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Raggiunsi prima di lui la sua abitazione nell’Upper East Side. Lo avevo seguito fin là parecchie volte e conoscevo la disposizio­ne dell’edificio: al pianterreno e al secondo piano vivevano degli affittuari, anche se dubito che conoscessero l’identità del pro­prietario. Non era molto diverso dalla consueta sistemazione di un vampiro. E tra questi due appartamenti c’era la sua lunga ca­tena di stanze che costituivano il primo piano della casa di città, protetta da sbarre come una prigione e cui lui accedeva tramite un ingresso posteriore.

Non si faceva mai lasciare dall’auto davanti all’edificio. Scen­deva sulla Madison e si addentrava nell’isolato raggiungendo la porta sul retro oppure, talvolta, smontava sulla Quinta Avenue. Poteva scegliere tra due itinerari diversi e alcuni dei fabbricati circostanti erano di sua proprietà. Ma nessuno — nessuno dei suoi inseguitori — sapeva di quel posto.

Non ero nemmeno sicuro che sua figlia, Dora, ne conoscesse l’esatta ubicazione. Non l’aveva mai portata là durante tutti i me­si in cui lo avevo tenuto d’occhio, pregustando il piacere e lec­candomi le labbra nel pensare alla sua vita. E nella mente di Dora non avevo mai captato una chiara immagine dell’appartamento.

Lei però sapeva della collezione paterna. In passato aveva ac­cettato le sue reliquie. Alcune erano disseminate nell’enorme convento vuoto di New Orleans. Avevo percepito lo scintillio di quegli oggetti pregiati, la sera in cui l’avevo seguita fin là. E ades­so la mia vittima stava ancora deplorando che lei avesse rifiutato il dono più recente. Qualcosa di davvero sacro, o almeno così pensava lui.

Entrai in casa senza troppi problemi.

Difficilmente lo si poteva definire un appartamento, benché includesse un angusto gabinetto — sporco come diventano spor­chi i vani spogli e non usati — e una stanza dopo l’altra stipate di bauli, statue, figurine in bronzo, cumuli di apparente ciarpame che sicuramente celavano scoperte d’inestimabile valore.

Mi dava una sensazione stranissima trovarmi all’interno, nascosto nella stanzetta sul retro, perché mi ero sempre limitato a guardare dentro dalle finestre. Faceva freddo. Al suo arrivo l’uo­mo avrebbe creato tepore e luce con estrema facilità.

Percepii che si trovava soltanto a metà della Madison, imbot­tigliato nel traffico, e cominciai a esplorare la casa.

Fui subito spaventato da un’enorme statua di marmo che rap­presentava un angelo; uscendo da una porta, svoltai e per poco non le finii addosso. Era uno di quegli angeli che un tempo si trovavano sempre accanto ai portali delle chiese, a offrire l’acqua santa in bacili a forma di conchiglia. Li avevo visti in Europa e a New Orleans. Era gigantesco e il suo profilo crudele scrutava ciecamente le ombre. Molto oltre, lungo il corridoio, saliva la lu­ce dall’animata stradina che sfociava sulla Quinta. I consueti «canti» del traffico newyorkese filtravano dalle pareti.

Questo angelo era in equilibrio come se fosse appena sceso dai cieli per offrire il suo sacro bacile. Gli allungai uno schiaffetto sul ginocchio piegato e gli girai intorno. Non mi piaceva. Sentivo odore di pergamena, di papiro e di diversi tipi di metallo. La stanza di fronte sembrava zeppa di icone russe. Le pareti ne era­no interamente ricoperte e la luce giocava sulle aureole di Vergi­ni dagli occhi tristi o su Cristi dallo sguardo torvo.

Entrai in quella successiva. Crocifissi. Riconobbi lo stile spa­gnolo, quello che sembrava un barocco italiano e opere molto antiche che dovevano essere estremamente rare; il Cristo grotte­sco e dalle proporzioni imperfette, che comunque soffriva con debito orrore sulla croce divorata dai vermi.

Solo allora mi resi conto di ciò che appariva ovvio. Era tutta arte religiosa. Non c’era niente che non fosse religioso. Ma, a ben pensarci, si potrebbe dire altrettanto di tutte le opere d’arte crea­te sino alla fine del secolo scorso. Voglio dire che la stragrande maggioranza dell’arte è di carattere religioso.

Il posto era completamente privo di vita. Puzzava d’insettici­da, che lui aveva spruzzato a profusione per salvare le antiche statue lignee: non avrebbe potuto fare altrimenti. Non riuscii a sentire il rumore o l’odore dei topi né a percepire la presenza di creature viventi. L’appartamento sottostante era deserto, anche se in un bagno una radiolina gracchiava il notiziario. Facile escludere quel suono fioco. Al piano superiore c’erano dei mor­tali ma si trattava di vecchi, e captai la visione di un uomo seden­tario, con degli auricolari, che si dondolava al ritmo di un’esote­rica musica tedesca, Wagner, amanti condannati che lamentava­no l’«odiata alba» o qualche sciocchezza opprimente, ripetitiva e distintamente pagana. Al diavolo il leitmotiv. C’era un’altra persona lassù, una donna, ma era troppo debole per preoccupar­mi; riuscivo a percepirne solo un’immagine: stava cucendo o la­vorando a maglia.

Niente di tutto ciò m’interessava abbastanza per spingermi a metterlo a fuoco con impegno. Ero al sicuro nell’appartamento e lui sarebbe arrivato presto, riempiendo le stanze col profumo del suo sangue, e io avrei fatto di tutto per non spezzargli il collo pri­ma di averne bevuta ogni goccia. Sì, questa era la notte fatidica.

In ogni caso, Dora non l’avrebbe scoperto finché non fosse ar­rivata a casa, l’indomani. Chi mai avrebbe saputo che avevo la­sciato il cadavere lì?

Entrai in soggiorno. Era abbastanza pulito; la stanza in cui lui si rilassava, leggeva, studiava e coccolava i suoi oggetti. Lì c’era­no i suoi comodi e ingombranti divani, coperti da pile di cuscini, e lampade alogene di metallo nero così leggere, moderne e ma­neggevoli da sembrare insetti, posate su tavolini, sul pavimento e talvolta su scatoloni di cartone. Il portacenere di cristallo era pie­no di mozziconi, il che confermava che lui anteponeva la sicurez­za alla pulizia, e qua e là vidi bicchieri in cui il liquore si era sec­cato da tempo, formando una patina che ormai si sfaldava come lacca. Tende sottili e piuttosto sudicie coprivano le finestre, ren­dendo la luce sporca e irritante.

Persino quella stanza era gremita di statue di santi... un sant’Antonio assai sinistro che nell’incavo del braccio stringeva un paffuto Bambin Gesù; una Madonna enorme e dall’aria di­staccata, ovviamente di origine latinoamericana. E un mostruoso essere angelico di granito nero, che nemmeno coi miei potenti occhi riuscii a esaminare scrupolosamente nella semioscurità, qualcosa che somigliava più a un demone mesopotamico che a un angelo.

Per una frazione di secondo, quel mostro di granito mi fece correre un brivido lungo la schiena. Somigliava... no, dovrei dire che le sue ali mi fecero ripensare alla creatura che avevo intravi­sto, la Cosa che temevo mi stesse seguendo. Tuttavia non sentii nessun rumore di passi. Non c’era nessuno strappo nel tessuto del mondo. Era una statua di granito, tutto qui, un orrendo og­getto ornamentale che forse proveniva da una macabra chiesa colma d’immagini dell’inferno e del paradiso.

Decine di libri erano posate sui tavolini. Ah, lui amava i libri. Ce n’erano di pregiati, fatti di pergamena e antichissimi, ma an­che libri moderni, testi di filosofia e religione, attualità, memorie di corrispondenti di guerra allora in voga, persino qualche volu­me di poesia. I numerosi volumi di storia delle religioni scritti da Mircea Eliade avrebbero potuto essere il regalo per Dora, e lag­giù spiccava una Storia di Dio nuova di zecca a opera di una certa Karen Armstrong. Qualcos’altro sul significato della vita: Capire il presente di Brian Appleyard. Libri impegnativi, ma divertenti. Il mio genere, comunque. E libri che erano stati sfogliati. Sì, con­servavano l’odore dell’uomo, intensamente il suo odore, non quello di Dora. Aveva trascorso lì più tempo di quanto avessi immaginato. Passai in rassegna le ombre, gli oggetti, lasciai che l’a­ria mi riempisse le narici. Sì, era venuto lì spesso e con qualcun altro, e quella persona... quella persona era morta in questo luo­go! Finora non me ne ero reso conto, ma tale scoperta rappre­sentava solo un’ulteriore preparazione al banchetto. Così il traf­ficante di droga omicida aveva amato un giovane in quest’appar­tamento, un tempo, e lì non c’era stata solo un’accozzaglia di og­getti. Stavo captando fugaci visioni nel modo peggiore, più emo­zioni che immagini, e mi ritrovai piuttosto vulnerabile di fronte a quell’assalto. Quella morte non era avvenuta poi tanto tempo prima.

Se avessi incrociato la vittima a quei tempi, quando il suo ami­co stava morendo, non l’avrei mai scelta, l’avrei semplicemente lasciata passare. Ma all’epoca lui era così appariscente!

Adesso stava salendo i gradini sul retro, la segreta scala inter­na, con passi cauti, la mano sul calcio della pistola all’interno del cappotto, in stile perfettamente hollywoodiano, benché in lui non ci fossero molti altri aspetti prevedibili... se si escludeva l’ec­centricità tipica di molti trafficanti di droga.

Raggiunse la porta posteriore, vide che era aperta. Rabbia. Scivolai nell’angolo di fronte all’imponente statua di granito e mi addossai alla parete, tra due santi polverosi. Non c’era abbastanza luce perché lui potesse vedermi subito. Avrebbe dovuto ac­cendere una delle lampade alogene, o qualche faretto.

In quel preciso istante stava ascoltando, captando. Detestava l’idea che qualcuno avesse forzato la porta di casa sua; era in pre­da a una furia omicida e aveva tutte le intenzioni d’indagare, da solo; un piccolo processo venne celebrato nella sua mente. No, nessuno poteva sapere di questo posto, decise il giudice. Doveva trattarsi di un ladruncolo, dannazione, e quelle parole erano ca­riche di rabbia di fronte alla casualità.

Estrasse la pistola e cominciò a perlustrare le stanze, quelle che avevo trascurato. Sentii scattare l’interruttore della luce, vidi il lampo nel corridoio. Lui entrò in un’altra e in un’altra ancora.

Come diavolo poteva stabilire con certezza che l’appartamen­to era deserto? Insomma, poteva esserci nascosto chiunque. Io sapevo che era deserto, ma che cosa rendeva tanto sicuro lui? Forse, però, era proprio questa la ragione per cui era rimasto vi­vo così a lungo: possedeva la perfetta combinazione di creatività e noncuranza.

Finalmente si convinse di essere solo. Varcò la soglia del salot­to, dando la schiena al lungo corridoio, ed esaminò la stanza, senza vedermi, poi infilò nella fondina da spalla la grossa pistola da nove millimetri e si sfilò molto lentamente i guanti.

C’era abbastanza luce perché io potessi osservare tutto quello che adoravo in lui. I morbidi capelli neri, il viso dai tratti asiatici non facilmente identificabile come indiano, giapponese o tzigano: avrebbe addirittura potuto essere italiano o greco; gli scaltri occhi neri e la perfetta simmetria delle ossa: uno dei pochi tratti che aveva trasmesso alla figlia, Dora. Aveva la carnagione chiara, Dora. Sua madre doveva essere stata di un bianco latteo. Lui in­vece sfoggiava la mia tonalità preferita, color caramello.

All’improvviso, qualcosa lo rese inquieto. Mi diede le spalle, lo sguardo che si fissava su un oggetto che lo aveva allarmato. Niente a che vedere con me, non avevo toccato nulla. Ma la sua agitazione aveva eretto un muro tra la sua mente e la mia: era in stato di massima allerta, quindi non stava pensando in modo consequenziale.

Era alto, la schiena eretta, il cappotto lungo, le scarpe confe­zionate a mano a Savile Row, del tipo che i negozi inglesi ti con­segnano dopo un’eternità. Si allontanò di un passo da me e io ca­pii, grazie a un guazzabuglio d’immagini, che era stata la statua di granito nero a spaventarlo.

Era evidente: lui ignorava cosa fosse e come fosse finita lì. Si avvicinò, con estrema cautela, come se qualcuno potesse esservi nascosto accanto, poi ruotò su se stesso, esaminò la stanza e sfoderò di nuovo la pistola, lentamente.

Varie possibilità gli stavano attraversando il cervello. Cono­sceva un mercante d’arte abbastanza stupido per recapitare lì la statua senza poi chiudere la porta a chiave, ma l’uomo lo avrebbe sicuramente avvisato prima di passare.

E la statua? Mesopotamica? Assira? Agendo d’impulso, di­menticò tutti i problemi d’ordine pratico, allungò una mano e toccò il granito. Dio, la adorava! La adorava e si stava compor­tando come uno stupido. Voglio dire che avrebbe potuto esserci uno dei suoi nemici, lì. Ma, in tal caso, perché mai un gangster o un investigatore federale avrebbero dovuto portare un regalo del genere?

Era affascinato dall’opera d’arte. Io ancora non riuscivo a di­stinguerla chiaramente. Avrei voluto togliermi gli occhiali viola, cosa che mi sarebbe stata di grande aiuto, ma non osavo muover­mi. Volevo vedere, capire questa sua adorazione per l’oggetto. Percepivo il suo irriducibile desiderio della statua, la sua brama di possederla, di averla lì... proprio il tipo di desiderio che all’ini­zio mi aveva attirato verso di lui.

Non riusciva a pensare a nient’altro se non al pregevole inta­glio, al fatto che fosse recente e non antica, per evidenti motivi stilistici, forse del XVII secolo, una dettagliata rappresentazione di un angelo caduto.

Angelo caduto. Lui fece di tutto, tranne che alzarsi in punta di piedi per baciarlo. Sollevò la mano sinistra e la passò sul viso e i capelli di granito. Dannazione, non riuscivo a vedere! Come poteva sopportare, lui, questa oscurità? Ma, in fin dei conti, era addossato alla statua mentre io mi trovavo a sei metri di distanza, infilato tra due santi, senza godere di una perfetta visuale.

Alla fine si voltò e accese una delle lampade alogene, simile a una mantide religiosa. Spostò il sottile braccio di metallo nero in modo che la luce colpisse direttamente il viso della statua. Ades­so riuscivo a vedere entrambi i profili a meraviglia!

Emise flebili suoni di lussuria. Era un oggetto davvero unico! Ormai il mercante d’arte era del tutto secondario, la porta poste­riore dimenticata, il temuto pericolo svanito. Infilò di nuovo la pistola nella fondina, quasi automaticamente, e si alzò in punta di piedi, cercando di portare i propri occhi al livello di quelli del­la raccapricciante scultura. Ali fatte di piume. Adesso riuscii a notarlo. Non da rettile, piumate. Ma il viso, classico, intenso, il lungo naso, il mento... eppure c’era una certa ferocia nel profilo. E come mai la statua era nera? Forse si trattava di san Michele che spingeva i demoni all’inferno, furibondo e virtuoso. No, i ca­pelli erano troppo rigogliosi e arruffati. Armatura o corazza, e poi scorsi i dettagli rivelatori: aveva zampe e zoccoli caprini. Dia­volo.

Fui assalito da un brivido. Come la Cosa che avevo visto. Ma era stupido! E non avevo affatto l’impressione che il Pedinatore mi fosse vicino, adesso. Nessun senso di disorientamento; non ero nemmeno seriamente spaventato. Era un semplice fremito, niente di più.

Rimasi immobile. Fa’ con calma, pensai. Cerca di capire bene. Hai la tua vittima, e questa statua rappresenta solo un dettaglio casuale che arricchisce ulteriormente l’intero scenario.

Lui puntò verso la statua il fascio di luce di un’altra alogena. Il modo in cui la esaminava aveva un che di erotico. Sorrisi. Eroti­co era il modo in cui io stavo studiando lui, questo quarantasettenne con una salute di ferro degna di un giovane e la perfetta padronanza di sé degna di un criminale. Indietreggiò impavido, ormai dimentico di qualunque tipo di minaccia, e guardò il suo nuovo tesoro. Da dove arrivava? Da chi? Non gliene fregava niente del prezzo. Se solo Dora... No, a Dora quell’oggetto non sarebbe piaciuto. Dora. Dora, che quella sera gli aveva spezzato il cuore rifiutando il suo dono.

Il suo atteggiamento mutò; non voleva ripensare alla figlia e a tutte le cose che aveva detto: che lui doveva rinunciare alla sua attività, che lei non avrebbe mai accettato un centesimo per la chiesa, che non poteva fare a meno di volergli bene e di soffrire nel caso lui fosse finito in tribunale, che non voleva il velo...

Quale velo? Solo una copia, aveva spiegato lui, ma una delle migliori che avesse trovato finora. Velo? Improvvisamente colle­gai quest’impetuoso e fugace ricordo con un oggetto appeso alla parete più lontana, un pezzo di tessuto incorniciato, il viso di Cristo dipinto. Velo. Il velo di Veronica.

E, soltanto un’ora prima, lui aveva detto alla figlia: «XIII se­colo, e talmente bello, Dora, per l’amor del cielo. Prendilo. Se non posso lasciare queste cose a te, Dora...»

Quindi questo viso di Cristo era il suo prezioso dono?

«Non le accetterò più, papà, te l’ho già detto. Mai più.»

Lui aveva insistito illustrando il progetto di esporre al pubbli­co questo nuovo regalo. Così come tutte le sue reliquie. Una si­mile iniziativa le avrebbe permesso di raccogliere fondi per la chiesa.

Lei aveva cominciato a piangere, e tutto ciò era successo in al­bergo, mentre io e David ci trovavamo nel bar, a pochi metri di distanza da loro.

«E ipotizziamo che questi bastardi riescano ad arrestarmi, grazie a qualche mandato, a qualcosa che non ho sistemato. Mi stai dicendo che non prenderai questi oggetti? Lascerai che fini­scano in mano a degli sconosciuti?»

«Rubati, papà, non sono puliti. Sono contaminati», aveva gridato lei.

Lui non riusciva proprio a capire la figlia. Era come se fosse stato un ladro sin dall’infanzia. New Orleans. La pensione, il biz­zarro miscuglio di povertà ed eleganza, e sua madre quasi sem­pre ubriaca. Il vecchio capitano che gestiva il negozio di antiqua­riato. Tutte queste immagini gli stavano attraversando la mente. Il vecchio capitano alloggiava nelle stanze sul davanti della casa e lui, la mia vittima, gli portava il vassoio della colazione ogni mattina, prima di andare a scuola. Pensione, servizio, anziani elegan­ti, St. Charles Avenue. L’epoca in cui gli uomini restavano seduti sui balconi, la sera, e anche le signore anziane, coi loro cappelli. Periodi caratterizzati dalla luce del giorno, che io non avrei co­nosciuto mai più.

Sogni a occhi aperti. No, a Dora quella statua non sarebbe piaciuta. E, all’improvviso, neanche lui ne era più così sicuro. Aveva parametri spesso difficili da spiegare alla gente. Iniziò a balbettare scuse, come se stesse parlando al mercante d’arte che gli aveva portato la statua: «Sì, è bella, ma troppo barocca! Le manca quella deformità grottesca che io apprezzo tanto».

Sorrisi. Amavo la mente di questo tizio. E il profumo del san­gue, be’... Ne inspirai deliberatamente una boccata e lasciai che mi trasformasse in un predatore. Piano, Lestat. Hai aspettato per mesi e mesi. Non bruciare le tappe. E lui stesso è un tale mostro. Aveva sparato in testa ad alcune persone, ne aveva uccise altre a coltellate. Una volta, in una piccola drogheria, aveva assassinato un suo nemico e la moglie del proprietario con assoluta indiffe­renza. La donna gli era d’intralcio. E poi era uscito con nonchalance. L’omicidio risaliva ai suoi primi anni a New York, prima di Miami, prima del Sudamerica. Ma lui se ne ricordava, e quindi io ne ero al corrente. Pensava spesso alle varie morti. Ecco perché ci pensavo anch’io.

Stava esaminando le zampe dotate di zoccoli di quella cosa, quell’angelo, diavolo, demone. Mi resi conto che le sue ali arriva­vano al soffitto. Riuscivo a risentire quel brivido, se permettevo a me stesso di farlo. Ma mi trovavo su un terreno saldo, e lì non c’era niente che provenisse da un altro reame.

Lui si tolse il cappotto, rimanendo in maniche di camicia. Era troppo. Mentre si sbottonava il colletto riuscii a vedere la pelle del suo collo e la zona particolarmente attraente appena sotto l’orecchio, il punto speciale tra la parte posteriore del collo di un umano e il lobo dell’orecchio, quello che determina in così larga parte la bellezza maschile.

Diamine, non avevo inventato io l’importanza del collo. Chiunque sapeva cosa significassero quelle proporzioni. Trovavo quell’uomo affascinante, ma si trattava della sua mente, in realtà. Al diavolo la sua bellezza asiatica e tutto il resto, persino la sua vanità che gli permetteva di brillare per quindici metri in ogni direzione. Era la mente, la mente che era concentrata sulla statua e per un attimo misericordioso aveva accantonato ogni pensiero su Dora.

Lui allungò una mano verso un altro faretto alogeno, strinse il metallo caldo e puntò il fascio di luce sull’ala del demone, quella che riuscivo a vedere meglio, e anch’io notai la perfezione cui stava pensando, la passione tipicamente barocca per i dettagli. No, lui non collezionava quel tipo di oggetti. Preferiva il grotte­sco, e quella statua era grottesca solo per puro caso. Dio, era or­ribile. Aveva un’incolta criniera di capelli, un cipiglio che avreb­be potuto benissimo essere stato disegnato da William Blake, ed enormi occhi rotondi che lo fissavano con apparente odio.

«Blake, sì! Blake. Questa dannata statua somiglia a uno dei disegni di Blake», esclamò improvvisamente lui, e si voltò.

Mi resi conto che mi stava fissando. Avevo proiettato all’ester­no la mia riflessione, con noncuranza, certo, ovviamente con uno scopo ben preciso. Sentii lo shock della connessione. Lui mi vi­de; forse vide gli occhiali, e la luce, o forse i miei capelli.

Mi staccai lentamente dal muro, con le braccia che penzolava­no lungo i fianchi. Speravo che non ci fosse, da parte sua, nessu­na reazione tanto volgare come allungare la mano verso la pisto­la. Tuttavia lui si limitò a guardarmi, forse accecato dall’intensa luce così vicina a sé. Il fascio luminoso dell’alogena proiettava sul soffitto l’ombra dell’ala dell’angelo. Mi avvicinai ancora.

Lui non disse assolutamente niente. Aveva paura, o, meglio, diciamo che era allarmato, anzi più che allarmato. Sospettava che quello potesse rivelarsi il suo ultimo confronto diretto. Qual­cuno aveva eluso la sua sorveglianza! Ed era troppo tardi per cercare di estrarre la pistola o fare qualunque altro gesto altret­tanto prosaico; eppure, non aveva paura di me, in realtà.

E che io sia dannato se non sapeva che non ero umano.

Lo raggiunsi in un lampo e gli serrai il viso con entrambe le mani. Cominciò a sudare e a tremare, ma sollevò una mano per togliermi gli occhiali, che caddero a terra.

«Oh, è magnifico, esserti così vicino, finalmente!» sussurrai.

Non riusciva ad articolare le parole. Era impossibile che un mortale stretto così nella mia morsa riuscisse a pronunciare altro che preghiere, e lui non ne conosceva nessuna! Mi fissò dritto negli occhi e poi, molto lentamente, mi esaminò, non osando muoversi, il viso ancora serrato dalle mie mani gelide, e lo sape­va. Sapeva che non ero umano.

Fu una reazione davvero stranissima! Naturalmente, mi era già capitato di essere riconosciuto, in terre all’altro capo del mondo; ma la scoperta era sempre stata accompagnata da qual­cosa, preghiera, pazzia, una disperata reazione atavica. Persino nella vecchia Europa, dove credevano al nosferatu, urlavano una preghiera prima che io affondassi i miei denti.

Ma questo, cos’era questo? Il suo fissarmi, questo comico co­raggio criminale!

«Morirai così come hai vissuto?» bisbigliai.

Un pensiero lo galvanizzò. Dora. Cominciò a lottare strenua­mente, afferrandomi le mani, rendendosi conto che sembravano di pietra e poi cadendo in preda a convulsioni mentre cercava di divincolarsi, di sfilare il viso dalla mia stretta spietata. M’inveì contro, sibilando.

Un’inspiegabile misericordia s’impadronì di me. Non tortu­rarlo così. Sa troppe cose; capisce troppe cose. Dio, hai avuto a disposizione mesi e mesi per tenerlo d’occhio, non devi prolun­gare la sua agonia. D’altra parte, quando ti ricapiterà un’uccisio­ne come questa?

Be’,la fame ebbe la meglio sul buonsenso. Prima premetti la fronte sul suo collo, spostando la mano sulla sua nuca, gli lasciai sentire i miei capelli, lo udii trattenere il fiato e poi bevvi.

Lo presi. Percepii lo zampillo, e lui e il vecchio capitano nella stanza anteriore, il tram che passava là davanti sferragliando, e lui che diceva al vecchio capitano: «Se me lo mostri di nuovo o mi chiedi di toccarlo non mi avvicinerò mai più a te». E il vec­chio capitano che giurava di non farlo. Il vecchio capitano che lo portava al cinema, a cenare al Monteleone e sull’aereo diretto ad Atlanta, dopo aver promesso solennemente di non farlo mai più: «Permettimi solo di starti vicino, solo di starti vicino, mai più, lo giuro». Sua madre ubriaca in piedi sulla soglia, intenta a spazzolarsi i capelli. «So a cosa stai giocando, so benissimo cosa state facendo tu e il vecchio. Ti ha comprato lui quei vestiti? Non cre­dere che io non sappia cosa sta succedendo.» E poi Terry col fo­ro di proiettile al centro della fronte, una ragazza bionda che si gira di fianco e stramazza sul pavimento, il quinto omicidio, e de­vi essere tu, Terry, tu. Lui e Dora si trovavano sul furgone. E Do­ra sapeva. Dora aveva solo sei anni e sapeva. Sapeva che lui le aveva ucciso la mamma, Terry. E non avevano mai, mai, pronun­ciato una sola parola in proposito. Il corpo di Terry in un sacco di plastica. Ah, Dio, plastica. E lui che diceva: «Mammina è parti­ta». Dora non aveva nemmeno fatto domande. Sei anni, e sape­va. Terry che urlava: «Pensi di potermi rubare la mia bambina, figlio di puttana, pensi di poter prendere mia figlia. Me ne vado stasera con Jake, e lei viene con me». Bang, sei morta, tesoro. Non ti sopportavo comunque. Ridotta a un ammasso informe sul pavimento, il tipo assai appariscente di ragazza dozzinale, con unghie rosa chiaro perfettamente ovali, rossetto che sembra sempre appena applicato, e capelli tinti. Short rosa, cosce snelle. Lui e Dora che viaggiavano nella notte, in macchina, e non ave­vano mai detto una parola.

Cosa mi stai facendo? Mi stai uccidendo! Stai prendendo il mio sangue, non la mia anima, ladro, tu... Cosa succede, in nome di Dio?

«Stai parlando con me?» Mi ritrassi, il sangue che mi colava dalle labbra. Dio santo, stava parlando con me! Lo morsi di nuo­vo e stavolta gli spezzai il collo, ma lui continuò.

Sì, tu, cosa sei? Perché, perché questo, il sangue? Dimmelo, che tu sia dannato! Che tu sia dannato!

Gli avevo frantumato le ossa delle braccia, slogato la spalla, le ultime gocce di sangue che potevo ottenere si trovavano sulla mia lingua. La infilai nella ferita, dammi, dammi, dammi...

Ma qual è, qual è, il tuo nome, per Dio, chi sei?

Era morto. Lo lasciai cadere e mi ritrassi. Parlare con me! Parlare con me durante l’uccisione? Chiedere a me chi ero? Riu­scire a penetrare il deliquio?

«Oh, sei così pieno di sorprese», mormorai. Cercai di chiarir­mi le idee. Ero colmo di sangue tiepido. Lo trattenni in bocca. Volevo sollevare l’uomo da terra, squarciargli i polsi, bere tutto quello che restava, ma era così sgradevole e, a dire il vero, non avevo alcuna intenzione di toccarlo di nuovo! Deglutii e mi pas­sai la lingua sui denti, gustando il sangue per l’ultima volta; lui e Dora sul furgoncino, lei di soli sei anni, mammina morta, un proiettile in testa, col papà per sempre, adesso.

«Quello fu il quinto omicidio!» mi aveva detto lui ad alta vo­ce, lo avevo sentito. «Chi sei?»

«Parlare con me, bastardo!» Abbassai lo sguardo su di lui; oh, il sangue mi stava giusto inondando i polpastrelli, e scenden­do lungo le gambe; chiusi gli occhi e pensai: vivi per questo, solo per questo, per questo gusto, questa sensazione. Mi tornarono in mente le sue parole, dette a Dora in un bar di lusso: «Ho vendu­to l’anima per posti come questo».

«Oh, per l’amor del cielo, muori, dannazione!» esclamai. Vo­levo che il sangue continuasse ad ardere, ma ne avevo abbastan­za di lui, diamine, sei mesi erano davvero tanti per una relazione amorosa tra un vampiro e un essere umano! Alzai gli occhi.

L’oggetto nero non era affatto una statua. Era vivo. E mi stava studiando. Era vivo, respirava e mi stava osservando da sotto il suo furibondo cipiglio di un nero scintillante, guardandomi dal­l’alto.

«No, non è vero», dissi ad alta voce. Cercai d’immergermi nella calma profonda che spesso il pericolo suscita in me. Non è vero. Diedi volutamente un colpetto al cadavere riverso sul pavi­mento solo per accertarmi di essere ancora lì, e non sul punto d’impazzire; ero terrorizzato dall’imminente disorientamento, ma non arrivò; poi urlai.

Urlai come un bambino.

E corsi fuori di lì.

Fuggii a gambe levate, lungo il corridoio, uscendo dalla porta posteriore e sbucando nella vasta notte.

Salii sopra i tetti e poi, esausto, mi lasciai cadere in un angusto vicoletto, sdraiandomi sui mattoni. No, non poteva essere suc­cesso davvero. Si trattava di un’ultima immagine proiettata da lui, la mia vittima; aveva creato quell’immagine da morto, una dolce vendetta. Facendo sembrare viva quella statua, quell’enor­me oggetto scuro e alato, dalle zampe caprine...

«Già», dissi. Mi asciugai le labbra. Ero steso sulla neve spor­ca. C’erano altri mortali in quel vicoletto. Non infastidirci. Non lo farò. Mi asciugai di nuovo le labbra. «Già, vendetta; il suo amore per tutte le cose conservate in quell’appartamento, e me l’ha scagliato addosso. Sapeva. Sapeva cos’ero. Sapeva come...» esclamai ad alta voce.

Inoltre, la Cosa che mi pedinava non era mai stata così tran­quilla, così immobile, così meditabonda. Si era sempre gonfiata e sollevata come fumo denso e puzzolente, e quelle voci... Si era trattato di una semplice statua, quella che avevo appena visto.

Mi alzai, furibondo con me stesso, assolutamente furibondo per essere fuggito, per aver trascurato l’ultimo trucchetto incluso nell’intera uccisione. Ero abbastanza furibondo per tornare là, prendere a calci il suo cadavere e quella statua, che era sicura­mente ridiventata di granito nell’istante esatto in cui la vita aveva abbandonato il cervello moribondo del suo proprietario.

Braccia e spalle fratturate. Come se, dall’ammasso sanguino­lento in cui l’avevo trasformato, lui avesse evocato quella cosa.

E Dora lo verrà a sapere. Braccia e spalle fratturate. Collo spezzato.

Raggiunsi la Quinta Avenue. Continuai a camminare nel vento.

Affondai le mani nelle tasche del mio blazer di lana, di gran lunga troppo leggero per apparire adeguato a quella quieta tor­menta, e passeggiai a lungo. «D’accordo, dannazione, sapevi co­s’ero e per un attimo hai fatto sembrare viva quella cosa.» M’immobilizzai fissando, oltre il traffico, la buia boscaglia ammantata di neve di Central Park. «Se è tutto collegato, vienimi a prende­re.» Adesso non stavo parlando con lui o con la statua, bensì col Pedinatore. Mi rifiutavo di avere paura. Avevo soltanto perso la testa.

E dov’era David? A caccia da qualche parte? Caccia... l’atti­vità che, da mortale, aveva amato così tanto praticare nella giun­gla indiana, e io lo avevo trasformato per sempre nel cacciatore dei suoi fratelli.

Presi una decisione. Sarei tornato subito nell’appartamento. Avrei esaminato quella dannata statua e accertato che era inani­mata, e poi avrei fatto quello che dovevo fare per Dora: sbaraz­zarmi del corpo di suo padre.

Impiegai solo pochi istanti per tornare indietro, per salire di nuovo la stretta scala posteriore nera come la pece ed entrare nell’appartamento. Ormai ero esasperato dalla mia paura, furi­bondo, umiliato e scosso, e allo stesso tempo curiosamente ecci­tato... come sempre mi succede davanti all’ignoto.

Tanfo del suo corpo appena morto. Tanfo di sangue versato.

Non riuscivo a udire o percepire nient’altro. Entrai in una stanzetta che un tempo era stata una cucina; conteneva ancora le vestigia dei lavori domestici risalenti all’epoca dell’uomo defun­to che la vittima aveva amato. Sì, proprio ciò che volevo era sotto le tubature del lavandino, là dove lo ficcano sempre i mortali, una scatola di sacchi dell’immondizia di cellofan verde, perfetti per i suoi resti.

Improvvisamente, ricordai che aveva infilato la moglie uccisa, Terry, in un sacco del genere, avevo visto la scena, ne avevo senti­to l’odore, mentre mi cibavo di lui. Oh, al diavolo. Quindi lui mi aveva dato l’idea.

C’erano coltelli in giro, ma niente che potesse consentire un lavoretto chirurgico o artistico. Presi il più grosso, con la lama di acciaio al carbonio, entrai in salotto, senza esitare, e mi voltai a guardare la statua gigantesca.

Le lampade alogene erano ancora accese, brillanti ed efficaci fasci di luce nel guazzabuglio ricco di ombre.

Statua: angelo dalle zampe caprine.

Lestat, idiota.

La raggiunsi e mi ci fermai davanti, osservandone con fred­dezza i dettagli. Probabilmente non risaliva al XVII secolo. For­se era contemporanea, scolpita a mano, sì, ma sfoggiava l’assolu­ta perfezione contemporanea e il volto aveva la sublime espres­sione alla William Blake: un essere malvagio, accigliato, dalle zampe caprine e con gli occhi dei santi e dei peccatori del poeta e pittore inglese, colmi d’innocenza così come d’ira.

Tutt’a un tratto la desiderai, avrei voluto tenerla, portarla nel­le mie stanze di New Orleans come souvenir del momento in cui ero praticamente morto di paura ai suoi piedi. Mi si stagliava di­nanzi, fredda e solenne. E poi mi resi conto che tutte quelle reli­quie rischiavano di andare perdute, se non avessi preso dei prov­vedimenti. Non appena la sua morte fosse diventata di dominio pubblico, ognuno di quegli oggetti sarebbe stato confiscato; era questo il fulcro delle sue discussioni con Dora: la prospettiva che la sua vera ricchezza finisse in mani incuranti.

E Dora gli aveva voltato la schiena stretta e minuta e aveva pianto, un’orfanella consumata dal dolore, dall’orrore e dalla frustrazione più orribile, l’incapacità di consolare la persona a lei più cara.

Abbassai lo sguardo. Svettavo sopra il suo cadavere straziato. Lui continuava a sembrare appena morto, devastato, ucciso da un disgraziato. Capelli neri morbidi e arruffati, occhi semichiusi. Sulle maniche della camicia bianca spiccavano macchie di uno sgradevole rosa dovute al sangue colato dalle ferite che gli avevo inflitto involontariamente, stritolandolo. Il torace formava un angolo orrendo con le gambe. Gli avevo spezzato il collo e la spi­na dorsale.

Be’,lo avrei portato fuori di lì. Mi sarei sbarazzato di lui, e per molto tempo nessuno lo avrebbe saputo. Nessuno avrebbe sapu­to che era morto; e gli investigatori non avrebbero potuto infasti­dire Dora o renderla infelice. In seguito avrei pensato alle reli­quie, magari mettendole al sicuro per conto di Dora.

Gli presi i documenti dalle tasche. Tutti falsi, nessuno che re­casse il suo vero nome. Il suo vero nome era Roger. Lo sapevo sin dall’inizio, ma solo Dora lo chiamava così. Nei rapporti con chiunque altro lui aveva usato pseudonimi esotici, con bizzarri suoni medievali. Il passaporto era intestato a Frederick Wynken. Lo trovai davvero buffo. Frederick Wynken.

Radunai tutti i documenti e me li infilai nelle tasche con l’in­tenzione di distruggerli in un secondo tempo. Mi misi al lavoro col coltello. Gli tagliai le mani, meravigliandomi della loro delicatezza e di quanto le unghie fossero curate. Lui si era amato così tanto, e a ragione. Gli staccai la testa, più grazie alla forza bruta, spingendo il coltello attraverso tendini e ossa, che con vera e propria destrezza. Non mi presi il disturbo di chiudergli gli occhi. Lo sguardo dei morti conserva così poco fascino, davvero! Non imita nulla di vivente. La bocca era rilassata senza emozio­ne, e le guance lisce nella morte. Come al solito. Infilai la testa e le mani in due sacchi diversi, poi ripiegai il corpo, più o meno, e lo ficcai nel terzo sacco.

C’era sangue su tutto il tappeto che, me ne resi conto, era solo uno dei tanti, tantissimi, che coprivano il pavimento sovrappo­nendosi, come in un negozio da rigattiere, e questo era un vero peccato. Ma l’importante era che il corpo stesse per uscire dal­l’appartamento. La sua decomposizione non avrebbe richiamato mortali dal piano superiore o da quello inferiore. E, in assenza del cadavere, nessuno avrebbe mai potuto scoprire cosa ne era stato di lui... sicuramente la soluzione migliore per Dora, piutto­sto di dover vedere fotografie raffiguranti una scena così raccapricciante.

Lanciai un’ultima occhiata all’espressione accigliata dell’an­gelo, demone o qualunque cosa fosse, con la sua criniera ribelle, le splendide labbra e gli enormi occhi lucenti. Poi, caricandomi in spalla i tre sacchi come Babbo Natale, uscii per sbarazzarmi di Roger, pezzo per pezzo.

Non fu un grosso problema. Approfittai per riflettere mentre arrancavo lungo le strade innevate, deserte e buie, verso i quar­tieri residenziali, in cerca di tetri e caotici cantieri edili, cumuli d’immondizia, luoghi dove si erano accumulati marciume e sporcizia e che molto probabilmente non sarebbero stati esami­nati né sgomberati di lì a breve.

Seppellii le sue mani in un gigantesco ammasso di rifiuti sotto un cavalcavia dell’autostrada. I pochi mortali che oziavano in quel luogo, con delle coperte e un focherello acceso in un conte­nitore di latta, non badarono a me. Spinsi le mani avvolte nella plastica così a fondo tra le macerie che era impensabile che qual­cuno potesse cercare di recuperarle. Poi mi avvicinai ai mortali, che non alzarono nemmeno gli occhi, e lasciai cadere alcune banconote accanto al fuoco. Per poco il vento non le portò via. Poi una mano, una mano vivente, è ovvio, la mano di uno di quei vagabondi, saettò nella luce del fuoco, le prese e tornò nell’oscu­rità.

«Grazie, fratello.»

Risposi: «Amen».

Mi sbarazzai della testa, in maniera molto simile, a notevole distanza da lì. Un cassonetto accanto a una porta di servizio. Ri­fiuti bagnati di un ristorante. Tanfo. Non diedi un’ultima occhia­ta alla testa. M’imbarazzava. Non era un trofeo. Non avrei mai conservato la testa di un uomo come trofeo. L’idea mi sembrava deplorevole. Non mi piaceva la sua consistenza rigida attraverso la plastica. Se l’avessero trovata gli affamati non avrebbero mai avvisato la polizia. Inoltre, gli affamati erano già passati di lì per ritirare la loro parte di pomodori, lattuga, spaghetti e croste di pane francese. Il ristorante aveva già chiuso da ore. L’immondi­zia era gelata e tintinnò e si mosse rumorosamente mentre spin­gevo in fondo la testa.

Tornai in centro, sempre a piedi, con l’ultimo sacco sulla spal­la, il suo povero torace, le braccia e le gambe. Percorsi la Quinta, oltre l’albergo in cui dormiva Dora, oltre la chiesa di San Patrizio, sempre più avanti, oltrepassando i negozi di lusso. I mortali var­cavano correndo le porte sotto le tende di riparo; i tassisti furi­bondi suonavano il clacson contro le massicce e lente limousine.

Continuai a camminare. Prendevo a calci la fanghiglia e mi odiavo. Riuscivo a sentire l’odore dell’uomo e odiavo anche que­sto. Ma, in un certo senso, il banchetto era stato talmente divino che trovavo appropriato che richiedesse questo anticlimax, que­sta accurata pulizia.

Gli altri — Armand, Marius, tutti i miei compagni, amanti, amici, nemici immortali — mi maledicevano sempre per la mia abitudine di non «sbarazzarmi dei resti». Be’,stavolta Lestat stava facendo il bravo vampiro. Stava riordinando dopo il suo passaggio.

Ero quasi arrivato al Village quando trovai un altro posto per­fetto, un enorme deposito apparentemente abbandonato, con le finestre rotte ai piani superiori. E, all’interno, un enorme cumulo di rifiuti di ogni tipo. Sentii la puzza di carne umana in decom­posizione. Qualcuno era morto lì, tre settimane prima. Solo il freddo impediva al tanfo di raggiungere le narici umane. O forse nessuno se ne curava.

Mi addentrai ulteriormente nella stanza cavernosa; odore di benzina, metallo, mattoni rossi. Una montagna d’immondizia grande come una pira funeraria si stagliava al centro del locale. Un camion era parcheggiato vicino a essa, il motore ancora cal­do; però non individuai esseri viventi. C’era parecchia carne umana in decomposizione nell’ammasso più ampio. Il puzzo mi permise d’identificare almeno tre cadaveri, sparpagliati tra i ri­fiuti. Forse ce n’erano di più. L’odore era ripugnante, così non persi troppo tempo ad analizzare la situazione.

«Okay, amico mio, ti lascio in un cimitero», dissi. Spinsi il sacco a fondo, ben a fondo, tra bottiglie rotte, lattine schiacciate, pezzi di frutta marcia, pile di cartone, legno e immondizia. Per poco non provocai una valanga. In realtà, si udì un paio di lievi scosse dei rifiuti, poi la sgraziata piramide si riformò silenziosa­mente. Gli unici rumori erano quelli prodotti dai topi. Una bot­tiglia di birra, silenziosa e solitaria, rotolò sul pavimento, a circa un metro dal «monumento».

Per un lungo istante studiai il camion; malconcio, anonimo, il motore caldo, odore di occupanti umani allontanatisi da poco. Cosa facessero lì era irrilevante. Sapevo che andavano e veniva­no varcando le grandi porte metalliche, ignorando oppure ali­mentando quest’ossario. Molto più probabilmente, ignorando­lo. Chi mai parcheggerebbe accanto alle proprie vittime? Ma in tutte queste grandi città popolose, mi riferisco alle città impor­tanti, ai covi del male di fama mondiale — New York, Tokyo, Hong Kong —, si possono trovare le attività mortali più bizzarre. La criminalità, con le sue numerose sfaccettature, aveva comin­ciato ad affascinarmi. Ecco cosa mi aveva condotto a lui.

Roger. Addio, Roger.

Uscii. Aveva smesso di nevicare. Regnava un’atmosfera deso­lata. Un logoro materasso giaceva in un angolo dell’isolato, co­perto di neve. I lampioni erano rotti. Non sapevo di preciso dove mi trovavo. Mi diressi verso l’acqua, fino all’estremità dell’isola, poi vidi una di quelle chiese molto antiche, risalenti all’epoca olandese di Manhattan, con annesso un piccolo cimitero cintato, sulle cui lapidi si leggevano distintamente date impressionanti quali 1704 o addirittura 1692.

L’edificio era un piccolo gioiello gotico, un frammento della magnificenza di San Patrizio, forse addirittura più elaborato e misterioso; uno spettacolo che, per la ricchezza di dettagli e la struttura, risultava ancor più gradito, se confrontato con l’insul­saggine e la desolazione della metropoli.

Mi sedetti sui gradini della chiesa, ammirando le superfici scolpite degli archi decorati e valutando la possibilità di riaffon­dare nel buio addossandomi alla pietra consacrata.

Mi accertai che il Pedinatore non fosse nei paraggi, che le at­tività di quella notte non avessero evocato visitatori provenienti da un altro reame oppure passi inquietanti, e che la statua di gra­nito fosse inanimata. Controllai se avevo ancora in tasca i docu­menti di Roger: questo avrebbe fatto sì che passassero settimane, forse mesi, prima che la pace mentale di Dora venisse turbata dalla scomparsa del padre, di cui lei non avrebbe mai scoperto i dettagli.

Ecco fatto. La fine dell’avventura. Mi sentivo meglio, molto meglio di quando avevo parlato con David. Tornare indietro, studiare quella mostruosa scultura di granito, era stata una mos­sa geniale.

L’unico problema era che il puzzo di Roger mi si era attaccato addosso. Roger. Fino a quando era stato «la vittima»? Adesso lo stavo chiamando Roger. Era un segno d’amore? Dora lo chiama­va Roger, papà, Roge e pa’. «Tesoro, sono Roge», diceva lui, chiamandola da Istanbul. «Puoi raggiungermi in Florida per qualche giorno? Ho bisogno di parlarti...»

Estrassi i documenti falsi. Il vento era impetuoso e freddo, ma aveva smesso di nevicare e la neve sul terreno si stava indurendo. Nessun mortale si sarebbe seduto lì così, sotto l’alto arco decora­to del portale di una chiesa, ma a me piaceva.

Esaminai il passaporto contraffatto. In realtà, si trattava di un set completo di documenti falsi, alcuni dei quali mi risultavano incomprensibili. C’era un visto per l’Egitto. Roger aveva sicura­mente portato fuori da quel Paese della merce di contrabbando! E il nome Wynken mi fece sorridere perché è uno di quelli di cui ridono persino i bambini, quando lo sentono. Wynken, Blinken e Nod, i tre personaggi della filastrocca infantile.

Fu molto semplice strappare tutto in frammenti minuscoli la­sciando che il vento li portasse via con sé nella notte, al di sopra delle basse lapidi dell’angusto cimitero. Una folata violenta. Si sparpagliarono come cenere, come se l’identità di Roger fosse stata cremata e si stesse rendendo al defunto l’omaggio finale.

Mi sentivo esausto, sazio di sangue, soddisfatto, e stupido per aver avuto così tanta paura mentre parlavo con David. Lui do­veva considerarmi uno sciocco. Ma cosa avevo accertato con si­curezza? Solo che la Cosa che mi pedinava non voleva protegge­re Roger, la vittima, o che non aveva niente a che fare con lui. Non l’avevo sempre saputo? Questo non significava che il Pedinatore se ne fosse andato, ma solo che sceglieva momenti parti­colari per seguirmi, che forse essi non erano affatto collegati a ciò che facevo.

Ammirai la chiesetta. Poteva sembrare un’eccezione, ricca­mente decorata e incongrua tra gli altri edifici di Lower Manhat­tan, se non fosse che ormai in questa bizzarra città niente appare incongruo perché il miscuglio di gotico, antico e moderno è di­venuto la norma. Il cartello della strada vicina indicava Wall Street.

Mi trovavo all’imbocco di Wall Street? Posai la schiena con­tro le pietre, chiusi gli occhi. David e io avremmo potuto parlare la sera seguente. E Dora? Dormiva come un angelo, nell’albergo di fronte alla cattedrale? Sarei riuscito a perdonare me stesso se le avessi dato un’ultima occhiata segreta, innocua e sconsolata mentre dormiva nel suo letto, prima di gettarmi alle spalle l’inte­ra avventura? Fine.

Meglio togliermi dalla testa la ragazza; dimenticare la figura che percorreva gli enormi corridoi bui di quel convento deserto di New Orleans con la torcia elettrica in mano, l’impavida Dora. Non somigliava affatto all’ultima donna mortale che avevo ama­to. No, dimenticatene. Dimenticatene, Lestat, mi ascolti?

Il mondo era pieno di potenziali vittime, se cominciavi a pen­sare in termini di modelli di vita, una particolare atmosfera del­l’esistenza, una personalità completa, per così dire. Magari, se riuscivo a convincere David ad accompagnarmi, sarei tornato a Miami. La sera seguente lui e io avremmo parlato.

Naturalmente, David poteva seccarsi davvero, visto che lo avevo mandato a cercare un rifugio nell’Olympic Tower e adesso ero pronto a trasferirmi al Sud. Ma, dopotutto, forse non ci sa­remmo spostati.

Mi resi conto che se in quel momento avessi sentito quei pas­si, percepito la presenza del Pedinatore, la sera seguente avrei tremato fra le braccia di David. Al Pedinatore non importava dove andavo, e il Pedinatore era reale.

Ali nere, la sensazione di qualcosa di oscuro che si accumula, fumo denso, e la luce. Non soffermarti sull’idea. Hai già fatto ab­bastanza riflessioni macabre per una sera, giusto?

Quando avrei individuato un altro mortale come Roger? Quando avrei visto un’altra luce così brillante? E quel figlio di puttana che mi parlava durante l’intera faccenda, che parlava vincendo il deliquio! Parlava con me! E riusciva, chissà come, a far sembrare viva quella statua grazie a un imprecisato, flebile impulso telepatico, dannazione a lui. Scossi il capo. Lo avevo provocato io? Avevo fatto qualcosa di diverso dal solito?

Forse, seguendo Roger per mesi, ero arrivato ad amarlo tanto da parlargli mentre lo uccidevo, con un tacito sonetto di devo­zione? No.. In quel momento stavo semplicemente bevendo e amandolo, e assorbendolo dentro di me. Roger dentro di me.

Un’auto si avvicinò lentamente nel buio, fermandomisi accan­to. Mortali che s’informavano se mi serviva un riparo. Feci un cenno di diniego con la testa, mi voltai, attraversai il piccolo ci­mitero, calpestando una tomba dopo l’altra mentre mi addentra­vo tra le lapidi, e mi diressi verso il Village, spostandomi così in fretta che probabilmente non erano riusciti neanche a vedere i miei movimenti.

Provate a immaginare la scena. Vedono un giovanotto biondo con un blazer blu scuro doppiopetto e una sciarpa fiammeggian­te al collo, seduto al freddo sui gradini della bizzarra chiesetta. E poi la figura svanisce. Scoppiai in una fragorosa risata, apprez­zandone il suono mentre saliva lungo i muri di mattoni. Adesso ero vicino a una fonte di musica, gente che passeggiava tenendo­si a braccetto, voci umane, il profumo di cibo. C’erano molti giovani in giro, abbastanza sani per trovare qualcosa di divertente nel gelido inverno.

Il freddo aveva cominciato a infastidirmi. A rivelarsi quasi umanamente doloroso. Volevo andare al coperto.

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