non fu forse quella la risposta di Isaia quando il Signore chiamò? ‘Sono qui, Signore.’»

«Sì», confermò lei. La sua voce era a malapena udibile, ma chiara e ripulita dal tempo, tutto lo spessore della pelle ormai scomparso.

Mi avvicinai, lasciando la cappella per entrare nel piccolo ve­stibolo. David era in piedi accanto a lei, come il suo braccio de­stro unto da Dio, come se avesse potuto eseguire i suoi ordini in un attimo; e lei era la più anziana, be’,quasi la più anziana, la no­stra Eva, la madre di tutti noi o la sola madre che rimaneva, e ora, mentre la guardavo, ricordai la terribile verità sui suoi occhi: quando era umana l’avevano accecata e gli occhi attraverso cui guardava adesso erano presi in prestito, umani.

Sanguinanti nella sua testa, occhi umani, sottratti a una perso­na viva o morta, non potevo saperlo, e collocati nelle sue orbite per essere nutriti il più a lungo possibile dal suo sangue vampiresco. Ma come sembravano stanchi nel suo bellissimo volto. Cosa aveva detto Jesse? È fatta di alabastro. E l’alabastro è una pietra attraverso cui può passare la luce.

«Non prenderò un occhio umano», mormorai.

Lei non disse nulla, non era venuta per giudicare, per dare consigli. Perché era venuta? Cosa voleva?

«Anche tu vuoi ascoltare la storia?»

«Il tuo gentile amico inglese dice che tutto è accaduto così co­me l’hai descritto. Dice che i canti che cantano alle televisioni so­no veri; che sei l’angelo della notte, e che le hai portato il velo, e che lui era là e ha sentito il tuo racconto.»

«Non sono un angelo! Non ho mai avuto intenzione di darle il velo! L’ho preso come prova. L’ho preso perché...» La mia vo­ce si era spezzata.

«Perché?» chiese lei.

«Perché me l’ha dato Cristo!» sussurrai. «Ha detto: ‘Prendi­lo’,e io l’ho fatto.»

Piansi. E lei rimase in attesa. Paziente, solenne. Louis rimase in attesa. E anche David. Alla fine smisi di piangere. «Scrivi ogni parola, David, se scrivi la storia, ogni parola ambigua, mi senti? Non la scriverò personalmente. No. Be’,forse... se non sono con­vinto che tu la stia presentando in modo adeguato, la scriverò, la scriverò una volta da cima a fondo. Cosa vuoi? Perché sei venu­ta? No, non la scriverò. Perché sei qui, Maharet, perché ti sei mostrata a me? Perché sei venuta nel nuovo castello della Bestia, a che scopo? Rispondimi.»

Lei non disse niente. I lunghi capelli rosso chiaro le arrivava­no alla vita. Indossava abiti dalla foggia semplice che potevano passare inosservati in molte terre, una giacca lunga e ampia ser­rata sulla sua vita sottile da una cintura, una gonna che copriva la sommità dei suoi piccoli stivali. L’odore di sangue emanato dagli occhi umani nella sua testa era intenso. E, sfavillando nella sua testa, questi occhi morti mi apparivano orrendi, insopportabili.

«Non prenderò un occhio umano!» esclamai. Ma lo avevo già detto. Mi stavo dimostrando arrogante o insolente? Lei era così potente. «Non prenderò una vita umana», aggiunsi. Ecco cosa avevo voluto dire. «Non prenderò mai e poi mai, mai, fin­ché vivo e sopporto e patisco la fame e soffro, una vita umana, né alzerò la mano contro il mio prossimo, che sia umano oppure uno di noi, non m’importa, non lo farò... io sono... io voglio... con le mie ultime forze non...»

«Ho intenzione di tenerti qui prigioniero. Per un po’. Finché non ti calmi», annunciò lei.

«Sei pazza. Non mi terrai da nessuna parte.»

«Ho delle catene che ti aspettano, Lestat. David, Louis: voi mi aiuterete.»

«Cosa sta succedendo? Come osate, voi due? Catene, stiamo parlando di catene? Cosa sono io, Azazel scaraventato nel poz­zo? Memnoch si farebbe una bella risata vedendo tutto ciò, se non mi avesse voltato le spalle per sempre!»

Ma nessuno di loro si era mosso. Rimasero immobili, l’im­mensa riserva di potere di Maharet completamente celata dalla sua snella forma bianca. E stavano soffrendo. Oh, sentivo l’odo­re della sofferenza.

«Ho una missiva per te», disse lei. Allungò la mano. «E, mentre la leggerai, urlerai e piangerai, e noi ti terremo qui, al si­curo e tranquillo, finché non smetterai. Tutto qui. Sotto la mia protezione. In questo posto. Sarai mio prigioniero.»

«Cos’è? Cos’è?» domandai.

Era un pezzo di pergamena spiegazzata.

«Cosa diavolo è?» chiesi esasperato. «Chi te l’ha dato?» Non volevo toccarlo.

Lei mi prese la mano sinistra con la sua forza assolutamente irresistibile, costringendomi a lasciar cadere i libri contenuti nei sacchetti, e posò sul mio palmo il piccolo involto di pergamena spiegazzata.

«Mi è stato dato per te», spiegò.

«Da chi?» chiesi.

«Dalla persona di cui vedrai la calligrafia all’interno. Leggi.»

«Al diavolo!» imprecai. Con le dita della mano destra aprii la pergamena stropicciata, strappandola.

Il mio occhio. Il mio occhio brillava lì, sopra le righe scritte. Quel pacchettino conteneva il mio occhio; il mio occhio avvolto in una lettera. Il mio occhio azzurro, intatto e vivo.

Boccheggiando, lo presi e lo infilai nell’orbita indolenzita e dolorante, sentendo i suoi filamenti protendersi fino al cervello, intrecciandosi al suo interno. Il mondo divenne perfettamente visibile, in un lampo.

Lei era ferma a fissarmi.

«Hai detto che urlerò?» gridai. «Urlare? Perché? Cosa pensi che veda? Vedo solo ciò che vedevo prima!» Guardai da destra a sinistra, l’orrenda chiazza di oscurità ormai scomparsa, il mondo nella sua interezza, il vetro istoriato, il terzetto immobile che mi fissava. «Oh, grazie, Dio!» sussurrai. Ma cosa significava? Era una preghiera di ringraziamento o una semplice esclamazione?

«Leggi ciò che è scritto sulla pergamena», disse Maharet.

Una calligrafia arcaica, di cosa si trattava? Un’illusione! Paro­le di un linguaggio che non era affatto un linguaggio, eppure chiaramente articolate, tanto che potevo estrapolarle dal disegno ondeggiante, scritte con sangue, inchiostro e fuliggine:


Al mio Principe,

i miei ringraziamenti per un lavoro

svolto alla perfezione.

Con affetto,

Memnoch il Diavolo


Cominciai a ruggire. «Bugie, bugie, bugie!» Sentii le catene. «Quale metallo pensi che possa legarmi, abbattermi? Dannazio­ne a voi! Bugie! Voi non l’avete visto. Lui non vi ha dato que­sto!»

David, Louis, la forza di Maharet, la sua forza inconcepibile — sin da epoche immemorabili, prima ancora che le prime tavolet­te venissero incise a Gerico —, mi circondarono, m’imprigionaro­no. Fu lei più di loro; io ero suo figlio, che si dibatteva e la male­diceva.

Mi trascinarono via nell’oscurità, le mie urla che rimbalzava­no sulle pareti, fino alla stanza che avevano scelto per me con le finestre murate, priva di luce, una prigione sotterranea, le catene che giravano tutt’intorno mentre mi divincolavo.

«Sono bugie, bugie, bugie! Non ci credo! Se sono stato ab­bindolato, è stato Dio a farlo!» Continuai a urlare. «È stato lui a farlo. Non è reale a meno che non l’abbia fatto Lui, Dio Incarna­to. Non Memnoch. No, mai, mai. Bugie!»

Alla fine rimasi disteso lì, impotente. Non m’interessava. C’era qualcosa di consolante nell’essere incatenato, nell’essere inca­pace di percuotere le pareti coi pugni fino a spappolarli o sbatte­re la testa contro i mattoni, o peggio...

«Bugie, bugie, è tutto un immenso panorama di bugie! Non ho visto altro! Un ennesimo circo massimo di bugie!»

«Non sono solo bugie», disse lei. «Non tutte. È il dilemma antico come il tempo.»

Mi zittii. Sentivo il mio occhio sinistro inserirsi più a fondo e rafforzarsi nel mio cervello. Avevo quello. Avevo il mio occhio. E ripensavo al suo viso, al viso di Memnoch distorto dall’orrore quando aveva guardato il mio occhio, e alla storia dell’occhio di zio Mickey. Non riuscivo a capire. Avrei ricominciato a urlare.

Mi sembrò di sentire la voce gentile di Louis che protestava, supplicava, discuteva. Sentii chiavistelli che venivano tirati, chio­di che venivano conficcati nel legno. Sentii Louis che implorava.

«Per un po’,solo per un po’...» lo tranquillizzava lei. «È troppo potente perché noi possiamo fare altro. L’unica alternati­va sarebbe sbarazzarsi di lui.»

«No», gridò Louis.

Sentii David che protestava dicendo che, no, lei non poteva farlo.

«Non lo farò», rispose serafica Maharet. «Ma lui resterà qui finché non deciderò che può andarsene.»

E si allontanarono.

«Cantate», sussurrai. Stavo parlando ai fantasmi dei bambi­ni. «Cantate...»

Ma il convento era deserto. Tutti i piccoli fantasmi erano fug­giti. Il convento era mio. Il servo di Memnoch; il principe di Memnoch. Ero solo nella mia prigione.

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