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«Il vecchio capitano era un contrabbandiere, un collezionista. Ho passato diversi anni con lui. Mia madre mi aveva mandato ad Andover, poi mi aveva riportato a casa, perché non riusciva a vivere senza di me; frequentavo la scuola dei gesuiti e non mi senti­vo a mio agio con nessuno e in nessun posto; forse il vecchio ca­pitano rappresentava la persona ideale. La faccenda di Wynken de Wilde ebbe inizio col vecchio capitano e gli oggetti di anti­quariato che vendeva in giro per il quartiere, solitamente manu­fatti piccoli e maneggevoli. E voglio dirtelo subito: Wynken de Wilde non significa niente, assolutamente niente, se non il mio sogno di un tempo, un piano davvero perverso. Intendo dire che la mia passione di tutta una vita — a parte Dora — è stata Wynken de Wilde. Tuttavia, se dopo questa conversazione, tu non lo tro­verai interessante, nessuno lo farà. A Dora non interessa affat­to.»

«A cosa è legato questo Wynken de Wilde?»

«All’arte, naturalmente. Alla bellezza. A diciassette anni ela­borai il vago progetto di fondare una nuova religione, un culto: libero amore, fare carità ai poveri, non alzare la propria mano contro nessuno... Sai, una specie di comunità amish, dedita però alla fornicazione. Era il 1964, l’epoca dei figli dei fiori, della ma­rijuana, di Bob Dylan che cantava sempre di etica e carità, e io desideravo una nuova Devozione Moderna, in sintonia coi valori sessuali contemporanei. Sai qualcosa di questo movimento reli­gioso?»

«Sì, misticismo popolare, tardo Medioevo, la convinzione che chiunque potesse conoscere Dio.»

«Ah! È incredibile che tu lo sappia.»

«Non dovevi essere necessariamente un prete o un monaco, per riuscirci.»

«Esattamente. Per questo suscitò la gelosia dei monaci, ma quando ero ragazzo la mia concezione di questo fenomeno era resa più eccitante da Wynken che, come ben sapevo, era stato in­fluenzato dal misticismo tedesco e da tutti quei movimenti popolari, Meister Eckhart, eccetera, benché lavorasse nello scriptorium di un monastero e realizzasse ancora a mano libri di pre­ghiere in pergamena e di foggia antiquata. I suoi volumi erano completamente diversi da quelli di chiunque altro. Pensavo che, se fossi riuscito a ritrovarli tutti, sarei stato a cavallo.»

«Perché Wynken? Cosa lo rendeva tanto diverso?»

«Lascia che te lo spieghi a modo mio. Vedi, ecco come suc­cesse. La pensione era in cattivo stato ma elegante, conosci il ge­nere. Mia madre non si sporcava le mani, aveva tre cameriere e un vecchio di colore che si occupavano di tutto; i pensionanti go­devano d’ingenti rendite private, avevano limousine in garage sparsi per il Garden District, tre pasti al giorno, tappeto rosso. Conosci la casa. Fu Henry Howard a progettarla. Stile tardo vit­toriano. Mia madre l’aveva ereditata dalla madre.»

«La conosco, l’ho vista, ti ho visto fermarti lì davanti. Adesso a chi appartiene?»

«Non lo so. Me la sono lasciata sfuggire di mano. Ho rovina­to così tante cose... Ma cerca d’immaginare la scena: sonnolenti pomeriggi estivi, quindici anni appena e mi sentivo solo; il vecchio capitano m’invitava nel suo appartamentino e lì, nel secon­do salotto — aveva preso in affitto i due salottini sul davanti della casa —, viveva in una specie di Paese delle meraviglie fatto di og­getti da collezione, ottone cromato e roba simile...»

«Ho capito.»

«... sul tavolo c’erano questi volumi, volumi medievali! Minu­scoli libri di preghiere medievali. Naturalmente, sapevo ricono­scere un libro di preghiere quando ne vedevo uno, ma non un codice medievale, no; da bambino facevo il chierichetto, sono andato a messa ogni giorno per anni e anni con mia madre, cono­scevo il latino liturgico, com’era richiesto. Allora mi resi subito conto che quei libri erano religiosi e rari, e che il vecchio capita­no avrebbe inevitabilmente finito per venderli.

«‘Se stai attento, puoi toccarli, Roger’,mi diceva. Da due anni mi lasciava entrare ad ascoltare i suoi dischi di musica classica, e facevamo lunghe passeggiate insieme. Proprio allora, pur ignorandolo, stavo iniziando a diventare sessualmente interessante ai suoi occhi, ma ciò non ha nulla a che vedere con quello che devo dirti. Lui era al telefono e stava parlando di una nave attraccata nel porto. Dopo pochi minuti eravamo diretti verso la nave. Sali­vamo di continuo su queste imbarcazioni. Non sapevo mai cosa stessimo facendo. Doveva trattarsi di contrabbando. Tutto quel­lo che ricordo è il vecchio capitano seduto a un grande tavolo ro­tondo insieme coll’intero equipaggio, tutti marinai olandesi, cre­do, e un ufficiale gentile e dall’accento straniero molto marcato che mi faceva visitare la sala motori, la sala nautica e la sala radio. Non ne avevo mai abbastanza. Amavo le navi. A quei tempi i moli di New Orleans brulicavano di attività, erano pieni di topi e cime di canapa.»

«Lo so.»

«Ricordi quelle lunghe funi che andavano dalle navi al molo, ricordi che erano dotate di placche antitopo... dischetti di metal­lo su cui i ratti non potevano arrampicarsi?»

«Sì.»

«Quella sera tornammo a casa e, invece di andare a letto co­me avrei fatto normalmente, lo supplicai di lasciarmi entrare nel­le sue stanze per sfogliare quei libri. Dovevo assolutamente esaminarli prima che lui li vendesse. Mia madre non era in corri­doio, così immaginai che fosse andata a dormire. Lascia che ti descriva brevemente mia madre e la pensione. Ti ho già detto che era una casa elegante, vero? Puoi immaginare le suppellettili, pesante revival rinascimentale, fatte in serie, del genere che ave­va ingombrato le ville sin dal decennio 1880-90.»

«Capisco.»

«La casa aveva un’imponente e sinuosa scalinata posta davan­ti a una finestra di vetro istoriato e, ai suoi piedi, nella curva de­scritta da questo capolavoro di scala di cui Henry Howard dove­va essere stato straordinariamente orgoglioso — nella tromba del­le scale —, c’era l’enorme tavolino da toeletta di mia madre, e lei si sedeva lì, nell’atrio principale, a spazzolarsi i capelli! Il solo pensiero mi provoca l’emicrania. O almeno me la provocava quando ero vivo. Era uno spettacolo davvero tragico e lo sapevo, benché fossi cresciuto assistendovi quotidianamente; sapevo che un tavolino da toeletta con marmo e specchi e applique e decorazioni in filigrana e una donna anziana dai capelli scuri non sono adatti a un atrio formale...»

«E i pensionanti lo accettavano?» chiesi.

«Sì, perché la casa era stata accaparrata da questo e da quello, il vecchio signor Bridey che viveva in quella che un tempo era stata una veranda per i domestici, e la cieca signorina Stanton nell’angusta e opprimente stanzetta al piano di sopra! E quattro appartamenti ricavati dagli alloggi per i domestici sul retro. Io sono ipersensibile in fatto di disordine; intorno a me puoi trova­re un perfetto ordine oppure il trascurato guazzabuglio dell’ap­partamento in cui mi hai ucciso.»

«Me ne rendo conto.»

«Ma se dovessi abitare di nuovo in quel posto... Ah, non im­porta. Quello che sto cercando di spiegarti è che credo nell’ordi­ne e che da giovane lo sognavo perennemente. Volevo diventare un santo... be’,una specie di santo laico. Ma lasciami tornare ai libri.»

«Continua.»

«Mi gettai sui libri sacri posati sul tavolo. Ne estrassi uno dal suo sacchetto e rimasi incantato dalle minuscole illustrazioni. Quella notte esaminai i volumi a uno a uno, proponendomi di ri­farlo con più calma in un secondo tempo. Naturalmente il latino mi risultava illeggibile, in quella forma.»

«Troppo denso. Troppi tratti di penna.»

«Santo cielo, hai una cultura illimitata, vero?»

«Forse ci sorprendiamo a vicenda. Continua.»

«Passai una settimana a studiarli tutti. Marinavo continua­mente la scuola. Era così noiosa. Ero molto più avanti di chiun­que altro, e volevo fare qualcosa di eccitante, capisci, per esem­pio commettere un grave reato.»

«Un santo o un criminale.»

«Sì, suppongo che sembri una contraddizione. Eppure è una descrizione perfetta.»

«Lo immaginavo.»

«Il vecchio capitano mi spiegò qualcosa dei libri. Quello chiu­so nel sacchetto era un libro da fissare alla cintola: gli uomini por­tavano sempre con sé volumi del genere. E questo in particolare era un libro di preghiere, mentre un altro dei testi illustrati, il più grosso e spesso, era un Libro d’Ore, e poi c’era una Bibbia in lati­no, naturalmente. Lui ne parlava con assoluta nonchalance. Ero incredibilmente affascinato da quei libri, non saprei dirti perché. Avevo sempre desiderato di possedere oggetti scintillanti, dai co­lori accesi e preziosi, e in quel momento me ne trovavo davanti la versione più condensata e più rara che avessi mai visto.»

Sorrisi. «Sì, capisco benissimo.»

«Pagine piene di oro e di rosso, e minuscole figure davvero splendide. Presi una lente d’ingrandimento e cominciai a esami­nare attentamente le immagini. Andai nella vecchia biblioteca al Lee Circle — te la ricordi? — a studiare l’intera questione. Libri medievali, come li avevano realizzati i benedettini. Sai che Dora possiede un convento? Non è stato costruito esattamente in base al progetto architettonico di San Gallo, ma ne rappresenta l’e­quivalente ottocentesco.»

«Sì, l’ho visto e ho visto come ci vive Dora. È molto coraggio­sa, non si preoccupa del buio o della solitudine.»

«Crede nella divina provvidenza al punto di rasentare l’idio­zia, e può ottenere dei risultati nella vita se solo non viene di­strutta. Voglio un altro drink. So che sto raccontando in fretta, ma non posso fare altrimenti.»

Feci segno al barman di portare da bere. «Continua. Cos’è successo? Chi è Wynken de Wilde?»

«È l’autore di due dei preziosi libri che erano in possesso del vecchio capitano. Lo scoprii solo dopo alcuni mesi. Mentre stu­diavo le piccole illustrazioni, arrivai alla conclusione che due dei volumi erano stati realizzati dallo stesso artista e poi, benché il vecchio capitano insistesse con veemenza che non c’era nessuna firma, trovai il suo nome in diverse sezioni di entrambi. Ormai sai che il capitano vendeva oggetti di questo tipo, te l’ho già det­to; li smerciava tramite un negozio in Royal Street.»

Assentii.

«Be’,vivevo nel terrore che arrivasse il giorno in cui avrebbe dovuto vendere quei due libri! Non erano come gli altri. Prima di tutto le illustrazioni erano straordinariamente dettagliate. Una pagina poteva contenere un motivo di rampicanti, con fiori ai quali gli uccelli si abbeveravano, e tra i petali figure umane in­trecciate, come in un pergolato. C’erano anche raccolte di salmi. A una prima occhiata li si sarebbe giudicati salmi della Vulgata, sai, la versione latina della Bibbia fissata da san Gerolamo nel IV secolo e che noi abbiamo adottato come testo ufficiale.»

«Sì...»

«Ma non lo erano. Si trattava di salmi mai apparsi su nessuna Bibbia. Lo stabilii confrontandoli con altre ristampe latine dello stesso periodo che avevo preso in prestito dalla biblioteca. Quel­li nei due volumi di Wynken erano salmi originali. Inoltre, le illu­strazioni non contenevano solo minuscoli animali e alberi e frut­ta, ma anche persone nude, che ne facevano di tutti i colori!»

«Bosch.»

«Precisamente. Identico al Giardino delle delizie di Bosch, proprio quel tipo di paradiso, lussurioso e sensuale! Natural­mente, all’epoca non avevo ancora visto il dipinto di Bosch al Prado. Ma era tutto raffigurato in quei libri, in miniatura. Picco­le figure che si danno alla pazza gioia sotto gli alberi rigogliosi.

«Il vecchio capitano disse: ‘Iconografia tipica del giardino dell’Eden’,e sottolineò che era molto comune. Ma due libri pie­ni? No, era un caso particolare. Dovevo decifrare quei volumi, ottenere una traduzione perfettamente chiara di ogni parola. E allora il vecchio capitano fece per me la cosa più gentile che aves­se mai fatto, la cosa che avrebbe potuto trasformarmi in un gran­de leader religioso e che ancora potrebbe rendere tale Dora, benché il suo sia un credo totalmente diverso.»

«Ti regalò i libri.»

«Sì! Me li regalò. E ti dirò di più. Quell’estate mi portò in gi­ro per tutto il Paese a esaminare manoscritti medievali. Andam­mo alla Huntington Library di Pasadena e alla Newbury Library di Chicago. Andammo a New York. Avrebbe voluto accompa­gnarmi in Inghilterra, ma mia madre non lo permise. Vidi volumi medievali di ogni genere! E arrivai alla conclusione che quelli di Wynken erano diversi da qualunque altro. Erano blasfemi e pro­fani. E nessuno, in nessuna di quelle biblioteche, aveva un libro di Wynken de Wilde, anche se il suo nome era conosciuto! Il ca­pitano mi lasciò tenere i volumi! E io cominciai subito a tradurli. Il vecchio morì nella stanza sul davanti della casa, durante la pri­ma settimana del mio ultimo anno di liceo. Non iniziai nemmeno la scuola finché non venne sepolto. Mi rifiutai di lasciarlo. Rimasi seduto accanto a lui. Scivolò nel coma. Dopo tre giorni non avre­sti saputo dire chi fosse, tanto il suo viso era cambiato. Non chiu­se più gli occhi e non sapeva che erano aperti, e la sua bocca era solo un ovale allentato e il suo respiro una serie di rantoli regola­ri. Rimasi seduto là. Te l’ho già detto.»

«Ti credo.»

«Sì, be’,avevo diciassette anni, mia madre era molto malata, non c’erano soldi per il college, cosa di cui stavano parlando tutti gli altri maturandi alla scuola dei gesuiti, e io stavo sognando di figli dei fiori nel quartiere californiano di Haight Ashbury, ascol­tando le canzoni di Joan Baez e progettando di andare a San Francisco col messaggio di Wynken de Wilde per fondare una setta. Ecco cosa sapevo all’epoca, grazie alla traduzione. E in questo ero stato aiutato per un certo periodo da un vecchio prete della scuola dei gesuiti, uno di quei brillanti latinisti che devono passare metà della loro giornata a imporre la disciplina ai ragaz­zi. Era stato più che felice di tradurmi i libri; naturalmente, ciò richiedeva l’impegno della mia vicinanza e intimità, la possibilità che lui e io restassimo soli e fianco a fianco per ore.»

«Quindi ti stavi vendendo di nuovo, ancor prima che il vec­chio capitano morisse?»

«No. Non proprio. Non nel modo che pensi. Be’,più o meno. Solo che questo prete era davvero dedito all’astinenza; irlandese, un tipo di prete quasi incomprensibile ai giorni nostri. Quelli co­me lui non facevano mai niente a nessuno. Dubito addirittura che si masturbassero. Si limitavano a restare vicino ai ragazzi e ogni tanto a respirare affannosamente o roba simile. Oggigiorno la vita religiosa non attrae quel particolare tipo d’individuo vigo­roso e totalmente represso. Un uomo del genere sarebbe incapa­ce di molestare un bambino proprio come sarebbe incapace di salire sull’altare durante la messa e cominciare a urlare.»

«Non sapeva di essere attratto da te, non si rendeva conto di concederti privilegi speciali.»

«Precisamente, e così passava ore e ore con me a tradurre Wynken. Fu lui a impedirmi d’impazzire. Passava sempre a tro­vare il vecchio capitano. Se quest’ultimo fosse stato cattolico, padre Kevin gli avrebbe dato l’estrema unzione. Cerca di capire, ti prego. Non puoi giudicare uomini come il vecchio capitano e pa­dre Kevin.»

«No. E neanche ragazzi come te.»

«Inoltre, quell’ultimo anno mia madre aveva un nuovo fidan­zato davvero disastroso, un falso gentiluomo molto melenso, uno di quei tipi che parlano bene, hanno occhi brillanti, ma sono marci dentro e provengono da un background per nulla convin­cente. C’erano troppe rughe sul suo viso giovanile; sembravano crepe. Fumava sigarette du Maurier. Credo progettasse di sposa­re mia madre per accaparrarsi la casa. Mi segui?»

«Sì. Quindi, dopo la morte del vecchio capitano, ti restava so­lo il prete.»

«Esatto. Ora sì che hai capito. Padre Kevin e io lavoravamo spesso nella pensione, gli piaceva. Arrivava in macchina, par­cheggiava in Philip Street e faceva il giro, poi salivamo nella mia stanza. Secondo piano, la camera sul davanti. Godevo di una perfetta visuale sulle parate del Mardi Gras. Sono cresciuto rite­nendo del tutto normale che, ogni anno, un’intera città impazzis­se per due settimane. Comunque, salimmo lassù durante una delle parate notturne, ignorandola come può fare chi è nato a New Orleans, sai, dopo che hai visto abbastanza carri di cartape­sta e gingilli e fiaccole...»

«Orribili fiaccole sgargianti.»

«Sì, davvero.» S’interruppe. Il drink era arrivato e lui lo stava fissando.

«Cosa c’è? Guardami, Roger. Non cominciare a svanire, con­tinua a parlare. Cos’ha rivelato la traduzione dei libri? Erano pro­fani? Roger, dimmi qualcosa!» Ero allarmato perché lo era lui.

Lui mise fine alla sua glaciale e assorta immobilità. Sollevò il drink e ne tracannò metà. «Disgustoso, eppure lo adoro. Il Southern Comfort è stato il primo liquore che ho bevuto da ragazzo.» Mi guardò dritto negli occhi. «Non sto svanendo», mi assicurò poi. «È solo che ho rivisto la casa e ne ho risentito l’o­dore. Capisci? L’odore tipico delle stanze dei vecchi, quelle in cui la gente muore. Eppure era così gradevole. Cosa stavo dicen­do? Ah, sì, fu durante la Proteus, una delle parate notturne, che padre Kevin fece l’incredibile e decisiva scoperta che entrambi quei libri erano stati dedicati da Wynken de Wilde a Blanche de Wilde, la sua mecenate, moglie del buon fratello di Wynken, Damien. Tutto ciò si deduceva dai disegni nelle prime pagine. E questo gettava una luce completamente nuova sui salmi. Erano pieni d’inviti lascivi e proposte, e forse, addirittura, di codici se­greti riguardanti convegni clandestini. Comparivano più e più volte raffigurazioni dello stesso piccolo giardino... ricorda che stiamo parlando di miniature...»

«Ne ho visti parecchi esemplari.»

«E in queste minuscole rappresentazioni del giardino c’erano sempre un uomo nudo e cinque donne che danzavano intorno a una fontana all’interno delle mura di un castello medievale, o almeno così sembrava. Ingrandito di cinque volte, era semplice­mente perfetto. E padre Kevin cominciò a ridere e a ridere. ‘Non mi stupisce che non ci sia un solo santo o una sola scena biblica in tutto il libro! Il tuo Wynken de Wilde era un eretico convinto! Uno stregone o un satanista. Ed era innamorato di questa donna, Blanche’,dichiarò, ridendo. Non sembrava tanto scioccato, quanto divertito. ‘Sai, Roger, se tu contattassi una casa d’aste, molto probabilmente il ricavato della vendita di questi libri ti permetterebbe di frequentare l’università di Loyola o quella di Tulane. Non pensare neanche di venderli da queste parti; prendi piuttosto in considerazione New York: la Butterfield & Butterfield, oppure Sotheby’s’,mi consigliò. Negli ultimi due anni ave­va ricopiato a mano, per me, circa trentacinque diverse composi­zioni, traducendole direttamente in inglese, secondo la tecnica più efficace — la poesia latina volta in prosa, chiara e semplice —, e finalmente li esaminammo, seguendo le tracce di ripetizioni e metafore. Ben presto cominciò a emergere una storia. La prima cosa che capimmo fu che in origine i libri erano stati parecchi e quelli in nostro possesso erano il primo e il terzo. Nel terzo or­mai i salmi non riflettevano soltanto la mera adorazione per Blanche, ripetutamente paragonata alla Vergine Maria per la sua purezza e luminosità, ma rappresentavano anche le risposte di uno scambio epistolare imperniato su quanto la signora stava soffrendo per opera del marito. Era davvero geniale. Devi asso­lutamente leggerlo. Devi tornare nell’appartamento in cui mi hai ucciso e prendere quei libri.»

«Quindi non li hai venduti per frequentare Loyola o Tulane?»

«Certo che no. Wynken che partecipava a orge con Blanche e le sue quattro amiche! Ero affascinato. Wynken era il mio santo in virtù del suo talento, e la sessualità divenne la mia religione perché era stata anche la sua, e in ogni parola filosofica che scri­veva lui inseriva in codice l’amore carnale! Devi sapere che in realtà non ho mai creduto in nessuna dottrina religiosa, né allora né in seguito. Pensavo che la Chiesa cattolica stesse ormai mo­rendo e che il protestantesimo fosse una farsa. Trascorsero anni prima che capissi che l’approccio protestante è fondamental­mente mistico, che aspira alla totale unità con Dio che Meister Eckhart avrebbe lodato e di cui Wynken scriveva.»

«Ti stai dimostrando molto generoso con l’approccio prote­stante. E Wynken scrisse davvero dell’unità con Dio?»

«Sì, tramite l’unione carnale con le donne! Lo diceva con cautela ma in modo chiaro: ‘Fra le tue braccia ho conosciuto la Trinità in modo più veritiero di quanto gli uomini possano inse­gnare’,cose del genere. Oh, questa era la nuova via, ne ero sicu­ro. Tuttavia all’epoca conoscevo il protestantesimo unicamente come materialismo, sterilità e turisti di fede battista che si ubria­cavano a Bourbon Street perché non osavano farlo nelle proprie città natali.»

«Quando hai cambiato idea?» chiesi.

«Sto facendo considerazioni di carattere molto generale. Vo­glio dire che non vedevo speranze per le religioni che esistevano in Occidente nella nostra epoca. Dora è quasi dello stesso avviso, ma di lei parleremo fra poco.»

«Finiste la traduzione?»

«Sì, appena prima che padre Kevin venisse trasferito. Non lo rividi mai più. In seguito mi scrisse, ma ero già scappato di casa e mi trovavo a San Francisco. Me n’ero andato senza la benedizio­ne di mia madre e avevo preso il Trailways Bus perché costava qualche cent in meno del Greyhound. Avevo in tasca meno di settantacinque dollari; avevo sperperato tutto ciò che il capitano mi aveva dato. E quando lui morì, con quanta accuratezza ripuli­rono quelle stanze i suoi parenti arrivati da Jackson, nel Mississippi! Presero tutto. Sono sempre stato convinto che il capitano mi avesse lasciato qualcosa, sai. Ma non m’importava, perché i li­bri rappresentavano il suo dono più grande, insieme con tutti quei pranzi al Monteleone Hotel, quando prendevamo insieme la zuppa con baccelli d’ibisco e lui mi ci lasciava spezzettare tutti i miei cracker salati finché non diventava un porridge. Una cosa che adoravo... Che stavo dicendo? Presi un biglietto per la California e misi da parte un gruzzoletto per comprare torta e caffè a ogni fermata. Successe una cosa buffa. Arrivai a un punto di non ritorno. Voglio dire che, quando attraversammo una certa cittadina del Texas, mi resi conto di non avere abbastanza soldi per tornare a casa, anche se avessi voluto farlo. Era notte fonda. Penso che la città fosse El Paso. Comunque sia, in quel momento capii che non potevo tornare indietro. Io però ero diretto a San Francisco, al quartiere di Haight Ashbury: là avrei fondato un culto basato sugli insegnamenti di Wynken, lodando l’amore e sostenendo che l’unione carnale era un’unione divina; inoltre avrei mostrato i suoi libri ai miei seguaci. Era questo il mio sogno benché, a dire il vero, non provassi assolutamente niente nei confronti di Dio. Nel giro di tre mesi scoprii che il mio credo non era poi così originale. L’intera città era piena di hippy che credevano nel libero amore e nell’accattonaggio e, anche se tene­vo conferenze su Wynken davanti a larghe cerehie informali di amici, richiamando l’attenzione sui libri e recitando i salmi... in una versione molto edulcorata, naturalmente...»

«Lo immagino», commentai.

«... la mia principale attività era quella di manager di tre mu­sicisti rock che volevano diventare famosi ma erano troppo fatti per ricordare le date degli ingaggi o incassare il ricavato all’usci­ta. Uno di loro, lo chiamavano Blue, cantava davvero bene; ave­va una voce tenorile e una notevole estensione vocale. La band aveva un sound originale. O almeno così credevamo. La lettera di padre Kevin mi fu recapitata mentre vivevo nella soffitta della Spreckles Mansion nel Buena Vista Park. Conosci quell’edifi­cio?»

«Sì. È diventato un albergo.»

«Precisamente, ma all’epoca era una casa privata e l’ultimo piano era costituito da una sala da ballo con bagno e cucinotto. Mancavano ancora parecchi anni alle prime ristrutturazioni. Nessuno aveva ancora inventato il bed and breakfast, e io mi limi­tai a prendere in affitto la sala da ballo: i musicisti suonavano lì, usavamo tutti il bagno e la cucina sudici e, durante il giorno, mentre loro dormivano sparpagliati sul pavimento, io sognavo di Wynken e mi chiedevo come avrei fatto a scoprire qualche altra informazione su di lui e cosa fossero queste poesie d’amore. Continuavo a fantasticare su quest’uomo. E quella soffitta... Solo adesso mi pongo alcune domande al riguardo. Aveva finestre af­facciate su tre diversi punti cardinali, dotate di alti divanetti con cuscini di velluto vecchi e malconci. Potevi ammirare San Francisco in ogni direzione tranne l’est, se ben ricordo, ma non ho un senso dell’orientamento molto sviluppato. Ci piaceva sederci in queste alcove nel vano delle finestre a chiacchierare per ore. Ai miei amici piaceva sentir parlare di Wynken. Avevamo intenzio­ne di scrivere canzoni ispirate alle sue poesie. Be’,non successe mai.»

«Wynken divenne la tua ossessione.»

«Proprio così. Lestat, devi tornare a prendere i miei libri, a prescindere da ciò che penserai di me quando avremo finito di parlare. Si trovano tutti nell’appartamento. Ogni volume che Wynken abbia mai realizzato. Rintracciarli per me è stato l’impe­gno di tutta una vita. Ho cominciato a spacciare droga per quei libri. Persino a Haight. Ma ti stavo raccontando di padre Kevin. Mi scrisse una lettera, dicendo di aver trovato il nome Wynken de Wilde in alcuni manoscritti e di aver scoperto che era il capo di una setta eretica e che era stato giustiziato. Aveva fondato una religione di sole adepte e le sue opere vennero ufficialmente con­dannate dalla Chiesa. Padre Kevin disse anche che tutto questo era ‘storia’ e che dovevo vendere i libri; mi avrebbe scritto di nuovo per comunicarmi ulteriori notizie. Non lo fece mai. E due mesi dopo io commisi un omicidio plurimo, spinto unicamente da un impulso, e questo cambiò il corso degli eventi.»

«A causa della droga che stavi spacciando?»

«In un certo senso, solo che non fui io a commettere l’errore. Blue spacciava più di me. Si portava in giro l’erba chiusa in vali­gie. Io trattavo solo in sacchetti, capisci, ne ricavavo tanto quan­to mi fruttava la band. Ma Blue la smerciava a chili e ne perse due. Nessuno sapeva dove fossero finiti. Immaginavamo che li avesse dimenticati su un taxi, ma non lo scoprimmo mai. All’e­poca, in giro c’era un sacco di ragazzi cretini. Cominciavano a spacciare senza rendersi conto che i fornitori erano delinquenti crudeli che non ci pensavano due volte prima di sparare in testa a qualcuno. Blue credeva di potersi trarre d’impiccio con la sua parlantina, si sarebbe inventato una scusa plausibile, avrebbe detto di essere stato derubato da alcuni amici, o roba del genere. I suoi contatti si fidavano di lui, diceva, gli avevano persino dato una pistola. La pistola era nel cassetto della cucina e loro gli ave­vano detto che forse prima o poi avrebbe dovuto usarla, ma di si­curo lui non l’avrebbe mai fatto. Probabilmente, quando sei fat­to pensi che anche tutti gli altri lo siano. Questi tizi erano perso­ne come noi, sosteneva, non c’era motivo di preoccuparsi, parla­vano tanto per parlare. Molto presto saremmo diventati tutti fa­mosi come Big Brother e la Holding Company e Janis Joplin. Vennero a cercarlo di giorno. Io ero l’unico che in quel momento si trovasse in casa, a parte lui. Blue era nella stanza grande, nella sala da ballo, fermo accanto alla porta d’ingresso a fornire una spiegazione evasiva a quei due tizi. Io mi trovavo in cucina, dove non potevano vedermi, e lo stavo a malapena ascoltando. Forse stavo studiando Wynken, non ne sono sicuro. Comunque, a po­co a poco mi resi conto di che cosa stavano parlando, là nella sala da ballo. Quei due avevano intenzione di uccidere Blue. Conti­nuavano a dirgli in tono piatto che era tutto a posto e lo sollecita­vano ad andare con loro, avanti, dovevano uscire e, no, lui dove­va seguirli subito e, no, doveva sbrigarsi. E poi uno di loro, scan­dendo le parole, disse in tono sommesso, crudele: ‘Avanti, ami­co!’ E per la prima volta Blue smise di blaterare le sue banalità da hippy, del tipo: ‘si sistemerà tutto, amico’,e ‘non ho fatto niente di male, amico’,e ci fu una pausa di silenzio. Capii che stavano per prendere Blue, sparargli e sbarazzarsi del cadavere. Era già successo ad altri ragazzi! Ne avevano parlato i giornali. Mi sentii rizzate i capelli. Seppi che Blue non aveva scampo e agii senza riflettere. Travolto da una scarica di adrenalina, mi dimen­ticai della pistola nel cassetto della cucina. Entrai nella sala da ballo. I due uomini erano più vecchi di noi, con l’aria da duri, non da hippy, non avevano proprio niente di hippy. Non erano nemmeno Hell’s Angels. Erano semplicemente dei killer. En­trambi sembrarono contrariati quando si resero conto che qual­cosa ostacolava il loro piano di trascinare il mio amico fuori di lì. Ora, mi conosci, sai che sono vanitoso come te, all’epoca poi ero davvero convinto di avere una natura e un destino speciali; mi avvicinai a quei due sprizzando scintille, camminando come se stessi ballando. Pensavo che se Blue poteva morire, allora potevo morire anch’io. E all’epoca non potevo permettere che una cosa del genere succedesse a me, capisci?»

«Sì.»

«Cominciai a parlare a quei brutti ceffi in modo concitato, chiacchierando in maniera pretenziosa, come se fossi stato un fi­losofo psichedelico, sparando paroloni e continuando ad avvici­narmi a loro, arringandoli sulla violenza e insinuando che aveva­no disturbato me e ‘tutti gli altri’ in cucina; che eravamo nel bel mezzo di una lezione, io e gli altri. E all’improvviso uno di loro infilò una mano all’interno del cappotto ed estrasse la pistola. Se­condo me, si aspettava un lavoretto facile e pulito. Lo ricordo così distintamente. Sfoderò la pistola e me la puntò contro. Pri­ma che riuscisse a prendere la mira, afferrai l’arma con entrambe le mani e gliela strappai, sferrandogli poi un calcio con tutta la mia forza; infine sparai, e uccisi lui e il suo compagno.» Roger s’interruppe.

Non dissi niente; ero tentato di sorridere, la storia mi piaceva, ma mi limitai ad annuire. Naturale che fosse cominciata in quel modo, per lui, perché non me n’ero reso conto? Non era stato istintivamente un assassino; in caso contrario, non sarebbe mai risultato così interessante.

«Nel giro di un secondo diventai un killer, nel giro di un solo secondo. E un vero asso, per di più, immagina.» Ordinò un altro drink e distolse lo sguardo, immerso nei ricordi. Adesso sembra­va ben ancorato al corpo spettrale, su di giri come un motore.

«Poi cos’hai fatto?» chiesi.

«Be’,è stato allora che il corso della mia vita è cambiato. All’i­nizio volevo costituirmi, volevo chiamare il prete, andare all’in­ferno, telefonare a mia madre... La mia vita era finita: chiamare padre Kevin; buttare l’erba giù per lo scarico; una vita distrutta; chiamare a squarciagola i vicini, tutto questo. Invece mi limitai a chiudere la porta, e Blue e io ci sedemmo, a parlare per circa un’ora. A dire il vero, Blue non disse niente. Parlai io. E intanto pregavo che fuori non ci fosse nessuno seduto in macchina ad aspettare quei due; tuttavia, se avessero bussato alla porta, sarei stato pronto perché adesso avevo la loro pistola, piena di proiet­tili, ed ero seduto proprio di fronte alla porta. E mentre parlavo e aspettavo, restavo all’erta e lasciavo i due cadaveri stesi lì, e in­tanto Blue si limitava a fissare il vuoto come se l’intera faccenda fosse solo un brutto viaggio da LSD, mi convinsi che la cosa mi­gliore era andarmene rapidamente via di lì. Perché mai avrei do­vuto finire in prigione per il resto della vita a causa di quei due? Mi occorse circa un’ora di ragionamenti logici espressi ad alta voce.»

«Giusto.»

«Ripulimmo l’appartamento, prendemmo tutto ciò che ci ap­parteneva, chiamammo gli altri due musicisti esortandoli a ritira­re le loro cose dalla stazione degli autobus. Dissi che era immi­nente una retata dell’antidroga. Non scoprirono mai cosa fosse successo in realtà. Il posto era talmente pieno di impronte digita­li, lasciate durante tutti i nostri party e orge e jam session in piena notte che nessuno ci avrebbe mai trovato. A nessuno di noi era­no mai state prese le impronte. Inoltre, conservai la pistola. E fe­ci anche un’altra cosa, presi il denaro dei due uomini. Blue non volle saperne, ma a me servivano dei verdoni per andarmene da lì. Ci dividemmo. Non rividi mai più Blue. Non rividi mai più nemmeno Ollie o Ted, gli altri due. Credo che siano andati a L.A. per sfondare. Immagino che Blue sia diventato un tossico. Non ne sono sicuro. Io andai per la mia strada e, dall’attimo in cui successe, fui un uomo completamente diverso. Non sono più stato lo stesso.»

«Cosa ti rese diverso? Quale fu la fonte del tuo cambiamento, cioè che cosa lo provocò, di preciso? Il fatto che ti fosse piaciu­to?» chiesi.

«No, niente affatto. Non fu affatto divertente. Fu un succes­so, ma non divertente. Non l’ho mai trovato tale. È un lavoro, uccidere la gente, ed è un vero casino. È un lavoro difficile. Per te è divertente uccidere, ma tu non sei umano. No, non si tratta­va di questo, piuttosto del fatto che fosse stato possibile farlo, av­vicinarsi a quel figlio di puttana e compiere il gesto più inaspetta­to, strappargli la pistola in quel modo — perché era l’ultima cosa al mondo che lui potesse prevedere — e poi ucciderli entrambi, senza esitare. Devono essere morti in preda allo stupore.»

«Vi giudicavano dei ragazzini.»

«Ci giudicavano dei sognatori! E io lo ero: durante tutto il viaggio verso New York continuai a pensare che ero destinato a grandi cose, che sarei diventato famoso, e quel potere, il potere di uccidere così agevolmente due persone, aveva rappresentato l’epifania della mia forza!»

«Arrivava da Dio, questa epifania.»

«No, dal fato, dal destino. Ti ho già detto che non ho mai provato niente nei confronti di Dio. Sai che la Chiesa cattolica dice che, se non provi devozione per la santa Vergine Maria, be’,allora devi temere per la tua anima. Io non ho mai sentito nessu­na devozione per lei. Né per altra divinità o santo reali. Non l’ho mai sentita. Ecco perché, dell’evoluzione di Dora, mi ha stupito soprattutto la sua totale sincerità. Ma ne parleremo fra poco. Quando arrivai a New York, sapevo che il mio culto doveva ap­partenere a questo mondo, capisci: schiere di seguaci, potere, comfort e la licenziosità di questo mondo.»

«Sì, capisco.»

«Quella era stata la visione di Wynken. Era questo che lui aveva comunicato alle sue adepte, e cioè che non aveva senso aspettare di giungere nell’altro mondo. Dovevi fare tutto subito, commettere qualunque tipo di peccato... Questo era un concetto molto diffuso tra gli eretici, vero?»

«Sì, tra alcuni di loro. O almeno così sostenevano i loro nemi­ci.»

«Compii l’omicidio successivo per motivi meramente econo­mici. Fu un lavoro su commissione. Ero il ragazzo più ambizioso della città. Ero diventato manager di un’altra band, un gruppet­to di buoni a nulla, e non stavamo riscuotendo successo, benché altre rockstar sfondassero un giorno sì e uno no. Avevo ripreso a spacciare, e mi stavo dimostrando davvero abile, anche se co­minciavo a trovare disgustosa la droga. Si era davvero agli albori, quando la gente portava l’erba al di là della frontiera con piccoli aerei, e sembravano quasi avventure da cowboy. Si sparse la voce che un certo tizio figurava sul libro nero di un intermediario lo­cale, disposto a pagare trentamila dollari a chiunque lo eliminas­se. L’uomo era particolarmente crudele e temuto da tutti. Sapeva che volevano ucciderlo. Se ne andava in giro in pieno giorno e tutti erano troppo spaventati per agire. Secondo me, ognuno si aspettava che lo facesse qualcun altro. Non sapevo a cosa e a chi questa gente fosse collegata, sapevo solo che il tizio rappresenta­va un bersaglio, capisci? Me ne accertai. Escogitai uno strata­gemma per eliminarlo. All’epoca avevo diciannove anni. Mi ve­stii da studente universitario, con maglione a girocollo, blazer, pantaloni di flanella, e mi feci tagliare i capelli in stile Princeton; quindi m’infilai qualche libro sotto braccio. Scoprii dove viveva l’uomo a Long Island, e una sera mi avvicinai a lui mentre scen­deva dalla macchina sul vialetto posteriore della sua abitazione. Lo feci secco a un metro e mezzo da casa, dove sua moglie e i suoi figli stavano cenando.» S’interruppe di nuovo, poi aggiunse con assoluta serietà: «Solo un particolare tipo di animale può compiere un’azione tanto crudele. Senza provare rimorso».

«Non l’hai torturato come io ho torturato te. Sei pienamente consapevole di tutto ciò che hai fatto, vero? Cerca di capire! Non sono riuscito a intravedere il quadro generale, mentre ti se­guivo. T’immaginavo più intimamente perverso, del tutto assor­bito dal tuo stesso fascino romantico. Un maestro nell’arte dell’autoinganno», dissi in tono sommesso.

«Rappresentava una tortura ciò che mi hai fatto?» domandò. «Non ricordo di aver provato dolore, bensì solo rabbia perché stavo per morire. Comunque sia, uccisi l’uomo di Long Island per denaro. La cosa non significò niente per me. Non provai nemmeno sollievo, dopo, unicamente una vaga sensazione di forza, capisci, di soddisfazione; e volevo mettermi di nuovo alla prova, presto, e lo feci.»

«Ormai eri lanciatissimo.»

«Eccome. E con uno stile tutto mio, per di più. Si era sparsa la voce. Se l’impresa sembra impossibile, rivolgiti a Roger. Pote­vo introdurmi in un ospedale travestito da giovane medico, con una targhetta col nome appuntata sul camice e un blocco a molla in mano, e sparare alla vittima predestinata stesa nel suo letto prima che qualcuno si rendesse conto dell’accaduto. E lo feci davvero. Ma, sai, non mi arricchii con l’attività di sicario. Prima fu l’eroina, poi la cocaina, e nel campo della cocaina si stava tor­nando ad alcuni dei cowboy che avevo conosciuto all’inizio, che la portavano oltre confine nello stesso modo, seguendo le stesse rotte, usando gli stessi aerei! Conosci la storia. Oggi tutti la co­noscono. I primi contrabbandieri di droga erano piuttosto rozzi, quanto a metodi. Giocavano a guardie e ladri coi tizi del gover­no. Gli aerei superavano in velocità quelli governativi e, talvolta, quando atterravano erano a tal punto strapieni di cocaina che il pilota non riusciva a districarsi e a uscire dall’abitacolo, e noi correvamo a prendere la roba, la caricavamo sui veicoli e taglia­vamo la corda.»

«Ne ho sentito parlare.»

«Adesso ci sono veri geni nel settore, gente che sa usare alla perfezione telefoni cellulari e computer, che conosce tecniche di riciclaggio del denaro sporco quali nessuno può individuare. Ma a quei tempi come andavano le cose? Ero io il genio degli spac­ciatori! A volte l’intera faccenda era scomoda come spostare mo­bili, te lo dico io. E io entrai nel settore, organizzando, sceglien­do i miei confidenti e i miei galoppini, capisci, per varcare le frontiere; e persino prima che la cocaina venisse spacciata per le strade, stavo facendo affari d’oro a New York e a L.A. coi ricchi, sai, il genere di clienti cui consegni personalmente la merce. Non dovevano nemmeno lasciare le loro principesche ville. Tu ricevi la telefonata; vai da loro. La tua roba è pura e loro ti apprezzano. Ma dovevo passare ad altro. Non volevo dipendere da quell’atti­vità. Ero troppo furbo. Conclusi alcuni affari in campo immobi­liare che rappresentarono veri e propri colpi di genio; avevo il vantaggio di disporre di contanti, e sai che all’epoca l’inflazione era galoppante. Guadagnai una montagna di soldi.»

«Ma come s’inserì Terry in tutto questo? E Dora?»

«Pura coincidenza. Chissà. Tornai a New Orleans per vedere mia madre, scopai Terry e la misi incinta. Fottuto idiota. Avevo ventidue anni, e ormai mia madre era davvero moribonda. Mi disse: ‘Roger, ti prego, torna a casa’. Il suo stupido boyfriend con la faccia piena di crepe era morto. Era sola. Le avevo sempre mandato un sacco di soldi. Adesso la pensione era diventata la sua residenza privata, lei aveva due cameriere e un autista che la portava in giro per la città con una Cadillac ogni volta che lo de­siderava. Si era divertita molto, senza mai fare domande sul mio denaro, e, naturalmente, io continuavo a collezionare i libri di Wynken. A quel punto ne possedevo altri due e avevo già il mio deposito di tesori a New York, ma di questo possiamo parlare in seguito. Per il momento lascia Wynken in un angolino della tua mente. Mia madre non mi aveva mai chiesto davvero niente. Adesso aveva tutta per sé la grande camera al piano di sopra. Mi raccontò che parlava con tutti gli altri che se n’erano andati: il suo povero vecchio fratello defunto, Mickey; la sorella morta, Alice; e sua madre, la cameriera irlandese — la si potrebbe defini­re la capostipite della nostra famiglia — che aveva ereditato la ca­sa dalla nobile pazza che ci viveva. Mia madre parlava parecchio anche col piccolo Richard, un fratello morto di tetano a soli quattro anni. Il piccolo Richard. Diceva che il bambino passeg­giava con lei, spiegandole che era arrivato il momento di rag­giungerlo. Voleva che io tornassi a casa. Mi voleva in quella stan­za. Lo sapevo e capivo benissimo. Lei aveva assistito i pensionan­ti in punto di morte. Io ne avevo assistiti altri, oltre al vecchio ca­pitano. Così tornai a casa. Nessuno sapeva dove fossi diretto, quale fosse il mio vero nome o da dove venissi. Quindi per me fu facile sgattaiolare via da New York. Raggiunsi la casa di St. Char­les Avenue e rimasi seduto con lei nella stanza da ammalata, te­nendole accanto al viso la bacinella per il vomito, asciugandole la saliva e cercando di metterla sulla padella quando l’agenzia non poteva mandarci un’infermiera. Avevamo qualcuno in grado di aiutarci, sì, ma lei non voleva essere aiutata, capisci. Non voleva la ragazza di colore, come la chiamava, o l’orribile infermiera dell’agenzia. E io feci una scoperta sorprendente: quelle incom­benze non mi disgustavano poi tanto. Lavai innumerevoli len­zuola. Naturalmente, c’era una lavatrice in cui infilarle, ma conti­nuavo a cambiarle per lei. Non mi dispiaceva. Forse non sono mai stato normale. Comunque sia, feci solo ciò che andava fatto. Sciacquai quella padella un migliaio di volte, la asciugavo, la co­spargevo di talco e la posavo accanto al letto. Dopotutto, non esiste tanfo che duri in eterno.»

«Non su questa terra, almeno», mormorai. Ma lui non mi sentì, grazie a Dio.

«Andò avanti così per due settimane. Lei non voleva andare al Mercy Hospital. Ingaggiai delle infermiere per una copertura ventiquattr’ore su ventiquattro, tanto per avere un sostegno, sai, in modo che potessero misurarle pressione e battito cardiaco quando io mi spaventavo. Le facevo ascoltare della musica. Tutte le cose di prammatica: recitavo il rosario ad alta voce insieme con lei; la solita scena da letto di morte. Dalle due alle quattro del pomeriggio lei tollerava la presenza dei visitatori. Venivano dei vecchi cugini. ‘Dov’è Roger?’ chiedevano e io me ne stavo nascosto.»

«Non eri dilaniato dalle sue sofferenze.»

«Non ne andavo certo pazzo, questo posso dirlo. Il tumore le si era propagato in tutto il corpo e nessuna somma di denaro avrebbe potuto salvarla. Volevo che si sbrigasse e non sopporta­vo di assistere alla sua agonia, ma nel mio carattere c’è sempre stato un intimo lato tiranno che dice: ‘fa’ quello che devi fare’. E rimasi in quella stanza, senza dormire, un giorno dopo l’altro, e tutte le notti finché lei non morì. Parlava spesso coi fantasmi, ma io non li vedevo né li sentivo. Mi limitavo a ripetere senza sosta: ‘Piccolo Richard, vieni a prenderla. Zio Mickey, se non riesce a tornare da sola, vieni a prenderla’. Ma prima della fine arrivò Terry, un’infermiera praticante, come le chiamavano a quei tempi, che doveva fungere da sostituta quando non riuscivamo a trovare infermiere diplomate, che erano molto richieste. Terry: un metro e settanta, bionda, il bocconcino più dozzinale e appetitoso su cui io abbia mai posato gli occhi. Cerca di capire. Fu uno di quei casi in cui tutto s’incastra alla perfezione. La ragazza rap­presentava uno splendido esempio di volgarità.»

Sorrisi. «Unghie rosa e rossetto lucido rosa.» L’avevo vista sfavillare nella sua mente.

«Non le mancava niente. Il chewing-gum, la catenella d’oro alla caviglia, le unghie dei piedi laccate e il modo in cui, per far­mele vedere, si sfilava le scarpe, proprio lì nella stanza dell’ammalata, l’incavo tra i seni chiaramente visibile, sai, sotto l’unifor­me di nylon bianca. E i suoi occhi dalle palpebre pesanti, magni­ficamente truccati con l’apposita matita e il mascara Maybelline. Si limava le unghie là dentro, di fronte a me! Ma voglio dirti una cosa, non ho mai visto niente che fosse così perfettamente com­piuto, rifinito, ah, ah... Che posso dire? Era un capolavoro.»

Scoppiai a ridere.

Lui m’imitò, ma poi riprese a parlare. «La trovavo irresistibi­le. Era un animaletto senza peli. Cominciai a scoparla ogni volta che potevo. Mentre mamma dormiva, lo facevamo in piedi nel bagno. Una volta o due ci chiudemmo in una delle camere vuote, più giù lungo il corridoio; non impiegavamo mai più di venti mi­nuti! Lo cronometravo! Lei lo faceva con le mutandine rosa abbassate fino alle caviglie! Sapeva di profumo Blue Waltz.»

Proruppi in una risata. «Capisco benissimo cosa vuoi dire. E pensare che lo sapevi; ti sei invaghito di lei pur sapendolo», di­chiarai in tono meditabondo.

«Be’,distavo più di tremila chilometri dalle mie donne di New York, dai miei aiutanti e da tutto il resto, lo spregevole po­tere che accompagna lo spaccio di droga, sai, la stupidità di guar­die del corpo che si precipitano ad aprirti la porta e ragazze che sul sedile posteriore della limousine dicono di amarti solo perché hanno appena saputo che la notte precedente hai fatto secco qualcuno. E così tanto sesso che a volte, nel bel mezzo del mi­glior pompino che ti abbiano mai fatto, non riesci più a concen­trarti.»

«Siamo più simili di quanto io abbia mai sognato. Ho vissuto una menzogna coi doni a me concessi.»

«Cosa intendi dire?» chiese.

«Non c’è tempo. Non hai alcun bisogno di sapere qualcosa di me. Cosa mi dici di Terry? Com’è nata Dora?»

«Misi incinta Terry. Credevo che prendesse la pillola. Pensa­va che io fossi ricco! Non aveva importanza se l’amavo o se lei amava me. Voglio dire che Terry era uno degli esseri umani più ottusi e ingenui che io abbia mai conosciuto. Chissà se tu ti pren­di il disturbo di nutrirti di persone così ignoranti e insulse.»

«Il bambino era Dora.»

«Sì. Terry intendeva sbarazzarsene, se non l’avessi sposata. Feci un patto con lei. Centomila dollari quando ci fossimo sposa­ti (usai uno pseudonimo, il matrimonio non fu mai legittimo se non sulla carta, e questa fu una vera fortuna perché legalmente non esiste nessun collegamento tra Dora e me) e altri cento quando fosse nato il bambino. Dopo di che, le avrei concesso il divorzio. Le spiegai che tutto ciò che desideravo era mia figlia.

«‘Nostra figlia’,rettificò lei.

«‘Certo, nostra figlia’,concessi. Che stupido. Quello che non riuscii a prevedere, benché fosse la cosa più ovvia del mondo, fu che questa donna, questa infermieruccia che si limava le unghie, masticava chewing-gum e usava il mascara, che portava scarpe con la suola di gomma e una fede nuziale di diamanti, si sarebbe naturalmente affezionata alla figlia. Era stupida, ma era un mammifero e non aveva nessuna intenzione di lasciarsi sottrarre la sua bambina, neanche per sogno. Alla fine mi ritrovai col diritto di vedere Dora solo saltuariamente. Per sei anni andai avanti e indietro da New Orleans in aereo non appena ne avevo l’occasio­ne, solo per tenerla tra le braccia, parlarle, passeggiare con lei la sera. E, cerca di capire, questa bambina era mia! Voglio dire che fu carne della mia carne sin dall’inizio. Cominciava a corrermi incontro non appena mi vedeva spuntare in fondo all’isolato. Si lanciava tra le mie braccia. Raggiungevamo in taxi il quartiere francese e attraversavamo il Cabildo, lei lo adorava; e la cattedra­le di San Luigi, naturalmente. Poi andavamo a mangiare muffaletas alla Central Grocery. Conosci sicuramente quei grossi panini pieni di olive, vero?»

«Li conosco.»

«Dora mi raccontava tutto quello che era successo durante la mia settimana di assenza. Ballavo con lei per la strada. Cantava­mo canzoni. Oh, che splendida voce ha sempre avuto. Io non ho una bella voce, ma mia madre l’aveva, e anche Terry. E la mia bambina l’aveva ereditata. E che cervello. Salivamo sul traghetto e percorrevamo il fiume in lungo e in largo, cantando appoggiati al parapetto. La portavo a fare spese alla D.H. Holmes e le com­pravo splendidi abiti. A sua madre non diede mai fastidio, que­sta faccenda dei bei vestiti, e naturalmente io ero abbastanza scaltro per scegliere qualcosa anche per Terry, sai, un corsetto ornato di pizzo o un kit di cosmetici francesi oppure un profumo da cento dollari l’oncia. Qualunque profumo tranne il Blue Waltz! Dora e io ci divertivamo alla follia. A volte pensavo che sarei riuscito a sopportare qualsiasi cosa, se solo avessi potuto ri­vederla dopo pochi giorni.»

«Era loquace e dotata di una fervida immaginazione, proprio com’eri tu.»

«Proprio così, piena di sogni e visioni. Devi capire che Dora non è affatto un’ingenua. È una teologa. È questa la cosa sor­prendente. Il desiderio di qualcosa di spettacolare? Quello gliel’ho trasmesso io. Ma la fede in Dio, la fede nella teologia? Non so da dove l’abbia presa.»

Teologia. La parola mi diede da pensare.

«Nel frattempo, Terry e io cominciammo a odiarci. Quando per Dora arrivò il momento di andare a scuola arrivarono anche i litigi. Era un vero inferno. Io per lei volevo la Sacred Heart Academy, lezioni di ballo, di musica, due settimane in Europa con me. Terry mi odiava e mi ripeteva che non avrei trasformato la sua bambina in una mocciosetta viziata. Terry aveva lasciato la casa di St. Charles Avenue, perché la trovava decrepita e angosciante, per trasferirsi in un’orrenda casetta a schiera in stile ranch, situa­ta in una squallida strada nei sobborghi saturi di umidità! Così la mia bambina era già stata strappata dal Garden District e da tutti i suoi colori, e sistemata in un luogo dove la curiosità architettonica più vicina era l’emporio 7-Eleven locale. Cominciavo a disperare e Dora cominciava a diventare grande, forse abbastanza per essere sottratta alla madre, che lei amava in modo molto protetti­vo e gentile. C’era un legame silenzioso tra loro due, sai, un lega­me in cui la conversazione non c’entrava nulla. Terry andava or­gogliosa di Dora.»

«E poi apparve sulla scena il fatidico fidanzato.»

«Esatto. Se fossi arrivato in città anche solo un giorno più tar­di, avrei scoperto che mia figlia e mia moglie se n’erano andate per sempre. Lei stava per tagliare la corda senza avvisarmi! Al diavolo i miei generosi assegni. Voleva andare in Florida col suo elettricista spiantato! Dora non sapeva niente ed era fuori a gio­care. I bagagli erano già pronti! Sparai a Terry e al suo fidanzato, proprio lì in quella stupida, piccola casa a schiera di Metairie do­ve Terry aveva scelto di far crescere mia figlia anziché in St. Char­les Avenue. Sparai a tutti e due. Sporcai di sangue la moquette di poliestere e il tavolo per la colazione rivestito di formica.»

«Posso immaginare la scena.»

«Gettai i due cadaveri nelle paludi. Era passato parecchio tempo dall’ultima volta in cui mi ero occupato di persona di una faccenda simile, ma non aveva importanza, fu tutto piuttosto fa­cile. Il furgoncino dell’elettricista era nel garage, perciò infilai i due corpi in sacchi di plastica e li caricai sul retro del furgone. Li portai via, lungo la Jefferson Highway, non so nemmeno dove li lasciai. No, aspetta, forse passai da Chef Menteur. Un posto im­precisato vicino a uno dei vecchi forti sul fiume Rigules. Affon­darono nella melma.»

«Capisco benissimo. Anch’io sono stato gettato nelle palu­di.»

Lui era troppo eccitato per dare retta ai miei borbottii. Conti­nuò a raccontare. «Poi tornai a prendere Dora. La trovai seduta sui gradini, i gomiti sulle ginocchia, a chiedersi come mai non ci fosse nessuno in casa; la porta era chiusa a chiave, quindi non era potuta entrare e, non appena mi vide, cominciò a urlare: ‘Papà! Sapevo che saresti venuto. Lo sapevo!’ Preferii non correre il ri­schio di entrare a prendere i suoi vestiti. Non volevo che vedesse il sangue. Salii con lei sul furgoncino dell’elettricista e uscimmo da New Orleans, abbandonando infine il veicolo nientemeno che a Seattle, nello Stato di Washington. Questa fu la mia odissea attraverso il Paese, insieme con Dora. Tutti quei chilometri... Pu­ra follia, noi due soli che parlavamo e parlavamo. Probabilmente stavo cercando d’insegnarle tutto quello che avevo imparato. Niente di malvagio e autodistruttivo, niente che potesse richia­mare l’oscurità accanto a lei, solo le cose positive, ciò che avevo appreso sulla virtù e l’onestà, su che cosa corrompe la gente, e su cosa invece è prezioso.

«‘Non puoi limitarti a non fare nulla in questa vita, Dora’,le ripetevo, ‘non puoi semplicemente lasciare il mondo così come l’hai trovato.’ Le raccontai persino che da giovane avrei voluto diventare un leader religioso e che il mio attuale lavoro consiste­va nel collezionare cose belle, oggetti sacri provenienti da tutta Europa e dall’Oriente. Ne organizzavo la compravendita, tenen­do per me i pochi pezzi che desideravo. La spinsi a credere che questa fosse l’attività che mi arricchiva e a quel tempo, strana­mente, era in parte vero.»

«Lei però sapeva che avevi ucciso Terry.»

«No. Ti sei fatto un’idea sbagliata, in proposito. Tutte quelle immagini stavano vorticando nella mia mente. Fu ciò che provai mentre mi succhiavi il sangue. In realtà le cose non andarono co­sì. Lei sapeva che mi ero sbarazzato di Terry — o che l’avevo libe­rata da Terry —, e che ormai poteva restare sempre col papà e vo­lare via con lui quando il papà volava via. È molto diverso dal sa­pere che il papà ha ucciso la mamma. Questo lei lo ignora. Una volta, quando aveva dodici anni, mi telefonò singhiozzando e disse: ‘Papà, puoi dirmi per favore dov’è la mamma, dove sono andati lei e quell’uomo quando sono partiti per la Florida?’ Riu­scii a stare al gioco, spiegando che avevo preferito non dirle che Terry era morta. Sia ringraziato Dio per il telefono. Me la cavo egregiamente, al telefono. Mi piace. È come parlare alla radio. Ma torniamo a Dora a sei anni. Il papà la portò a New York e prese una suite al Plaza. Da quel momento in poi Dora ebbe tut­to ciò che il papà poteva comprare.»

«Piangeva per Terry persino allora?»

«Sì. E probabilmente fu l’unica persona che lo fece mai. Prima del matrimonio, la madre di Terry mi aveva detto che sua fi­glia era una puttana. Loro due si odiavano. Il padre di Terry era stato un poliziotto, un tipo a posto, ma nemmeno a lui piaceva la figlia. Terry non era una persona simpatica, era crudele per natu­ra; non sarebbe stato molto piacevole neppure incontrarla casualmente per strada, figuriamoci conoscerla o aver bisogno di lei o addirittura doverla tenere con sé. La sua famiglia pensava che lei fosse fuggita in Florida lasciandomi Dora. I due vecchi, i genitori, morirono senza scoprire altro. Ci sono dei cugini, che ancora credono che sia scappata; ma non sanno chi io sia in realtà; è tutto piuttosto difficile da spiegare. Naturalmente, or­mai potrebbero aver letto gli articoli sui giornali e le riviste. Non ne sono sicuro, non ha importanza. Dora piangeva per sua ma­dre, sì. Ma, dopo la grossa bugia che le raccontai quando aveva dodici anni, non fece più nessuna domanda.

«Comunque devo dire che la devozione di Terry nei confron­ti di Dora era stata totale, come quella di ogni madre apparte­nente alla specie dei mammiferi! Istintiva, protettiva, ma priva di passionalità. Si preoccupava che Dora avesse un’alimentazione equilibrata; le faceva indossare bei vestiti, l’accompagnava a scuola di danza e restava seduta là a spettegolare con le altre ma­dri. Era orgogliosa di lei. Però le parlava poco. Credo che potes­sero trascorrere giorni e giorni senza che i loro sguardi s’incro­ciassero. Era una tipica relazione da mammiferi. E per Terry pro­babilmente funzionava tutto così.»

«È davvero strano che tu ti sia legato a una persona del gene­re, sai.»

«No, non è strano. Fu il destino. Abbiamo generato Dora. Terry le trasmise la voce e la bellezza. E in Dora c’è qualcosa di Terry che somiglia alla durezza, ma questo è un termine troppo poco gentile. Dora è un misto di noi due, in realtà, un miscuglio ottimale.»

«Be’,anche tu le hai trasmesso la tua bellezza.»

«Sì, ma quando i geni si fusero, successe qualcosa di molto più interessante. Hai visto mia figlia: è fotogenica e, sotto il bril­lante entusiasmo che le ho dato io, c’è la stabilità di Terry. Con­verte la gente attraverso le onde radio. ‘E qual è il vero messaggio di Cristo?’ chiede, fissando la telecamera. ‘Che Cristo è in ogni sconosciuto che incontrate, nei poveri, negli affamati, negli am­malati, nei vicini della porta accanto!’ E il pubblico le crede.»

«L’ho ammirata in TV. L’ho vista. Potrebbe davvero diventa­re la migliore», gli dissi.

Lui sospirò, poi riprese il racconto. «La mandai a scuola. Al­l’epoca guadagnavo davvero un sacco di soldi. Dovevo mettere parecchi chilometri tra me e mia figlia. Le feci cambiare tre scuo­le in tutto prima del diploma; per Dora fu dura, ma non mi fece mai domande su simili manovre o sulla segretezza che ammanta­va i nostri incontri. Le feci credere che rischiavo in continuazio­ne di dover correre a Firenze per impedire che un affresco venis­se distrutto da qualche idiota o a Roma per esplorare una cata­comba appena scoperta. Quando cominciò a interessarsi seria­mente alla religione, giudicai la cosa in modo positivo. Pensai che la mia sempre più vasta collezione di statue e libri l’avesse ispirata. E quando, a diciott’anni, mi disse di essere stata accetta­ta a Harvard e di voler studiare religioni comparate, lo trovai di­vertente. Feci la solita considerazione sessista: ‘studia ciò che vuoi e sposa un uomo ricco’. E lascia che ti mostri l’ultima icona o statua che ho comprato. Tuttavia il fervore e la predisposizione alla teologia di Dora si stavano sviluppando molto più di qualsiasi cosa io avessi mai sperimentato. A diciannove anni andò in Terra Santa e ci tornò altre due volte, prima della laurea. Tra­scorse i due anni seguenti studiando le religioni del mondo. Poi m’illustrò in modo dettagliato la sua idea per il programma tele­visivo: voleva parlare alla gente. La TV via cavo aveva dato vita a canali religiosi di ogni tipo. Potevi sintonizzarti su questo mini­stro protestante o su quel prete cattolico.

«‘Dici sul serio?’ le chiesi. Ignoravo che credeva davvero a tutto ciò; era decisissima a ispirarsi fedelmente a ideali che io stesso non avevo mai capito sino in fondo ma che, chissà come, le avevo trasmesso.

«‘Papà, fa’ in modo che io possa apparire in televisione per un’ora tre volte alla settimana e abbia dei soldi da usare come meglio credo, e vedrai cosa succede’,mi rispose. Cominciò a parlare di questioni etiche di ogni genere, di come potevamo salvare la nostra anima nel mondo odierno. Immaginava brevi con­ferenze o sermoni, inframmezzati da canti e balli estatici. Prendi la questione dell’aborto: lei fa appassionati discorsi perfettamen­te logici, dimostrando che entrambe le parti hanno ragione! Spiega che ogni vita è sacra, eppure una donna deve godere del completo controllo sul proprio corpo.»

«Ho visto il programma.»

«Ti rendi conto che è stato acquistato da settantacinque di­versi network via cavo? Ti rendi conto dell’effetto che la notizia della mia morte potrebbe avere sulla chiesa di mia figlia?» S’in­terruppe, riflettendo, poi riprese a parlare in maniera concitata come prima. «Sai, credo di non aver mai avuto un’aspirazione religiosa, una meta spirituale, per così dire, che non fosse impre­gnata di qualcosa di materialistico e intrigante. Capisci cosa in­tendo?»

«Certo.»

«Ma con Dora è diverso. Le cose materiali non le interessano davvero. Le reliquie, le icone: che significato hanno per lei? Ben­ché le probabilità psicologiche e intellettuali siano nettamente in suo sfavore, Dora crede nell’esistenza di Dio.» Si bloccò di nuo­vo, scuotendo il capo con aria di rimpianto. «Quello che mi hai detto poco fa è vero. Sono un delinquente. Persino nei confronti del mio amato Wynken avevo un secondo fine, quel che si dice un intento non dichiarato. Ma Dora non è così.»

Ripensai al commento che lui aveva fatto nel bar, «ho vendu­to l’anima per posti come questo». Avevo capito allora di cosa stesse parlando e lo capivo tuttora.

«Lasciami riprendere il racconto. Rinunciai ben presto, come ti ho detto, all’idea di una religione laica. Quando Dora comin­ciò a fare sul serio, io da anni ormai non pensavo a quelle ambi­zioni. Avevo Dora. E avevo Wynken, la mia ossessione. Rintrac­ciai altri suoi libri e, tramite i miei numerosi contatti, riuscii ad acquistare cinque diverse lettere dell’epoca che menzionavano Wynken de Wilde, Blanche de Wilde e anche suo marito Damien. Disponevo di ricercatori che scavavano in Europa e in America per conto mio. Misticismo della Renania, ecco di che cosa si occupavano. I miei ricercatori trovarono una versione condensata della storia di Wynken in un paio di testi tedeschi. Si accennava a donne che praticavano i riti di Diana, la stregoneria; Wynken, trascinato fuori del monastero e accusato pubblica­mente. Ma il verbale del processo era andato perduto, non era sopravvissuto alla seconda guerra mondiale. Altrove però c’era­no altri documenti, fasci di lettere. Una volta in possesso della parola chiave, Wynken — una volta che sapevi cosa cercare —, eri sulla buona strada. Quando avevo un’ora di tempo, mi sedevo a osservare le minuscole figure nude di Wynken e memorizzavo le sue poesie d’amore. Conoscevo i suoi componimenti tanto da poterli cantare. Quando passavo il weekend con Dora — c’incon­travamo da qualche parte non appena possibile —, glieli recitavo e magari le mostravo la mia ultima scoperta. Lei tollerava la mia Visione, tipica dell’hippy scoppiato, del libero amore e del misti­cismo’,come la definiva.

«‘Ti voglio bene, Roge’,diceva. ‘Ma sei così romantico da ri­tenere quel pessimo prete una specie di santo. Tutto ciò che face­va era andare a letto con quelle donne, vero? E i libri rappresen­tavano un espediente per comunicare con le altre... fissando gli orari degli incontri.’

«‘Ah, ma, Dora, non c’è una sola parola malvagia o sgradevo­le nell’opera di Wynken de Wilde’,ribattevo. ‘Controlla tu stes­sa.’ Ormai possedevo sei libri. Parlavano esclusivamente d’amo­re. Il mio attuale traduttore, un professore della Columbia, si era meravigliato del misticismo della poesia, di come fosse un miscu­glio di amore per Dio e amore per la carne. Dora non la beveva. Ed era già ossessionata dalle proprie questioni religiose. Stava leggendo Paul Tillich, William James, Erasmo e un sacco di libri sulla condizione del mondo odierno. Ecco l’ossessione di Dora, la condizione del mondo odierno.»

«Non proverà nessun interesse per quei libri di Wynken, se glieli consegno.»

«No, non toccherà nessun pezzo della mia collezione, non adesso, almeno!» proruppe lui.

«Eppure vuoi che io protegga tutte queste cose», replicai.

«Due anni fa, bastò un paio di articoli di giornale. Nessun esplicito legame con lei, capisci, ma ai suoi occhi la mia copertura saltò irrimediabilmente. Nutriva già dei sospetti e mi spiegò che era stato inevitabile per lei scoprire che il mio denaro non era pulito», rivelò con un sospiro. Scosse il capo. «Non pulito», ripetè. «L’ultima cosa che mi permise di fare fu comprarle il con­vento. Un milione di dollari per acquistare l’edificio e un altro milione per liberarlo da tutte le profanazioni moderne e riportar­lo alle condizioni in cui era quando vi abitavano le suore, nel pe­nultimo decennio dell’Ottocento, con cappella, refettorio, celle e ampi corridoi... Ma persino quello accettò con riluttanza. Quanto alle opere d’arte, scordatelo. Potrebbe benissimo non accettare mai da me il denaro che le serve per educare i suoi se­guaci, il suo ordine o come diavolo lo chiama un televangelista. Il collegamento della televisione via cavo non è niente in confronto a ciò che avrei potuto farne, trasformando quel convento in una base operativa. E la mia collezione, le statue, le icone... Cerca d’immaginarlo. ‘Potrei renderti famosa come Billy Graham o Jerry Falwell, tesoro’,le dissi. ‘Non puoi voltare le spalle al mio denaro, non foss’altro che per il bene di Gesù.’» Scosse il capo, disperato. «Negli ultimi tempi accettava d’incontrarmi solo per pietà, cosa che la mia bellissima figlia possiede in quantità illimi­tata. A volte accettava un regalino. Stasera lo ha rifiutato. Una volta, quando il programma per poco non colò a picco, prese so­lo la somma sufficiente per fargli superare la crisi. Ma i miei santi e angeli non vuole toccarli; i miei libri, i miei tesori, non vuole guardarli. Naturalmente, sappiamo entrambi quanto sia minac­ciata la sua reputazione. Tu sei stato d’aiuto, eliminandomi, ma ben presto si diffonderà la notizia della mia scomparsa, è inevitabile. ‘Televangelista finanziata da re della cocaina.’ Quanto può durare il segreto del suo legame con me? È un segreto che deve sopravvivere alla mia morte, così come Dora deve sopravvivere alla mia morte. A ogni costo! Lestat, ascolta le mie parole.»

«Ti sto ascoltando, Roger, sto ascoltando ogni tua singola pa­rola. Ancora non hanno scoperto l’esistenza di tua figlia, posso assicurartelo.»

«I miei nemici sono spietati. E il governo... chi può sapere co­sa diavolo sia o cosa diavolo faccia il governo?»

«Dora teme questo scandalo?»

«No. Può essere distrutta dal dolore, ma spaventata dal po­tenziale scandalo, mai. È pronta ad accettare il destino. Il suo de­siderio era che io rinunciassi a tutto! Proprio questo era diventa­to il suo metodo d’attacco preferito. Non le importava che il mondo potesse scoprire che eravamo padre e figlia. Voleva che io rinunciassi a tutto. Aveva paura per me, così come l’avrebbe la figlia o la moglie di un gangster.

«‘Lasciami almeno costruire la chiesa. Prendi il denaro’,con­tinuavo a chiederle, supplicandola. Lo spettacolo televisivo ha rivelato la sua forza di carattere. Ma niente di più... è tutto in ro­vina intorno a lei. Ha un piccolo programma di un’ora tre volte la settimana. Deve salire da sola la scala verso il paradiso. Io sono tagliato fuori. Confida nel fatto che il suo pubblico riesca a rac­cogliere i milioni di dollari che le servono. E le mistiche che cita! L’hai sentita leggere stralci dai loro scritti: Ildegarda di Bingen, Giuliana di Norwich, Teresa d’Avila. Hai letto le opere di qualcuna di queste donne?»

«Tutte, di ciascuna di loro», risposi.

«Le donne intelligenti, desiderose di ascoltare donne intelli­genti, la ascoltano con attenzione. Ma ormai sta cominciando ad attirare chiunque. Non puoi sfondare in questo mondo se ti ri­volgi solo a uno dei due sessi. È impossibile. Lo so persino io, lo sa il mercante che c’è dentro di me, e il genio di Wall Street — perché sono anche questo — non ha dubbi. Lei attira chiunque. Oh, se solo potessi tornare indietro di due anni, se solo fossi riu­scito a lanciare la chiesa prima che Dora scoprisse...»

«Stai guardando la faccenda da una prospettiva sbagliata. Smettila coi rimpianti. Se avessi reso famosa la sua chiesa, avresti affrettato il tuo smascheramento e, di conseguenza, lo scanda­lo.»

«No: una volta che la chiesa fosse diventata abbastanza cele­bre, lo scandalo non avrebbe avuto nessuna importanza. È pro­prio questo il trucco. Ma Dora è rimasta semisconosciuta e, se sei semisconosciuto, uno scandalo ti può annientare!» Scosse di nuovo il capo, con rabbia. Cominciava ad agitarsi troppo, ma la sua immagine non faceva che diventare più nitida. «Non possia­mo permettere che io distrugga Dora...» La sua voce si affievolì di nuovo. Lui rabbrividì e mi fissò. «Qual è il nocciolo del pro­blema, Lestat?» chiese.

«Dora deve sopravvivere. Deve aggrapparsi alla sua fede do­po che si saprà della tua morte!» risposi.

«Sì. Morto o vivo, sono il suo peggior nemico. E riguardo alla sua chiesa, Dora sta camminando sul filo del rasoio, sai; non è una puritana, mia figlia. Considera Wynken un eretico, ma igno­ra fino a che punto la sua moderna compassione per la carne sia esattamente ciò di cui parlava Wynken.»

«Capisco. Ma che mi dici di Wynken? Devo salvare anche lui? Cosa devo farne?»

«Dora a modo suo è un genio, in realtà. È questo che intende­vo quando l’ho definita una teologa. È riuscita nell’impresa quasi impossibile di padroneggiare il greco, il latino e l’ebraico, pur non essendo bilingue fin da bambina. Sai benissimo quanto sia difficile», continuò lui, ignorando le mie domande.

«Sì, per noi non lo è, ma...» Mi bloccai. Un pensiero orribile mi aveva assalito con violenza, interrompendo ogni altra conside­razione. Era troppo tardi per rendere immortale Roger. Era mor­to! Non mi ero nemmeno reso conto che — per tutto quel tempo, mentre parlavamo e la sua storia si dipanava — avevo dato per scontato di poterlo prendere con me, volendo, di poterlo tenere lì e impedirgli di proseguire il suo viaggio. Ma all’improvviso, con uno shock violentissimo, avevo ricordato che Roger era un fanta­sma! Stavo parlando con un uomo già morto. La situazione era così penosamente frustrante e inconsueta che rimasi attonito e avrei anche cominciato a gemere, se non avessi dovuto maschera­re il mio turbamento affinchè lui continuasse il racconto.

«Che cos’hai?» mi chiese.

«Niente. Parlami ancora di Dora. Spiegami che genere di co­se dice.»

«Parla della sterilità attuale, di quanto la gente abbia bisogno dell’ineffabile. Sottolinea il problema della criminalità dilagante e della mancanza di obiettivi nei giovani. Ha intenzione di creare una religione in cui nessuno faccia del male agli altri. È il sogno americano, d’altronde. Conosce le Scritture alla perfezione, ha letto tutti gli pseudoepigrafi, i vangeli apocrifi, le opere di sant’Agostino, Marcione, Maimonide! È convinta che il proibi­zionismo sessuale abbia distrutto il cristianesimo; concetto non certo originale, naturalmente, e che senza dubbio affascina le donne che la ascoltano, sai...»

«Sì, sì, ho capito; quindi Dora deve aver provato almeno una certa simpatia per Wynken.»

«Per lei i libri di Wynken non rappresentavano una serie di visioni, come per me.»

«Capisco.»

«E a proposito, non sono soltanto perfetti, sono anche unici sotto molti punti di vista. Wynken svolse la sua attività nel quar­to di secolo immediatamente precedente all’invenzione della macchina da stampa di Gutenberg. Fu scrivano; rubricator, colui che con inchiostro rosso tracciava i segni di richiamo in margine alla pagina, alcuni titoli e iniziali; e pure miniaturista: aggiunse tutte le persone nude che se la spassano nell’Eden e l’edera e i rampicanti che si avviluppano su ogni pagina. Fu costretto a oc­cuparsi personalmente di ogni fase del lavoro in un’epoca in cui gli scriptoria, cioè le sale riservate alla scrittura nei monasteri, suddividevano questi incarichi. Lasciami finire con Wynken. Adesso stai pensando a Dora. Lasciami tornare a lui. Sì, devi prendere quei libri.»

«Magnifico», risposi in tono cupo.

«Lascia che ti aggiorni. Amerai di certo quei libri, anche se Dora non l’ha mai fatto. Li ho tutti e dodici, come credo di averti già detto. Lui era un cattolico della Renania, costretto da ragazzo a entrare nell’ordine dei benedettini, ed era innamorato di Blan­che de Wilde, moglie di suo fratello. Fu lei a ordinare che i libri venissero realizzati nello scriptorium, ecco come cominciò tutto questo, il suo legame segreto con l’amante monaco. Ho delle let­tere che Blanche e la sua amica Eleanor si scambiarono. Ho rico­struito alcuni avvenimenti decifrando le poesie. E, cosa più triste di tutte, ho le lettere scritte da Blanche a Eleanor dopo che Wyn­ken venne giustiziato. Lei le fece recapitare di nascosto a Elea­nor, che poi le spedì a Diane, e ci fu un’altra donna coinvolta nel­la vicenda, ma sono rimasti pochissimi frammenti di missive scritte di suo pugno. Ecco quel che venne annotato.

«Avevano l’abitudine di riunirsi nel giardino del castello de Wilde per praticare i loro riti. Non si trattava affatto del giardino del convento, come avevo precedentemente ipotizzato. Non so come Wynken riuscisse ad arrivarci, ma accenni contenuti in al­cune lettere indicano che sgattaiolava fuori del monastero e, per­correndo un passaggio segreto, entrava nel castello del fratello. E questo era logico. Aspettavano che Damien de Wilde fosse im­pegnato in qualunque cosa facciano i conti o duchi, e poi s’in­contravano, danzavano intorno alla fontana e facevano l’amore. Wynken si portava a letto tutte le donne, a turno, oppure si dedi­cava con loro a celebrazioni particolari. Tutto questo è più o me­no registrato nei libri. Fatto sta che vennero scoperti. Damien evirò e accoltellò Wynken davanti alle donne, che poi scacciò. Conservò i resti del fratello! Poi, dopo diversi giorni d’interroga­torio, le donne terrorizzate furono costrette a confessare il loro amore per Wynken e come lui avesse comunicato con loro attra­verso i libri; e suo fratello prese tutti e dodici i libri di Wynken de Wilde, tutto quello che questo artista avesse mai creato, capi­sci...»

«La sua immortalità», sussurrai.

«Già, la sua progenie! I suoi libri! Damien li fece seppellire insieme col cadavere di Wynken nel giardino del castello, accan­to alla fontana che compare in tutte le miniature dei volumi! Ogni giorno, dalla sua finestra, Blanche poteva osservare il pun­to del terreno in cui era stato sepolto Wynken. Nessun processo, nessuna accusa d’eresia, nessuna esecuzione, niente del genere. Lui si limitò a uccidere il fratello, tutto qui. Probabilmente versò enormi somme di denaro al monastero. Chi può sapere se fosse davvero necessario? Gli altri monaci amavano Wynken? Oggi il monastero è un ammasso di rovine in cui i turisti vanno a fare fo­tografie. Quanto al castello, andò distrutto durante i bombarda­menti della prima guerra mondiale.»

«Ah. Ma cosa successe in seguito, come fecero i libri a uscire dalla bara? Ne possiedi delle copie? Stai parlando di...»

«No, ho tutti gli originali. Mi sono imbattuto in alcune copie, copie grossolane realizzate per ordine di Eleanor, cugina e confi­dente di Blanche, ma, per quanto ne so, questa pratica della copiatura fu poi interrotta. C’erano solo dodici libri. E non so co­me siano tornati in superficie. Posso soltanto azzardare un’ipote­si.»

«Quale?»

«Credo che, una notte, Blanche e le altre donne siano uscite, abbiano disseppellito il corpo, tolto i libri dalla bara o da qua­lunque contenitore in cui erano stati sistemati i resti del povero Wynken, e poi abbiano rimesso tutto a posto.»

«Pensi davvero che avrebbero potuto fare una cosa simile?»

«Sì, credo che l’abbiano fatta. Riesco a vederle mentre scava­no, alla luce delle candele nel giardino, le vedo scavare, tutte e cinque insieme. Tu non ci riesci?»

«Sì.»

«Penso che lo abbiano fatto perché provavano quello che provo io! Amavano la bellezza e la perfezione di quei libri. Lestat, sapevano che erano veri e propri tesori, ed è questo il potere dell’ossessione e dell’amore. E, chissà, forse volevano le ossa di Wynken. È plausibile. Forse una donna prese un osso della co­scia e un’altra le ossa della mano e... ah, non lo so.»

All’improvviso quell’immagine mi parve orrenda e mi fece su­bito ripensare alle mani di Roger, che avevo grossolanamente mozzato con un coltello da cucina per poi gettarle tra i rifiuti, av­volte in un sacco di cellofan. Fissai le mani che avevo di fronte, intente a giocherellare col bordo del bicchiere, a tamburellare, ansiose, sul bancone. «Fino a che punto sei riuscito a ricostruire il percorso compiuto dai libri?» domandai.

«Non sono arrivato molto lontano. Ma succede spesso nella mia professione, nel campo dell’antiquariato, voglio dire. I libri sono ricomparsi uno o forse due alla volta. Alcuni provenivano da collezioni private, due da musei bombardati durante le guer­re. In un paio di occasioni li ho pagati due soldi. Capii cosa fos­sero non appena vi posai sopra lo sguardo, ma gli altri non lo sa­pevano. E sai, ovunque andassi, organizzavo la ricerca di questo tipo di codice medievale. Sono un esperto in questo campo. Co­nosco il linguaggio dell’artista medievale! Devi salvare i miei te­sori, Lestat. Non puoi lasciare che Wynken vada perduto di nuo­vo. Ti lascio con la mia eredità.»

«Così pare. Ma cosa posso fare di questi volumi e di tutte le altre reliquie, se Dora non vuole saperne?»

«Dora è giovane. Cambierà. Sai, nutro ancora questa speran­za, il sogno che magari nella mia collezione — dimentica Wynken —, magari tra tutte le statue e le reliquie, ci sia un manufatto d’inestimabile valore che possa aiutare Dora con la sua nuova chiesa. Puoi far stimare il valore di ciò che hai visto nel mio ap­partamento? Devi convincere Dora a toccare di nuovo quegli oggetti, esaminarli, annusarne il profumo! Devi fare in modo che percepisca la potenza delle statue e dei dipinti, che capisca che sono espressioni della ricerca umana della verità, la stessa ricerca che ossessiona lei. Non lo sa ancora, tutto qui.»

«Ma hai detto che non le è mai importato nulla della pittura e del gesso.»

«Fa’ in modo che le importi.»

«Io? Come? Posso conservare tutto ciò, certo, ma come pos­so indurre Dora ad amare un’opera d’arte? Non capisco cosa ti spinga a suggerire una simile eventualità, vale a dire che io entri in contatto con la tua preziosa figlia.»

«Te ne innamorerai», rispose con un lieve mormorio.

«Puoi ripetere?»

«Trovale qualcosa di miracoloso nella mia collezione.»

«La Sacra Sindone?»

«Oh, mi piaci. Davvero. Sì, trovale qualcosa d’importante, qualcosa capace di trasformarla, qualcosa che io, suo padre, ho comprato e amato, e che la aiuterà.»

«Da morto sei pazzo come lo eri da vivo, lo sai? Ti comporti ancora come un trafficante, tentando di comprarti la strada per la salvezza con un blocco di marmo o una pila di pergamene! O credi davvero nella santità di tutto ciò che hai collezionato?»

«Certo che credo nella sua santità! È l’unica cosa in cui cre­do! È esattamente ciò che volevo dire, non capisci? È anche l’u­nica cosa in cui credi tu... ciò che scintilla e ciò che è d’oro.»

«Ah, mi lasci davvero senza fiato.»

«Ecco perché mi hai ucciso proprio là, tra i miei tesori. Senti, dobbiamo sbrigarci. Non sappiamo quanto tempo ci resta. Tor­niamo ai dettagli tecnici. Ora, per quanto riguarda mia figlia, il tuo asso nella manica è la sua ambizione. Voleva il convento per le sue missionarie, il suo Ordine, che si prefigge d’insegnare l’a­more con lo stesso peculiare ardore con cui l’hanno insegnato al­tri missionari; manderebbe le sue donne nei quartieri poveri e nei ghetti e nei distretti operai, dove pontificherebbero sulla ne­cessità di organizzare un movimento d’amore che, sorto nel cuo­re del popolo, raggiungerebbe alla fine tutti i governi, così da mettere fine all’ingiustizia.»

«Cosa distinguerebbe queste donne dagli altri Ordini missionari simili, dai francescani o da qualsiasi altro tipo di predicato­ri?»

«Be’,innanzitutto il fatto che sarebbero donne, e donne che predicano! Le suore devono lavorare come infermiere, inse­gnanti elementari, domestiche, oppure restare chiuse nel chio­stro levando belati a Dio come altrettante pecore noiose. Le don­ne di Dora invece sarebbero dottori della Chiesa, capisci? Predicatrici. Ecciterebbero la folla col fervore personale; si rivolgereb­bero alle donne, le donne impoverite e quelle private del potere, e le aiuterebbero a riformare il mondo.»

«Una visione femminista, abbinata però alla religione.»

«Potrebbe avere qualche chance di successo, le stesse possibi­lità di qualsiasi movimento di questo tipo. Chi può sapere come mai un monaco del 1300 diventò pazzo e un altro invece un santo? Dora riesce a mostrare alla gente come pensare. Non lo so! Devi assolutamente riuscire a capire tutto questo, devi farlo!»

«E, contemporaneamente, salvare gli oggetti ornamentali del­la chiesa», aggiunsi.

«Sì, finché lei non li accetta oppure finché non è in grado di trarne qualcosa di buono. Ecco come puoi convincerla. Parlale del bene.»

«È così che convinci chiunque. Ed è così che stai convincen­do me», dissi mestamente.

«Be’,lo farai, vero? Dora pensa che io sia stato guidato dal­l’errore. Ha detto: ‘Non credere, dopo tutto ciò che hai fatto, di poter salvare la tua anima donandomi questi oggetti sacri’.»

«Ti vuole bene, l’ho notato ogni volta che l’ho vista con te», volli confortarlo.

«Lo so. Non ho bisogno di simili rassicurazioni. Adesso non abbiamo tempo per addentrarci nelle discussioni che sarebbero necessarie. Ma la visione di Dora non ha limiti, ricordatelo. Adesso lei non è molto importante, ma vuole cambiare il mondo intero. Voglio dire che non si accontenta di avere un culto come lo volevo io, sai, di essere un guru con un ritiro pieno di seguaci compiacenti. Vuole davvero cambiare il mondo. È convinta che qualcuno debba farlo.»

«Non la pensa così ogni persona religiosa?»

«No. Gli altri non sognano di essere Maometto o Zoroastro.»

«Dora invece sì.»

«Sa che è ciò che occorre.» Scosse il capo, bevve un altro sor­so di liquore e osservò il locale semivuoto. Poi si accigliò, come se stesse ancora riflettendo. «Mi diceva: ‘Papà, la religione non scaturisce dalle reliquie e dai testi, che ne sono la semplice espressione’. Continuava a ribadire il concetto. Dopo aver stu­diato così a lungo le Scritture, disse che era il miracolo interiore a contare davvero. Mi faceva venire un sonno mortale. E non fare battute crudeli!»

«Per nulla al mondo.»

«Cosa ne sarà di mia figlia?» sussurrò in tono disperato. Non mi stava guardando. «Considera il suo retaggio. Cerca di veder­lo in suo padre. Io sono fervente ed estremista, gotico e pazzo. Non so dirti in quante chiese l’ho accompagnata, quanti inesti­mabili crocifissi le ho mostrato prima di venderli con discreto profitto. Le ore che Dora e io abbiamo passato ammirando i sof­fitti delle chiese barocche solo in Germania! Le ho regalato splendide reliquie della Vera Croce incastonate in argento e ru­bini. Ho comprato numerosi veli di Veronica, splendidi manu­fatti che ti lascerebbero senza fiato. Mio Dio.»

«C’è mai stata — in Dora, intendo — un’idea di espiazione, un vago senso di colpa?»

«Per aver lasciato scomparire Terry senza spiegazioni, per non aver fatto domande se non dopo anni, vuoi dire? Ci ho pen­sato anch’io. Ammesso che tutto ciò fosse presente all’inizio, Do­ra se l’è lasciato alle spalle parecchio tempo fa. Crede che il mon­do abbia bisogno di una nuova rivelazione. Un nuovo profeta. Ma non è facile diventare un profeta! Dora dice che la sua tra­sformazione deve avvenire grazie al vedere e al sentire, ma non come in un’esperienza da tendone di revivalisti.»

«I mistici non pensano mai che sia un’esperienza del gene­re.»

«Certo che no.»

«Dora è una mistica? La definiresti tale?»

«Non lo sai da solo? L’hai seguita, l’hai osservata. No, Dora non ha visto il volto di Dio né sentito la sua voce e non mentireb­be mai al riguardo, se è questo che intendi. Ma sta cercando. Sta cercando il momento, il miracolo, la rivelazione!»

«L’arrivo dell’angelo.»

«Sì, precisamente.»

All’improvviso restammo in silenzio. Forse lui stava rifletten­do sulla sua proposta iniziale; io stavo ripensando a quando mi aveva sollecitato a inscenare un miracolo, proprio io, l’angelo malvagio che un giorno aveva condotto alla pazzia una suora cat­tolica, l’aveva portata al punto di sanguinare dalle stigmate su mani e piedi.

Tutt’a un tratto lui decise di continuare e io ne fui sollevato.

«Ho reso la mia vita abbastanza ricca per poter smettere di preoccuparmi di cambiare il mondo, se mai ho davvero pensato di farlo; mi sono creato una vita tutta mia, capisci, un mondo a parte, autonomo. Ma lei ha davvero spalancato la propria anima in modo sofisticato davanti a... a qualcosa. La mia anima è mor­ta», disse.

«Non sembrerebbe», ribattei. Il pensiero che prima o poi sa­rebbe svanito, che fosse costretto a farlo, cominciava a sembrar­mi intollerabile e molto più spaventoso di quanto non fosse mai stata la sua presenza iniziale.

«Torniamo alle cose essenziali. Comincio a essere un po’ in ansia...» dichiarò.

«Perché?»

«Non perdere la testa, limitati ad ascoltarmi. Ho messo da parte per Dora del denaro non riconducibile a me. Inoltre, il go­verno non può toccarlo, non mi ha mai incriminato formalmente e men che meno condannato, sei stato tu a impedirlo. I documenti si trovano nell’appartamento, in raccoglitori di pelle nera, in uno schedario; mescolati a ricevute relative a dipinti e statue di ogni genere. E tu devi mettere tutto al sicuro da qualche parte, per Dora. Il lavoro di tutta una vita, la mia eredità. L’affido a te, per lei. Puoi farlo, vero? Senti, non c’è nessuna fretta, ti sei sba­razzato di me in modo piuttosto scaltro.»

«Lo so. E adesso mi stai chiedendo di fungere da angelo cu­stode, di far sì che Dora riceva quest’eredità senza essere conta­minata...»

«Sì, amico mio, è proprio questo che ti sto implorando di fa­re. Puoi riuscirci! E non dimenticare il mio Wynken! Se lei non vuole prendere quei libri, tienili tu!» Mi toccò il petto con la ma­no. Sentii il lieve bussare sulla porta del cuore.

Roger continuò. «Quando il mio nome spunta dai documen­ti, presumendo che passi dai file dell’FBI alle agenzie di stampa, consegna il denaro a Dora. I soldi possono ancora contribuire a creare la sua chiesa. Lei ha una personalità magnetica. Può fare tutto da sola, se dispone del denaro! Mi segui? Può farlo così co­me l’ha fatto san Francesco o san Paolo o Gesù. Se non fosse per la sua teologia, Dora sarebbe diventata una celebrità carismatica molto tempo fa, perché ha tutte le doti necessarie. Solo, pensa troppo: è la sua teologia a renderla diversa da tutti gli altri.»

Respirò a fondo. Stava parlando molto rapidamente e io co­minciavo a tremare. Riuscivo a percepire la sua paura come una fioca emanazione. Paura di cosa?

«Ecco», continuò. «Voglio citarti una frase. Dora me l’ha ri­ferita ieri sera. Avevamo appena letto un testo di Bryan Appleyard, un giornalista che collabora coi quotidiani inglesi, ne hai sentito parlare? Ha scritto un libro intitolato Capire il presen­te. Ho la copia che mi ha dato Dora. E in questo libro lui dice co­se in cui Dora crede... per esempio che siamo ‘spiritualmente im­poveriti’.»

«Sono d’accordo.»

«Ma mi riferisco a qualcos’altro, qualcosa che riguarda il no­stro dilemma, il fatto che tu possa inventare delle teologie che però, per funzionare, devono scaturire da un punto più profon­do all’interno della persona... So come l’ha definito lei, usando le parole di Appleyard, ‘una totalità di esperienza umana’.» S’in­terruppe, sembrava distratto.

Volevo disperatamente rassicurarlo dimostrandogli che capi­vo benissimo, perciò mi affrettai a dire: «Sì, lei sta cercando pro­prio questo, lo sta corteggiando, si sta aprendo a quest’esperien­za». All’improvviso mi resi conto che mi stavo aggrappando a lui con la stessa intensità con cui lui si aggrappava a me.

Roger fissava il vuoto.

Fui invaso da una tristezza così orrenda che non riuscivo a parlare. Avevo ucciso quest’uomo! Perché lo avevo fatto? Insomma, sapevo che era stato un tipo interessante e malvagio, ma, Cristo, come avevo potuto... E se fosse rimasto con me così com’era? E se avesse potuto diventare mio amico esattamente così com’era? Oh, questo era troppo puerile, egoista e avido! Stavamo parlando di Dora, di teologia. Naturalmente, capivo cosa intendeva Appleyard in Capire il presente; m’immaginai il li­bro. Sarei tornato nell’appartamento a prenderlo. Archiviai l’im­pegno nella mia memoria sovrannaturale: leggerlo subito.

Lui non si era mosso né aveva aperto bocca.

«Senti, cos’è che ti spaventa?» chiesi. «Non andartene!» Mi aggrappai a lui, disperato, inerme e quasi in lacrime, pensando che lo avevo ucciso, che gli avevo rubato la vita, e adesso l’unica cosa che desideravo era trattenere il suo spirito.

Lui non rispose, sembrava spaventato.

Non ero il mostro incallito che pensavo di essere. Non ri­schiavo di assuefarmi alla sofferenza umana. Ero in preda a una dannata, recalcitrante empatia! «Roger? Guardami. Continua a parlare.»

Lui si limitò a mormorare che forse Dora avrebbe trovato quello che lui non era riuscito a trovare.

«Cosa?» domandai.

«Teofania», sussurrò.

Oh, quell’elegante parola. La parola usata da David. L’avevo sentita io stesso solo poche ore prima. E adesso usciva dalle lab­bra di Roger.

«Senti, credo che stiano venendo a prendermi», annunciò improvvisamente e sgranò gli occhi. Non sembrava più tanto spaventato quanto perplesso. Stava ascoltando qualcosa. An­ch’io lo sentivo. «Ricordati della mia morte», aggiunse tutt’a un tratto, come se ci avesse appena pensato molto chiaramente. «Raccontale come sono morto. Convincila che la mia morte ha purificato il denaro! Cerca di capire. È quello lo scopo! Ho pa­gato con la morte e il denaro non è più sporco, ormai. I libri di Wynken, tutti e dodici, non sono più sporchi. Cerca di rendere meno squallida l’intera faccenda. Ho riscattato tutto col mio san­gue. Capisci, Lestat, usa il tuo eloquio brillante. Diglielo!»

Quei passi.

Il ritmo distinto di qualcosa che camminava, camminava len­tamente... E il fioco mormorio di voci, i canti, il chiacchierio, co­minciavo ad avere le vertigini. Stavo per cadere. Mi aggrappai a lui e al bancone.

«Roger!» urlai. Di certo qualcuno mi sentì, lì nel bar.

Roger mi stava guardando placidamente, non sapevo nemme­no se il suo viso avrebbe più cambiato espressione; era sconcer­tato, forse addirittura sbalordito, ma restava fisso.

Vidi le ali innalzarsi sopra di me, sopra di lui. Vidi l’immensa oscurità che tutto distrugge schizzare verso l’alto come scaturita da una crepa vulcanica e dietro di essa levarsi la luce, una luce accecante, magnifica.

So che gridai: «Roger!»

Il rumore era assordante: le voci, i canti, e la figura che diven­tava sempre più grande.

«Non portarlo via. È colpa mia.» Balzai in piedi per affron­tarlo, furibondo; lo avrei fatto a pezzi, se necessario, affinchè la­sciasse andare Roger! Ma non riuscivo a vederlo chiaramente. Non sapevo nemmeno dove mi trovavo. E la Cosa si avvicinò vorticando, di nuovo simile a fumo denso, potente e inarrestabi­le; e, in mezzo a tutto ciò, incombente su Roger che via via svani­va, e in movimento verso di me, il volto, il volto della statua di granito per un attimo, l’unica parte visibile, i suoi occhi...

«Lascialo andare!»

Non c’era nessun bar, nessun Village, nessuna città, nessun mondo. Soltanto tutti loro! E forse i canti non erano altro che il suono di un bicchiere che andava in frantumi.

Poi oscurità. Immobilità. Silenzio.

O almeno, mi sembrò di essere rimasto privo di sensi, per un certo periodo, in un luogo tranquillo.

Mi risvegliai fuori, in strada.

Accanto a me, c’era il barman, fermo, scosso da brividi, che con voce seccata e nasale mi chiedeva: «Tutto bene, amico?» Aveva della neve sulle spalle, sulle spalle nere del panciotto e sul­le maniche bianche.

Annuii e mi alzai, soltanto perché se ne andasse. La mia cra­vatta era ancora a posto, il mio cappotto abbottonato e le mie mani pulite. Avevo della neve sul cappotto.

La neve cadeva molto dolcemente tutt’intorno a me. Una ne­ve meravigliosa.

Varcai di nuovo la porta girevole, tornando nell’atrio rivestito di piastrelle e mi fermai sulla soglia del bar. Riuscivo a vedere il punto in cui Roger e io avevamo parlato, a vedere il suo bicchiere rimasto lì. Per il resto, l’atmosfera era immutata. Il barman, con aria annoiata, stava parlando con qualcuno. Non aveva visto niente, se non probabilmente il sottoscritto alzarsi di scatto e correre in strada con passo malfermo.

Ogni fibra del mio essere mi suggeriva di scappare. Ma dove vuoi fuggire? Vuoi spiccare il volo? Impossibile, ti raggiungerà in un attimo. Tieni i piedi sulla terra fredda.

Hai preso Roger! E per questo che mi hai seguito? Chi sei?

Il barman sollevò lo sguardo per colmare la vuota e tetra di­stanza che ci separava. Dovevo aver detto o fatto qualcosa. No, stavo semplicemente singhiozzando. Un uomo che piangeva sul­la soglia, come uno stupido. E quando si tratta di quest’uomo, per così dire, ciò significa lacrime di sangue. Esci in fretta.

Mi voltai e tornai fuori sotto la neve. Presto sarebbe arrivato il mattino. Non ero costretto a passeggiare in quel freddo penoso e crudele finché il cielo non si rischiarava, giusto? Perché non cer­care subito una bara per andare a dormire?

«Roger!» stavo gridando, asciugandomi le lacrime con la ma­nica. «Che cosa sei, dannazione?» Mi fermai e urlai, l’eco della mia voce che rimbalzava sugli edifici. «Dannazione!» All’im­provviso, in un lampo, mi fu di nuovo addosso: sentii tutte quelle voci mescolate e lottai contro di lui. Il volto. Ha un volto. Una mente insonne nel cuore e un’indole insaziabile. Non lasciarti so­praffare dalle vertigini, non cercare di ricordare.

Qualcuno, in uno dei palazzi, aprì una finestra e mi gridò di andarmene: «Smettila di urlare».

Non tentare di ricostruire l’accaduto, altrimenti perderai i sensi.

A un tratto, immaginai Dora e temetti di stramazzare a terra, lì dov’ero, scosso da brividi, impotente e balbettando assurdità a chiunque si avvicinasse per aiutarmi.

Era grave, era il peggio del peggio, era cosmicamente orren­do, tutto qui!

E, in nome di Dio, cosa aveva significato l’espressione sul viso di Roger in quell’ultimo istante? Era stata davvero un’espressio­ne? Si trattava di pace o calma o comprensione, o soltanto di uno spirito che perdeva la sua vitalità, uno spirito che si separava dal proprio spirito?

Ah! Avevo urlato di nuovo; me ne resi conto. Parecchi mortali intorno a me mi stavano intimando di tacere.

Camminai e camminai.

Ero solo. Piansi. Non c’era nessuno nella strada deserta che potesse sentirmi.

Avanzai a fatica, quasi piegato in due, singhiozzando. Non notai anima viva che mi vedesse o mi sentisse, per fermarsi e ba­dare a me. Volevo rivivere tutto mentalmente, ma ero terrorizza­to all’idea che la cosa potesse colpirmi facendomi cadere a terra, alla sua mercé. E Roger, Roger... Oh, Dio, nel mio mostruoso egoismo volevo andare da Dora e inginocchiarmi. Ecco ciò che ho fatto, io ho ucciso, ho...

Nei paraggi del centro città. Credo. Pellicce in una vetrina. La neve mi stava toccando le palpebre con estrema dolcezza. Mi tolsi la sciarpa e mi asciugai il viso per togliere il sangue delle lacrime.

E infine entrai in un piccolo albergo vivacemente illuminato. Pagai la stanza in contanti, dando una mancia extra per non esse­re disturbato per ventiquattro ore; salii al piano di sopra, feci scorrere il chiavistello della porta, tirai le tende, spensi il fastidio­so e soffocante riscaldamento, m’infilai a letto e mi addormentai.

L’ultimo bizzarro pensiero che mi attraversò la mente prima che piombassi nel torpore mortale — mancavano ancora molte ore all’alba e c’era un sacco di tempo per sognare — fu che David si sarebbe arrabbiato per tutto questo, in qualche modo, mentre Dora, Dora forse, avrebbe potuto credere e capire...

Devo aver dormito per qualche ora almeno. Sentivo i rumori della notte all’esterno. Quando mi svegliai, il cielo stava rischia­rando. La notte era quasi terminata. Di lì a breve sarebbe giunto l’oblio. Ne fui felice perché era troppo tardi per pensare. Torna al profondo sonno vampiresco. Morto con tutti gli altri Non Morti ovunque essi siano, al riparo dalla luce imminente.

Una voce mi riscosse e molto distintamente mi disse: «Non sarà così semplice».

Mi alzai con un unico movimento, rovesciando il letto, guar­dando nella direzione da cui era arrivata la voce. L’angusta stan­za d’albergo sembrava una trappola pacchiana.

Nell’angolo stava ritto un uomo, un uomo normale; non particolarmente alto o basso, né bello come Roger o appariscente come me, nemmeno tanto giovane, né tanto vecchio, semplice­mente un uomo, dall’aspetto piuttosto gradevole, che teneva le braccia conserte e le caviglie incrociate.

Il sole si era appena levato sugli edifici. Il fuoco colpì le fine­stre e, trovando un varco fra le tende tirate, penetrò nella stanza. Rimasi accecato. Non riuscivo a vedere niente. Mi abbassai verso il pavimento, solo leggermente ustionato e ferito, il letto che ca­deva sopra di me, proteggendomi.

Nient’altro. Chiunque o qualunque cosa fosse quell’uomo, io ero impotente una volta che il sole appariva nel cielo, indipen­dentemente da quanto fosse bianca e fitta la coltre della mattina­ta invernale.

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