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Lo vidi quando varcò la doppia porta d’ingresso. Alto, corpora­tura robusta, capelli e occhi castano scuro, pelle ancora piuttosto scura perché era buio quando lo avevo trasformato in un vampi­ro. Camminava un po’ troppo rapidamente, ma, nel complesso, poteva passare per un essere umano. Il mio amato David.

Mi trovavo sulla scalinata. Lo scalone d’onore, si potrebbe di­re. Era uno di quei vecchi alberghi opulenti, divinamente ecces­sivo, pieno di cremisi e oro, e piuttosto gradevole. Lo aveva scel­to la mia vittima. Non io. La mia vittima stava cenando con la fi­glia. E io gli avevo letto nel pensiero che era sempre lì che la in­contrava a New York, per il semplice motivo che la cattedrale di San Patrizio si trovava proprio di fronte.

David vide subito me, un giovane dall’atteggiamento rilassa­to, con lunghi capelli biondi, viso e mani color bronzo, i consueti occhiali da sole viola scuro, i capelli pettinati in modo decente, una volta tanto, e il corpo fasciato da un abito blu scuro doppio­petto di Brooks Brothers.

Non seppe trattenere un sorriso. Conosceva la mia vanità e di certo sapeva che, nei primi anni ’90 del XX secolo, la moda ita­liana aveva invaso il mercato con così tanti indumenti informi, flosci, voluminosi e sformati che il vestito più erotico e lusinghie­ro che un uomo potesse scegliere era il completo blu scuro e dal taglio impeccabile di Brooks Brothers.

Inoltre, una criniera di capelli fluenti e l’opera di un abile sar­to rappresentano sempre una combinazione efficace. Chi può sa­perlo meglio di me?

Ma non era mia intenzione annoiarvi con l’abbigliamento. Al diavolo i vestiti! È solo che mi sentivo così fiero di essere tirato a lucido e pieno di stimolanti contraddizioni; un ritratto gradevole caratterizzato da lunghe ciocche, un abito inappuntabile e un modo regale di abbandonarmi alla balaustra, quasi ostruendo la scalinata.

Si avvicinò subito. Aveva lo stesso odore dell’inverno inoltra­to che regnava fuori, dove la gente scivolava sulle strade ghiacciate e la neve si era trasformata in poltiglia nei canaletti di sco­lo. Il suo viso mostrava il vago scintillio soprannaturale che solo io potevo notare, amare, apprezzare come meritava e, infine, ba­ciare.

Raggiungemmo insieme l’ammezzato rivestito di moquette. Per un attimo, detestai che fosse cinque centimetri più alto di me. Ma ero così felice di vederlo e di averlo vicino!

L’albergo era tiepido, con le luci basse e ampio, un luogo in cui le persone non si fissano reciprocamente.

«Sei venuto. Non pensavo che l’avresti fatto», esordii.

«Certo che sono venuto», rispose in tono di rimprovero, l’e­legante accento inglese che proveniva dal giovane viso bruno, causando in me la consueta sensazione di sorpresa. Era un uomo anziano col corpo di un giovanotto, di recente trasformato in vampiro, e da me, uno dei più potenti rappresentanti rimasti del­la nostra specie.

«Cosa ti aspettavi? Armand mi ha detto che mi stavi chia­mando. E anche Maharet», continuò con voce sommessa.

«Ah, questo risponde alla mia prima domanda.» Volevo ba­ciarlo e all’improvviso allungai le braccia, con una certa esitazio­ne e delicatezza in modo che potesse ritrarsi, se lo desiderava. Quando si lasciò stringere, ricambiando il mio calore, provai una felicità che non sperimentavo da mesi. Forse, sin da quando lo avevo lasciato con Louis. Noi tre ci trovavamo in una parte sconosciuta della giungla quando decidemmo di separarci, ed era successo un anno prima.

«La tua prima domanda?» chiese, osservandomi molto atten­tamente, forse studiandomi, facendo tutto ciò che è nelle facoltà di un vampiro per valutare lo stato d’animo e la condizione men­tale del suo creatore, perché un vampiro non può leggere nel pensiero del suo artefice, non più di quanto quest’ultimo possa leggere nella mente del suo novizio.

Ed eccoci qui, oppressi da facoltà soprannaturali, entrambi in piena forma e piuttosto emozionati, incapaci di comunicare se non nel modo più semplice ed efficace: a parole.

«La mia prima domanda sarebbe stata semplicemente: dove sei stato, hai trovato gli altri e hanno cercato di farti del male? Tutte quelle sciocchezze, sai, su come ho infranto le regole quan­do ti ho creato, eccetera eccetera.»

«Tutte quelle sciocchezze», ripetè lui prendendomi in giro, imitando l’accento francese che ancora conservavo, ormai però abbinato a qualcosa di decisamente americano. «Che sciocchez­ze.»

«Avanti, andiamo nel bar laggiù a parlare», proposi. «Ovvia­mente, nessuno ti ha fatto del male. Non ho mai pensato che avrebbero potuto o voluto farlo, o che ne avrebbero avuto il co­raggio. Se ti avessi creduto in pericolo, non avrei permesso che te ne andassi alla chetichella per il mondo», precisai.

Lui sorrise, gli occhi castani che, per un istante, riflessero una luce dorata. «Non me l’hai già detto circa venticinque volte, pri­ma che ci separassimo?»

Trovammo posto a un tavolino addossato alla parete; il bar era semipieno, proprio la proporzione giusta. Cosa sembrava­mo? Una coppia di giovani a caccia di uomini o donne mortali? Non m’interessava.

«Nessuno mi ha fatto del male né ha mostrato il minimo inte­resse nei miei confronti», spiegò David.

Qualcuno stava suonando il piano, in modo assai raffinato, considerato che ci trovavamo nel bar di un albergo, pensai. Ed era un pezzo di Erik Satie. Che fortuna!

«La cravatta», notò lui chinandosi in avanti, i denti bianchi che brillavano, le zanne completamente nascoste, ovvio. «Que­sto ammasso di seta che hai al collo non è di Brooks Brothers! Ma guardati! E i mocassini... Santo cielo! Che ti passa per la te­sta? E di cosa volevi parlarmi?» Proruppe in una fioca risata di scherno.

Il barman proiettò un’ombra possente sul tavolino e mor­morò frasi prevedibili che, a causa della mia eccitazione e del fra­stuono, non riuscii a sentire.

«Qualcosa di caldo. Punch al rum o qualcosa del genere, pur­ché si possa riscaldare», disse David. La cosa non mi stupì.

Annuii e feci un vago gesto a quel tizio indifferente per indi­care che volevo lo stesso.

I vampiri ordinano sempre drink caldi. Non hanno nessuna intenzione di berli, ma possono sentirne il tepore e annusarne il profumo, ed è tanto piacevole.

David mi guardò di nuovo. O, meglio, quel corpo familiare che racchiudeva David mi guardò. Per colpa mia, lui sarebbe sempre stato l’uomo anziano che avevo conosciuto e amato, così come quel magnifico involucro di carne rubata che lentamente veniva plasmato dalle sue espressioni, dai suoi modi e dal suo stato d’animo.

Cari lettori, David scambiò il suo corpo umano con un altro prima che io lo trasformassi in un vampiro. Ma smettetela di preoccuparvi, quel fatto non ha niente a che vedere con questa storia.

«Qualcosa ti sta seguendo di nuovo? È questo che mi ha det­to Armand. E anche Jesse», affermò.

«Dove li hai visti?»

«Armand? L’ho incontrato per puro caso. A Parigi. Stava camminando per strada. È stato il primo che ho visto.»

«Non ha cercato di farti del male?»

«Perché avrebbe dovuto? Piuttosto, dimmi: perché mi stavi chiamando? Chi ti sta pedinando? Di che si tratta?»

«E sei stato da Maharet.»

Lui si appoggiò allo schienale della sedia. «Lestat, ho esami­nato manoscritti che nessun essere umano vede da secoli; ho po­sato le mani su tavolette d’argilla che...»

«David, lo studioso», lo interruppi. «Educato a essere il per­fetto vampiro dal Talamasca, anche se i suoi membri non hanno mai sospettato che un giorno lo saresti diventato davvero.»

«Oh, ma cerca di capire. Maharet mi ha portato là dove con­serva i suoi tesori. Cerca d’immaginare cosa significhi stringere tra le mani una tavoletta coperta di simboli che precedono il cu­neiforme. E la stessa Maharet: avrei potuto vivere per chissà quanti secoli senza nemmeno intravederla.»

Maharet era davvero l’unica che lui avesse mai avuto motivo di temere. Credo che lo sapessimo entrambi. I miei ricordi di Maharet non racchiudevano alcuna minaccia, solo il mistero di una sopravvissuta di Millennia, un essere vivente così antico che ogni suo gesto sembrava marmo liquefatto e la sua voce sommes­sa era divenuta il distillato di tutta l’eloquenza umana.

«Se lei ti ha dato la sua benedizione, qualunque altra cosa ha ben poca importanza», risposi con un debole sospiro. Mi chiesi se avrei mai posato di nuovo gli occhi su di lei. Non avevo spera­to né desiderato di farlo.

«Ho visto anche la mia cara Jesse», aggiunse David.

«Ah, avrei dovuto immaginarlo.»

«Sono andato a cercarla. L’ho chiamata spostandomi da un luogo all’altro, proprio come tu hai emesso il grido senza parole per convocarmi.»

Jesse. Pallida, ossatura minuta, capelli rossi. Nata nel XX se­colo. Molto colta e dotata di notevoli poteri psichici, quand’era ancora un essere umano. David l’aveva conosciuta come umana; ora la conosceva come immortale. Jesse era stata una sua allieva nell’ordine del Talamasca. Adesso lui le era alla pari quanto a bellezza e potere vampireschi, o quasi. Non lo sapevo con esat­tezza.

Jesse era stata portata da Maharet della Prima Stirpe, colei che era nata come essere umano prima che gli uomini comincias­sero a scrivere la loro storia o addirittura intuissero di averne una. Adesso l’Anziana, se davvero ce n’era una, la Regina dei Dannati era Maharet, mentre di sua sorella muta, Mekare, ormai nessuno parlava più.

Non avevo mai visto un novizio creato da un vampiro anziano come Maharet. Quando l’avevo vista l’ultima volta, Jesse mi era sembrata l’involucro trasparente di un’immensa forza. Ormai, doveva avere storie proprie da raccontare, proprie cronache e avventure personali.

Avevo passato a David il mio sangue d’annata mescolato con una varietà addirittura più antica di quella di Maharet. Sì, sangue che risaliva ad Akasha, e all’antico Marius; inoltre, naturalmente, nel mio sangue c’era la mia forza che, come tutti sappiamo, è in­credibile.

Perciò lui e Jesse dovevano essere stati una coppia magnifica. E cosa aveva significato per lei vedere il suo anziano mentore ri­vestito dalla carne di un giovane uomo?

Fui subito assalito dall’invidia e, all’improvviso, mi sentii col­mo di disperazione. Avevo allontanato David da quelle flessuose creature bianche che lo avevano attirato nel loro santuario, in un luogo lontano al di là del mare, nel cuore di un territorio in cui i loro tesori potevano restare nascosti e al riparo da crisi e guerre per generazioni. Nomi esotici mi si affacciarono alla mente, ma per il momento non riuscivo a ricordare dove fossero andate Maharet e Jesse, le due donne coi capelli rossi, quella anziana e quella giovane. E avevano fatto entrare David nella loro dimora. Un debole rumore mi fece sussultare e voltai la testa per guar­dare dietro di me. Mi rimisi comodo, imbarazzato per essere ap­parso così ansioso, e mi concentrai in silenzio, per un attimo, sul­la mia vittima.

Si trovava ancora nel ristorante vicinissimo a noi nell’hotel, seduto a un tavolo con la bellissima figlia. Quella notte non lo avrei perso. Ne ero quasi sicuro.

Sospirai. Dovevo smettere di pensare a lui. Lo stavo seguendo ormai da mesi. Era interessante, ma non aveva niente a che fare con tutto questo. Oppure sì? Avrei potuto ucciderlo quella stes­sa notte, ma ne dubitavo. Avendo spiato la figlia, e sapendo be­nissimo quanto la vittima la amasse, avevo deciso di aspettare che lei tornasse a casa. Insomma, perché essere così crudele con una ragazza del genere? E come le voleva bene, lui. In quel preci­so istante la stava supplicando di accettare un dono, qualcosa che aveva scoperto di recente e che giudicava davvero splendido; tuttavia non riuscivo a distinguere l’immagine del regalo nelle lo­ro menti.

Era una vittima piacevole da seguire: appariscente, avido, tal­volta buono, e sempre divertente.

Torniamo a David. E a come questo vigoroso immortale sedu­to dinanzi a me doveva aver amato la vampira Jesse ed essere di­ventato l’allievo di Maharet. Perché non nutrivo più alcun ri­spetto per gli anziani? Cosa volevo, per l’amor del cielo? No, non era questa la domanda. La domanda era... in quel preciso istante qualcosa voleva me? Stavo fuggendo da quel qualcosa?

David stava aspettando educatamente che lo guardassi di nuovo. Lo feci, ma non aprii bocca, non ripresi la conversazione. Così lui si comportò da persona cortese, ricominciando a parlare con calma, come se io non lo stessi fissando, da dietro gli occhiali viola, con l’aria di chi celi un inquietante segreto. Con garbo e pacatezza tipicamente inglesi, mi ribadì: «Nessuno ha cercato di farmi del male, nessuno ha contestato il fatto che tu mi abbia creato; tutti anzi mi hanno trattato con rispetto e cortesia, ben­ché, comprensibilmente, ciascuno di loro volesse conoscere ogni dettaglio su come sei sopravvissuto al Ladro di Corpi. E credo che tu non sappia fino a che punto li hai messi in allarme né quanto ti amino».

Quello era un accenno all’ultima avventura che ci aveva visti insieme e che mi aveva spinto a trasformarlo in uno di noi. All’e­poca lui non aveva certo levato al cielo le mie lodi per un qualsivoglia aspetto della vicenda.

«Mi amano davvero?» chiesi, riferendomi agli altri, gli ultimi rappresentanti rimasti della nostra razza di revenant in giro per il mondo. «So solo che non hanno cercato di aiutarmi.» Ripensai al Ladro di Corpi sconfitto. Senza l’aiuto di David, forse non sa­rei mai riuscito a vincere quella battaglia. Non riuscivo a imma­ginare un’eventualità tanto orrenda, ma nemmeno volevo ricor­dare come tutti i miei brillanti e dotati colleghi vampiri fossero rimasti a guardare da lontano, senza muovere un dito.

Il Ladro di Corpi si trovava all’inferno; e il corpo in questione era davanti a me, con dentro David. «D’accordo, sono lieto di sentire che li ho fatti preoccupare un po’», aggiunsi con sarca­smo. «Ma il punto è che mi stanno seguendo di nuovo e stavolta non si tratta di un astuto mortale che conosce i trucchi della proiezione astrale ed è in grado d’impossessarsi del corpo di qualcun altro. Mi stanno pedinando.»

Il mio amato amico mi osservò attentamente, non tanto incre­dulo quanto desideroso, forse, di comprendere le implicazioni della faccenda.

«Pedinando», ripetè in tono meditabondo.

«Senz’ombra di dubbio.» Annuii. «David, ho paura. Ho davvero paura. Se ti dicessi cosa penso che sia questa cosa che mi sta pedinando, rideresti.»

«Davvero?»

Il cameriere aveva posato sul tavolino i drink caldi e il vapore era delizioso. Il pianista suonava Satie in modo così delicato... Sembrava quasi che valesse la pena di vivere, persino per un mo­stro figlio di puttana come me. Un ricordo mi balenò nella mente.

In questo stesso bar, due sere prima, avevo sentito la mia vitti­ma dire alla figlia: «Ho venduto l’anima per posti come questo». Mi trovavo a parecchi metri di distanza, non certo a portata d’orecchio per un mortale, eppure avevo sentito ogni parola uscita dalle labbra della mia vittima ed ero affascinato dalla figlia di lui. Dora, così si chiamava, Dora. Era l’unica cosa che questa vitti­ma, strana e seducente, amasse davvero: sua figlia, la sua unica fi­glia.

Mi resi conto che David mi stava di nuovo guardando.

«Stavo pensando alla vittima che mi ha portato qui e a sua fi­glia», gli spiegai. «Non usciranno, stasera. La neve è troppo alta e il vento troppo forte. Lui la riaccompagnerà nella loro suite e lei ammirerà le torri sottostanti della chiesa di San Patrizio. Non voglio perderlo di vista.»

«Santo cielo, ti sei innamorato di una coppia di mortali?»

«No. Niente affatto. È solo una nuova tecnica di caccia. L’uo­mo è davvero unico, un concentrato di caratteristiche interessan­ti; lo adoro. Stavo per nutrirmene la prima volta che l’ho visto, ma continua a sorprendermi. Lo sto seguendo da sei mesi.» Ri­portai la mia attenzione su di loro. Ecco, stavano salendo ai piani superiori, proprio come avevo previsto. Avevano appena lasciato il loro tavolo. Il maltempo era eccessivo persino per Dora, anche se voleva andare in chiesa a pregare per il padre e lo supplicava di fermarsi a pregare con lei. Un imprecisato ricordo aleggiava tra di loro, nei pensieri e nelle parole frammentarie. Dora era so­lo una bambina quando la mia vittima l’aveva accompagnata per la prima volta in quella cattedrale.

Lui non credeva a nulla; mentre lei era una sorta di guida reli­giosa. Theodora. Rivolgendosi al pubblico televisivo, predicava la serietà dei valori e il nutrimento dell’anima. E suo padre? Ah, be’,lo avrei ucciso prima di apprendere ulteriori informazioni, altrimenti avrei finito per perdere quel bel trofeo solo per il bene di Dora.

Riportai lo sguardo su David, che mi stava osservando avida­mente, la spalla appoggiata contro il muro rivestito di satin scu­ro. In quella luce, nessuno avrebbe potuto capire che non era umano. La cosa sarebbe potuta sfuggire persino a uno di noi. Quanto a me, forse sembravo una folle rockstar desiderosa che l’attenzione del mondo intero la schiacciasse lentamente fino a ucciderla.

«La vittima non ha niente a che vedere con questo. Ti raccon­terò tutto un’altra volta. Ci troviamo in questo albergo soltanto perché ho seguito la mia preda fin qui. Conosci i miei giochetti, le mie battute di caccia. Non ho bisogno del sangue più di quan­to ne abbia bisogno Maharet, ma non sopporto il pensiero di non averlo!» chiarii.

«E allora cos’è questo nuovo tipo di gioco?» chiese educata­mente David, col suo accento inglese.

«Non cerco tanto persone semplicemente malvagie, assassini, voglio dire, quanto un tipo più sofisticato di criminale, qualcuno con una mentalità alla Iago. Questo è un trafficante di droga, eccentrico, brillante. Un collezionista d’arte. Adora far sparare alla gente; adora guadagnare svariati miliardi alla settimana grazie al­lo smercio di cocaina attraverso un certo canale ed eroina attra­verso un altro. E poi adora sua figlia. E lei, lei ha una chiesa di evangelizzazione televisiva.»

«Sei davvero affascinato da questi mortali.»

«Guarda alle mie spalle. Vedi i due che stanno attraversando l’atrio, diretti verso gli ascensori?» chiesi.

«Sì.» Li fissò attentamente. Forse si erano fermati proprio nel punto giusto. Riuscivo a percepire, udire e annusare entrambi, ma senza voltarmi non potevo scoprire dove si trovassero con esattezza. Comunque erano là, l’uomo bruno e sorridente con la ragazza pallida, appassionata e innocente, una donna-bambina venticinquenne, se i miei calcoli erano esatti.

«Il viso dell’uomo mi è familiare. È un pezzo grosso, di fama internazionale. Cercano continuamente di portarlo in tribunale per vari reati. Ha messo a segno un omicidio straordinario, ve­ro?» chiese David.

«Alle Bahamas.»

«Mio Dio, come ti sei imbattuto in lui? Lo hai davvero visto di persona da qualche parte — sai, come una conchiglia trovata sulla spiaggia —, oppure lo hai conosciuto leggendo giornali e ri­viste?»

«Riconosci la ragazza? Nessuno sa del loro legame.»

«No, non la riconosco. Dovrei? È così carina e dolce. Non avrai intenzione di nutrirtene, vero?»

Risi dello sdegno da gentiluomo con cui aveva accolto una si­mile ipotesi. Mi chiesi se David, prima di succhiare il sangue del­le sue vittime, chiedesse loro il permesso o almeno insistesse affinchè entrambe le parti venissero debitamente presentate. Igno­ravo le sue abitudini omicide e la frequenza con cui si nutriva. Lo avevo reso davvero molto forte, quindi non doveva farlo ogni notte. Sotto questo punto di vista, era fortunato.

«La ragazza canta le lodi di Gesù su un canale televisivo. Un giorno o l’altro la sua chiesa fisserà il proprio quartier generale in un antico ex convento di New Orleans. Attualmente ci vive da sola e registra i suoi programmi in uno studio del quartiere fran­cese. Credo che il suo spettacolo sia trasmesso da un canale via cavo con sede in Alabama», spiegai.

«Sei innamorato di lei.»

«Niente affatto, sono solo molto ansioso di uccidere suo pa­dre. Il carisma televisivo della ragazza è davvero peculiare. Parla di teologia con notevole buonsenso, sai, è il tipo di televangelista che potrebbe sfondare. Non temiamo forse tutti l’avvento di una persona del genere? Balla come una ninfa, o forse dovrei dire una vergine del tempio, canta come un serafino e invita il pubbli­co presente nello studio a unirsi a lei. Teologia ed estasi, perfetta­mente miscelate. E vengono raccomandate tutte le buone azioni di prammatica.»

«Capisco. E questo ti fa sembrare più eccitante la prospettiva di banchettare con suo padre? A proposito, lui non è certo il tipo che passa inosservato, eppure sembra che non si preoccupi di nascondersi. Sei sicuro che nessuno conosca il loro legame?» chiese David.

La porta dell’ascensore si era aperta. La mia vittima e sua fi­glia stavano per salire verso il cielo, un piano dopo l’altro.

«Quell’uomo entra ed esce di qui a suo piacimento. Ha una miriade di guardie del corpo. Lei s’incontra con lui da sola. Cre­do che fissino gli appuntamenti tramite un telefono cellulare. Lui è un gigante nello spaccio di cocaina organizzato via computer e lei rappresenta una delle sue operazioni segrete meglio protette. I suoi uomini sono sparpagliati in tutto l’atrio. Se in giro ci fosse stato qualche ficcanaso, lei sarebbe uscita dal ristorante da sola e per prima. Ma lui è un vero mago in questo settore: cinque diver­si Stati gli hanno spiccato contro mandati di cattura, eppure lui si siede a bordo ring durante un match di pugilato ad Atlantic City, incurante di venire ripreso dalle telecamere. Non lo pren­deranno mai. Lo prenderò io, il vampiro che aspetta soltanto di ucciderlo. E non lo trovi attraente?»

«Ora, fammi capire la questione», ribattè David. «Vieni pe­dinato da qualcosa che non ha alcuna relazione con la tua vitti­ma, questo, ehm, trafficante di droga o comunque lo si voglia de­finire, né con la giovane televangelista. Dunque qualcosa ti sta seguendo e ti sta spaventando, ma non abbastanza per farti smet­tere di braccare l’uomo dalla carnagione scura che è appena sali­to sull’ascensore?»

Annuii, ma poi fui assalito da un dubbio. No, non poteva esserci alcun legame. Inoltre, la cosa che mi aveva atterrito era ini­ziata prima che io vedessi la vittima; il Pedinatore era «apparso» per la prima volta a Rio, poco tempo dopo che avevo lasciato Louis e David ed ero tornato in quella città per cacciare.

Avevo scelto la vittima solo dopo essermici imbattuto per ca­so, nella mia città natale, New Orleans. L’uomo era venuto là d’impulso, per passare una ventina di minuti con Dora; si erano incontrati in un bar del quartiere francese. Io passavo là davanti e avevo visto lui, sfavillante come un fuoco, e lei, i grandi occhi compassionevoli in un viso cereo, e... uam! Una fame fatale.

«No, non ha niente a che vedere con lui», dichiarai sicuro. «Ciò che mi sta pedinando ha cominciato a farlo mesi fa. L’uo­mo non sa che lo sto seguendo. Io stesso non mi ero accorto su­bito che questa Cosa mi pedinava, questa...»

«Questa...?»

«Osservare lui e la ragazza somiglia alle mie miniserie, sai. La sua malvagità è così complessa.»

«L’hai già detto; e cos’è che ti sta pedinando? Si tratta di una entità, di una persona oppure...»

«Ci arrivo, ci arrivo. La mia vittima ha ucciso così tanta gente. Droga. Le persone come lui sguazzano nei numeri. Chili di dro­ga, omicidi, conti bancari numerati... E la ragazza, la ragazza, naturalmente, ha dimostrato di non essere una piccola taumaturga un po’ tonta che dice ai diabetici di poterli curare con l’imposi­zione delle mani.»

«Lestat, stai divagando. Che ti prende? Perché hai paura? E perché non uccidi questa vittima e concludi la faccenda?»

«Vuoi tornare da Jesse e Maharet, vero? Vuoi dedicarti allo studio per i prossimi cento anni, tra tutte quelle tavolette e quei rotoli; vuoi guardare i dolenti occhi azzurri di Maharet e ascol­tare la sua voce, lo so. Lei continua a prediligere gli occhi azzur­ri?» domandai d’impulso, mentre una cappa di disperazione calava su di me.

Maharet era cieca: le avevano cavato gli occhi quando era sta­ta trasformata nella regina dei vampiri. Prendeva gli occhi delle sue vittime e li usava finché non diventavano ciechi, per quanto il sangue vampiresco cercasse di preservarli. Questo era il suo scioccante segno particolare: la regina di marmo dagli occhi san­guinanti. Perché non aveva mai torto il collo di qualche vampiro novizio e rubato i suoi occhi? Non ci avevo mai pensato, prima. Lealtà verso la nostra stirpe? Forse non funzionerebbe. Ma Maharet aveva degli scrupoli, saldi come lei. Una donna tanto anziana in grado di ricordare l’epoca in cui non esisteva nessun Mosè e nessun codice di Hammurabi; l’epoca in cui solo il farao­ne aveva il privilegio di passeggiare nella Valle della Morte...

«Lestat, non distrarti. Devi spiegarmi di cosa stai parlando. Non ti ho mai sentito ammettere così prontamente di avere pau­ra. Hai detto proprio paura. Lascia perdere me, per il momento. Lascia perdere la vittima e la ragazza. Che succede, amico mio? Chi ti sta braccando?» m’incalzò David.

«Prima voglio farti qualche altra domanda.»

«No. Raccontami cosa è successo. Sei in pericolo, vero? Oppure credi di esserlo. Mi hai fatto chiamare perché ti raggiunges­si qui. Era una sfacciata richiesta d’aiuto.»

«Sono queste le parole che ha usato Armand, ‘una sfacciata richiesta d’aiuto’? Lo detesto.»

David si limitò a sorridere e a fare un rapido gesto impaziente con le mani. «Non detesti Armand e lo sai.»

«Vuoi scommettere?»

Mi guardò con aria di rimprovero. Roba da scolaretto inglese, probabilmente.

«D’accordo, te lo dico. Ora, prima di tutto devo rammentarti una nostra conversazione. È stato quando eri ancora vivo, quan­do abbiamo parlato per l’ultima volta nella tua casa nelle Cotswolds, sai, quando eri solo un vecchio gentiluomo affascinante che stava morendo nella più cupa disperazione...» esordii.

«Ricordo benissimo. È successo prima che tu andassi nel deserto», rispose in tono paziente.

«No, subito dopo, quando ormai sapevamo che non potevo morire facilmente come pensavo, quando ero tornato ustionato. Tu mi hai curato; poi hai cominciato a parlare di te, della tua vita. Hai accennato a un’esperienza avuta prima della guerra, in un caffè di Parigi. Ricordi? Capisci di cosa sto parlando?»

«Sì. Ti ho raccontato che, da giovane, pensavo di aver avuto una visione.»

«Sì, qualcosa sul momentaneo strapparsi del tessuto della vita che ti permise d’intravedere cose che non avresti dovuto vede­re.»

Lui sorrise. «Sei stato tu a ipotizzarlo, a supporre che il tessu­to si fosse lacerato chissà come e che io avessi guardato casual­mente attraverso lo strappo. All’epoca pensai, e lo penso tuttora, che si fosse trattato di una visione destinata proprio a me. Ma so­no passati cinquant’anni da quel giorno e il mio ricordo dell’inte­ra faccenda è nebuloso.»

«Be’,era prevedibile. In qualità di vampiro, ricorderai vivida­mente tutto ciò che ti succede da questo momento in avanti, ma i dettagli della vita mortale svaniranno piuttosto in fretta, soprat­tutto quelli legati ai sensi, al punto che ti ritroverai a rincorrerli... Che gusto aveva il vino?»

Mi fece cenno di tacere. Lo stavo rattristando. Non era mia intenzione.

Sollevai il mio drink, ne assaporai il profumo. Era una specie di punch tipicamente natalizio. Credo che in Inghilterra lo chia­mino wassail. Posai il bicchiere. Le mie mani e il mio viso erano ancora abbronzati grazie a quell’escursione nel deserto, quel de­bole tentativo di volare fino al sole. Ciò mi aiutava a sembrare un essere umano: che ironia! E rendeva la mia mano leggermente più sensibile al calore.

Un fremito di piacere mi attraversò. Calore! A volte ho l’im­pressione di riuscire a trarre il meglio da qualsiasi cosa. Non c’è modo d’ingannare un edonista come me, qualcuno che può mo­rire dal ridere, per ore, a causa del disegno della moquette nell’a­trio di un albergo.

Mi accorsi di nuovo che David mi stava guardando.

Sembrava aver riacquistato il controllo, in un certo senso, o avermi perdonato per la millesima volta per aver introdotto la sua anima nel corpo di un vampiro senza chiedergli il permesso, anzi contro la sua volontà. Mi fissò, tutt’a un tratto quasi con af­fetto, come se io avessi bisogno di quella rassicurazione. La ac­cettai. Ne avevo davvero bisogno.

«In quel caffè di Parigi sentisti la conversazione di due esseri. Eri giovane. Successe tutto per gradi. Eppure ti rendesti conto subito che quei due non erano davvero lì, non in senso materiale, e che la loro lingua ti risultava comprensibile sebbene ignorassi quale fosse», dissi, ritornando alla sua visione di tanti anni prima. Lui annuì.

«Esatto. Una teofania, e sembravano proprio Dio e il Diavolo intenti a discutere.»

Annuii a mia volta. «E l’anno scorso, quando ti ho lasciato nella giungla, hai detto che non dovevo preoccuparmi, che non avresti intrapreso nessuna ricerca religiosa per trovare Dio e il Diavolo in un caffè di Parigi. Hai detto di aver passato la tua vita mortale cercando simili cose nel Talamasca e che adesso avresti imboccato una direzione diversa.»

«Sì, è questo che ho detto», ammise con accondiscendenza. «Adesso la visione è più nebulosa di quando te la raccontai. Ma la ricordo. La ricordo ancora e sono tuttora convinto di aver visto e sentito qualcosa; e sono rassegnato come sempre a non po­ter scoprire che cosa è successo.»

«Quindi stai lasciando Dio e il Diavolo al Talamasca, come hai promesso.»

«Sto lasciando il Diavolo al Talamasca che, in quanto ordine dedito allo studio del paranormale, non credo sia mai stato mol­to interessato a Dio», precisò.

Tutto ciò rappresentava un terreno di dibattito assai familiare. Ne presi atto. Entrambi tenevamo d’occhio il Talamasca, per co­sì dire. Un solo membro di quel pio ordine di studiosi era riusci­to a scoprire quale fosse stato il vero destino di David Talbot, ex Generale Superiore dell’ordine, e adesso quell’essere umano era morto. Si chiamava Aaron Lightner. David aveva sofferto atrocemente per la perdita dell’unico uomo che sapesse cos’era diven­tato, l’uomo che era stato il suo dotto amico mortale così come David era stato il mio.

Adesso gli premeva di riprendere il filo del discorso. «Hai avuto una visione? È questo che ti spaventa?» chiese.

Scossi il capo. «Niente di così chiaro. Tuttavia la Cosa mi sta pedinando e di tanto in tanto mi lascia intravedere qualcosa per una frazione di secondo. Per lo più la sento; a volte la sento par­lare con altri usando un normalissimo tono discorsivo oppure sento i suoi passi dietro di me per la strada e mi giro di scatto. È vero, ne sono terrorizzato. E, quando si palesa... be’,di solito mi ritrovo disorientato, riverso in un canaletto di scolo come un vol­gare ubriacone. Passa una settimana: niente. Poi capto di nuovo quello stralcio di conversazione...»

«E di che si parla?»

«Non posso citarti i frammenti in ordine logico. Li sentivo prima di rendermi conto di cosa fossero. Da un certo punto di vista, sapevo di stare sentendo la voce di un altro abitante del po­sto, per così dire; capivo che a parlare non era un semplice mor­tale nella stanza accanto. Ma, per quanto ne sapevo, la faccenda avrebbe potuto avere una motivazione semplice, una spiegazio­ne elettronica, per esempio.»

«Capisco.»

«Gli stralci però somigliano al colloquio tra due persone; e una — quella in questione, intendo — dice: ‘Oh, no, lui è perfetto, questo non ha niente a che vedere con la vendetta. Come puoi pensare che io volessi semplicemente vendicarmi?’» M’interrup­pi, stringendomi nelle spalle. «Sì, insomma, si è nel bel mezzo di una conversazione.»

«Sì, e tu hai l’impressione che questa Cosa ti stia permettendo di ascoltarne brevi stralci... così come io pensavo che la visione nel caffè fosse destinata proprio a me», replicò lui.

«Hai centrato il bersaglio. Mi sta tormentando. Un’altra vol­ta, solo due giorni fa, mi trovavo a New Orleans. Stavo spiando la figlia della vittima, Dora. Vive nell’ex convento che ho men­zionato, un vecchio edificio costruito tra il 1880 e il 1890, disabi­tato da anni e sventrato, tanto da somigliare a un castello in rovi­na; e questo scricciolo di ragazza, questa adorabile piccola don­na, ci abita senza paura, da sola. Si aggira per la casa come se fos­se invincibile. Comunque, mi trovavo laggiù ed ero entrato nel cortile di questo fabbricato... sai, è una struttura antica: corpo principale, due lunghe ali, cortile interno.»

«L’istituto di mattoni tipico del tardo XIX secolo.»

«Esatto, e stavo osservando da dietro le finestre l’avanzare di quella ragazzina che, sola soletta, percorreva il corridoio immer­so nel buio. Reggeva una lanterna e canticchiava sommessamen­te uno dei suoi inni: hanno un che di medievale e di moderno in­sieme.»

«Credo che l’espressione giusta sia ‘New Age’», suggerì Da­vid.

«Sì, qualcosa del genere, ma questa ragazza fa parte di un network ecumenico religioso, te l’ho già detto. Il suo programma televisivo è molto convenzionale: credi in Gesù e otterrai la sal­vezza. Lei intende portare la gente in paradiso cantando e bal­lando, soprattutto le donne, a quanto pare, o, almeno, le donne saranno le prime a entrarci.»

«Continua a raccontare, la stavi osservando...»

«Sì, e stavo pensando a quant’era coraggiosa. Alla fine rag­giunse le sue stanze; abita in una delle quattro torri dell’edificio. Rimasi in ascolto mentre chiudeva tutte le serrature. E pensai che a ben pochi mortali sarebbe piaciuto aggirarsi per quell’edificio buio, e inoltre che il posto non era spiritualmente puro, non del tutto.»

«Cosa intendi dire?»

«Spiritelli, spettri o comunque li si voglia definire. Come li chiamavi nel Talamasca?»

«Spettri», rispose.

«Bene, ce ne sono alcuni riuniti in punti diversi del convento, ma non rappresentano una minaccia per la ragazza: è troppo for­te e coraggiosa. Ma lo stesso non si può dire del vampiro Lestat, che la stava spiando. Ero fuori in cortile e sentii la voce proprio accanto all’orecchio, come se uno dei due uomini stesse parlan­do vicino alla mia spalla destra; era l’altro, quello che non mi sta seguendo, che diceva piuttosto distintamente: ‘No, non lo vedo nella stessa luce’. Ruotai più volte su me stesso cercando di tro­vare questa Cosa, di raggiungerla mentalmente o spiritualmente, affrontarla, tormentarla, e poi mi resi conto che stavo tremando da capo a piedi. E sai, David, gli spettri, gli irritanti spiritelli... quelli che sentivo ciondolare nel convento... credo non si siano nemmeno accorti che questa persona, o qualunque cosa fosse, mi aveva parlato all’orecchio.»

«Lestat, parli come se avessi perso la tua testa immortale», scherzò lui. «No, no, non arrabbiarti. Ti credo. Ma torniamo in­dietro un attimo. Perché stavi seguendo la ragazza?»

«Volevo solo vederla. Suo padre, la mia vittima, è preoccupa­to per ciò che è, per ciò che ha fatto e per ciò che le autorità san­no di lui. Teme di macchiare la reputazione della figlia, qualora si dovesse arrivare a un procedimento d’accusa e agli articoli sui giornali. Ma il punto è che non verrà mai incriminato, perché lo ucciderò prima che succeda.»

«Già, inoltre questo potrebbe salvare la chiesa della ragazza, non è vero? Il fatto che tu lo elimini rapidamente, per così dire. O sbaglio?»

«Non le farei del male per nulla al mondo. Niente potrebbe convincermi a farlo.» Per un attimo rimasi in silenzio.

«Sei sicuro di non esserne innamorato? Ne sembri ammalia­to.»

Ero immerso nei ricordi: solo poco tempo prima mi ero innamorato di una donna mortale, una suora. Si chiamava Gretchen, e io l’avevo fatta impazzire. David conosceva l’intera storia. L’a­vevo scritta; e avevo scritto tutto di David, cosicché lui e Gret­chen erano entrati nel mondo come personaggi romanzeschi. Lui sapeva anche questo.

«Non mi mostrerei mai a Dora come ho fatto con Gretchen. No. Non le farò del male. Ho imparato la lezione. La mia unica preoccupazione è uccidere suo padre in modo tale che lei ne ricavi la minima sofferenza e il massimo benefìcio. Lei sa che tipo è suo padre, ma dubito sia preparata a tutte le conseguenze nega­tive che potrebbero verificarsi per causa sua», spiegai.

«Santo cielo, ma tu stai giocando.»

«Be’,devo pur distrarrai per non pensare a questa Cosa che mi sta seguendo, altrimenti impazzisco!»

«Sstt... che ti prende? Mio Dio, sei davvero sconvolto.»

«Certo», sussurrai.

«Forniscimi qualche altra indicazione sulla Cosa, altri stralci di conversazione.»

«Non vale la pena di riferirli. Si tratta di una discussione che riguarda me, ti ripeto. David, è come se Dio e il Diavolo stessero litigando per me.»

Ripresi fiato. Il cuore mi doleva, tanto batteva rapidamente, impresa non da poco per il cuore di un vampiro. Appoggiai la schiena alla parete e lasciai vagare lo sguardo nel bar: per lo più mortali di mezza età, signore con pellicce dalla foggia antiquata, uomini stempiati abbastanza ubriachi da risultare chiassosi, spensierati e quasi giovani. Il pianista era passato a un brano po­polare, tratto da uno spettacolo di Broadway, credo. Era triste e languido, e una delle donne anziane presenti nel bar si stava don­dolando lentamente, a tempo con la musica e cantando in tono sommesso, il rossetto sulle labbra, una sigaretta in mano. Appar­teneva alla generazione che aveva fumato così tanto che smettere era ormai impensabile. Aveva la pelle di una lucertola, ma era un essere innocuo e bello. Tutti erano esseri innocui e belli.

La mia vittima? Riuscivo a sentirla al piano superiore. Stava ancora parlando con la figlia. Lei non voleva proprio accettare almeno un altro regalo? Si trattava di un’immagine, forse un quadro. Avrebbe smosso le montagne per sua figlia, ma lei non voleva il suo dono e non avrebbe salvato la sua anima.

Mi ritrovai a chiedermi fino a che ora sarebbe rimasta aperta la cattedrale di San Patrizio. La ragazza desiderava tanto andar­ci. Come sempre, stava rifiutando il denaro paterno. «È sporco. Roge, voglio la tua anima. Non posso accettare i soldi per la chie­sa! Provengono dal crimine. Sono sudici», gli stava dicendo.

Fuori nevicava. La musica del piano si fece più rapida e conci­tata. Andrew Lloyd Webber nella sua forma migliore, pensai. Un motivo tratto dal Fantasma dell’Opera.

Poi udii ancora quel rumore nell’atrio e mi girai bruscamente sulla sedia per guardare al di sopra della spalla, poi di nuovo ver­so David. Rimasi in ascolto. Mi sembrò di risentirlo, un suono si­mile a un passo, un passo echeggiante, un passo volutamente in­quietante. Lo sentivo. Sapevo di stare tremando. Ma poi scom­parve. Nessuna voce mi risuonò nell’orecchio. Fissai David.

«Lestat, sei impietrito», disse lui, in tono comprensivo.

«David, credo che il Diavolo sia venuto a prendermi. Penso che finirò all’inferno.»

Lui rimase senza parole. Dopotutto, cosa avrebbe potuto di­re? Che può dire un vampiro a un suo simile, su argomenti del genere? Cosa avrei risposto se Armand, trecento anni più vec­chio di me e di gran lunga più malvagio, avesse dichiarato che il Diavolo stava venendo a prenderlo? Gli avrei riso in faccia. Avrei fatto una battuta crudele, sottolineando che se l’era ampiamente meritato e che avrebbe incontrato parecchi membri della nostra specie laggiù, soggetti a una speciale tortura vampiresca, netta­mente più atroce di quelle mai sperimentate dai semplici mortali dannati. Fui scosso da un brivido.

«Dio santo», mormorai.

«Hai detto di averlo visto?»

«Non esattamente. Mi trovavo... da qualche parte, non ha im­portanza. Credo che fosse New York anche quella volta, sì, ero qui con lui...»

«La vittima.»

«Sì, lo stavo seguendo. Aveva concluso alcune transazioni in una galleria d’arte vicina al centro. È un abile contrabbandiere. È un tratto della sua personalità, la passione per gli oggetti pre­gevoli e antichi, lo stesso tipo di manufatti che ami tu, David. Insomma, quando finalmente mi ciberò di lui potrei portarti uno dei suoi tesori.»

David non rispose, eppure mi accorsi che trovava sgradevole la prospettiva di rubare un oggetto prezioso a qualcuno che an­cora non avevo ucciso, anche se lo avrei ucciso sicuramente.

«Libri, croci, gioielli, reliquie medievali, ecco il genere di ma­nufatti di cui si occupa. È questo che lo ha portato alla droga, l’acquisto di opere d’arte originariamente conservate nelle chiese ma andate perdute durante la seconda guerra mondiale in Euro­pa, sai, statue di angeli e santi d’inestimabile valore trafugate. Ha nascosto i suoi tesori più preziosi in un appartamento dell’Upper East Side. Il suo grande segreto. Penso che all’inizio il denaro rappresentasse un mezzo, non un fine. Qualcuno possedeva qualcosa che lui desiderava. Non ne sono sicuro: gli leggo nel pensiero, ma poi mi stanco. È malvagio, tutte quelle reliquie non hanno niente di magico e io sto per finire all’inferno.»

«Non così in fretta. Il Pedinatore. Hai detto di aver visto qualcosa. Cosa?»

Rimasi in silenzio. Avevo paventato questo momento. Non avevo tentato di descrivere queste esperienze nemmeno a me stesso, ma dovevo continuare. Avevo chiamato David perché mi aiutasse, quindi dovevo dare una spiegazione.

«Eravamo sulla Quinta Avenue; lui — la vittima — si stava diri­gendo in macchina verso i quartieri residenziali e io sapevo più o meno da che parte sarebbe andato, cioè verso l’appartamento se­greto dove conserva i suoi tesori. Stavo camminando, in stile umano. Mi fermai davanti a un albergo ed entrai per ammirare i fiori. Sai, in questi hotel puoi sempre trovare dei fiori; quando credi di essere sul punto d’impazzire per colpa dell’inverno, en­tri in questi posti e trovi ricchi bouquet realizzati coi gigli più straordinari.»

«Sì, lo so», convenne lui con un sospiro svogliato.

«Mi trovavo nell’atrio. Stavo osservando un enorme bouquet. Volevo... ah... lasciare una specie di offerta, come se mi fossi tro­vato in una chiesa... per chi l’aveva confezionato, qualcosa del genere, e stavo pensando che forse avrei dovuto uccidere la vitti­ma, e poi... Ti giuro che è andata davvero così, David... Il pavi­mento è scomparso. L’albergo è scomparso. Non mi trovavo da nessuna parte né ancorato ad alcunché, eppure ero circondato di gente, gente che urlava, chiacchierava, gridava, piangeva e ride­va, sì, rideva davvero, e tutto ciò stava succedendo simultanea­mente, e la luce, David, la luce era accecante. Quella non era l’o­scurità, non erano le stereotipate fiamme dell’inferno, e io mi protesi in avanti. Non allungai le braccia, perché non riuscivo a trovarle; allungai tutto, ogni arto, ogni fibra, cercando di toccare qualcosa, di riacquistare l’equilibrio, poi mi resi conto di essere in piedi sulla terraferma e mi trovai davanti questo Essere, la sua ombra che cadeva su di me. Senti, non ho parole per descriverlo. Era orribile. Era di certo la cosa più orrenda che avessi mai vi­sto! La luce brillava dietro di lui. Aveva un viso scuro, scurissimo, e mentre lo guardavo persi completamente il controllo. De­vo aver urlato. Eppure non so se, nel mondo reale, emisi qualche suono. Quando ripresi i sensi, mi trovavo ancora lì, nella hall. Sembrava tutto normale ed era come se fossi rimasto nell’altro posto per anni e anni; brandelli di ricordi di ogni genere stavano scivolando via da me, volando via, così in fretta che non potevo afferrare nessun singolo pensiero, frase compiuta o suggestione. Tutto quello che riuscivo a rammentare con sicurezza è ciò che ti ho appena raccontato. Ero lì in piedi. Guardai i fiori. Nessuno, nell’atrio, mi aveva notato. Finsi che fosse tutto normale, però non smisi di cercare di ricordare, d’inseguire questi brandelli, as­sediato da stralci di conversazione. E ancora mi vedevo davanti molto nitidamente questo Essere così orrendo e scuro, il tipo di demone che inventeresti se volessi far impazzire qualcuno. Con­tinuavo a vedere questo volto e...»

«Sì?»

«...e l’ho rivisto altre due volte.» Mi accorsi che mi stavo tamponando la fronte col tovagliolino di carta che mi aveva dato il cameriere. Lui era tornato. David fece un’altra ordinazione, poi si chinò verso di me.

«Pensi di aver visto il Diavolo.»

«Non esistono molte altre cose che possano spaventarmi, David. Lo sappiamo entrambi. Non esiste un vampiro capace d’in­cutermi davvero paura. Non il più anziano, né il più saggio, o il più crudele. Nemmeno Maharet. E cosa so degli esseri sovranna­turali che non sono vampiri? Gli spettri, i Poltergeist, gli spiritelli sciocchi che noi tutti conosciamo e vediamo... le cose che evoca­vi con la stregoneria del Candomblé», affermai.

«Sì», disse.

«Questo era L’Uomo Stesso, David.»

Lui sorrise, ma in modo non privo di gentilezza o compren­sione. «Per te, Lestat, per te doveva trattarsi per forza del Dia­volo in persona», dichiarò in tono seducente, prendendomi in giro.

Scoppiammo a ridere. Ma credo sia stata quella che gli scrit­tori definiscono una risata priva di allegria. Ripresi a raccontare.

«La seconda volta accadde a New Orleans. Mi trovavo vicino a casa, al nostro appartamento di rue Royale. Stavo passeggian­do. E cominciai a sentire quei passi dietro di me, come se qualco­sa mi stesse seguendo e volesse farmelo sapere. Dannazione, io stesso ho usato questa tecnica coi mortali ed è così crudele. Dio! Perché sono stato creato? E poi, la terza volta, la Cosa si avvicinò ancora di più. Stesso scenario. Enorme, svettava sopra di me. Ali, David. Ha le ali oppure io, nella mia paura, la sto dotando di ali. È un essere alato ed è orribile, e l’ultima volta trattenni l’im­magine abbastanza a lungo per fuggirne, per scappare, David, come un codardo. E poi mi svegliai, come le altre volte, in un luogo familiare, quello da cui ero partito, in realtà, e tutto era identico a prima, nulla era mutato.»

«E quando appare in questo modo ti parla?»

«No. Sta cercando di farmi impazzire. Sta cercando di... di farmi fare qualcosa, forse. Ricorda quello che hai detto sul fatto d’ignorare perché Dio e il Diavolo ti avessero permesso di veder­li.»

«Non hai mai pensato che sia legato a questa vittima che stai seguendo? Che forse qualcosa o qualcuno non vuole che tu ucci­da quest’uomo?»

«È assurdo, David. Pensa alle sofferenze di stanotte nel mon­do. Pensa a quanti stanno morendo nell’Europa orientale, pensa alle guerre in Terra Santa, pensa a cosa sta succedendo in questa stessa città. Credi che a Dio o al Diavolo importi un fico secco di un unico uomo? E la nostra razza di vampiri, la nostra specie che si ciba da secoli dei deboli, degli avvenenti e degli sfortunati. Quando mai il Diavolo ha interferito nelle attività di Louis, Armand, Marius o di chiunque altro di noi? Oh, magari fosse così facile evocare la sua augusta presenza e sapere una volta per tut­te!»

«Lo vuoi sapere?» chiese energicamente.

Indugiai, riflettendo. Scossi il capo. «Potrebbe essere qualco­sa di perfettamente spiegabile. Detesto esserne terrorizzato! For­se questa è la follia. Forse è in questo che consiste l’inferno. Impazzisci. E tutti i tuoi demoni vengono a prenderti con la stessa rapidità con cui li inventi.»

«Lestat, è il male, è questo che vuoi dire?»

Feci per rispondere, poi mi bloccai. Il male.

«Lo hai definito orrendo; hai descritto un frastuono insop­portabile e una luce. Era il male? Hai captato la presenza del ma­le?»

«Be’,in realtà, no. Ho captato esattamente quello che perce­pisco quando sento quegli stralci di conversazione, una sorta di sincerità, credo sia questo il termine adatto, sincerità e motiva­zione, e voglio dirti una cosa, David, su questo Essere che mi sta pedinando: ha una mente insonne nel cuore e un’indole insazia­bile.»

«Cosa?»

«Una mente insonne nel cuore e un’indole insaziabile», insi­stetti. Mi era sfuggito di bocca. Sapevo che era una citazione; sta­vo citando qualcosa, ma non sapevo cosa, forse il verso di una poesia?

«Cosa intendi dire?» mi chiese lui pazientemente.

«Non lo so. Non so nemmeno perché l’ho detto. Non so neanche come mai mi siano venute in mente queste parole. Ma è vero. Lui ha una mente insonne nel cuore e un’indole insaziabile. Non è mortale. Non è umano.»

«‘Una mente insonne nel cuore e un’indole insaziabile’», citò David.

«Sì. Ecco com’è L’Uomo, l’Essere, la Cosa maschile. No, aspetta, ferma, non so se è un maschio; voglio dire... insomma, non so di che sesso sia... non è distintamente femminile, mettia­mola così, e, non essendo distintamente femminile, sembra... maschile.»

«Capisco.»

«Credi che io sia pazzo, vero? Lo speri?»

«Certo che no.»

«Dovresti», ribattei. «Perché se questo Essere non esiste al­l’interno della mia testa ma all’esterno, allora può prendere an­che te.»

Quest’affermazione lo rese palesemente meditabondo e di­staccato, poi mi disse strane parole che non mi aspettavo.

«Ma non vuole me, vero? E neanche gli altri. Vuole te.»

Rimasi mortificato. Sono orgoglioso, egocentrico, adoro l’at­tenzione altrui, voglio la gloria, voglio essere desiderato da Dio e dal Diavolo. Voglio, voglio, voglio.

«Non ti sto rimproverando», spiegò. «Sto solo suggerendo che questa Cosa non ha minacciato gli altri. Che in tutte queste centinaia di anni nessuno degli altri... nessuno che conosciamo ha mai parlato di una cosa simile. A dire il vero, nei tuoi scritti, nei tuoi libri, hai sostenuto esplicitamente che nessun vampiro ha mai visto il Diavolo, giusto?»

Lo ammisi, stringendomi nelle spalle. Louis, il mio adorato al­lievo e novizio, una volta aveva attraversato il mondo per trovare i «più anziani» dei vampiri, e Armand si era fatto avanti a braccia aperte per dirgli che non esisteva nessun Dio o Diavolo. E io, mezzo secolo prima di allora, avevo compiuto il mio viaggio alla ricerca del «più anziano» e si era trattato di Marius, trasformato in vampiro all’epoca di Roma, che mi aveva detto la stessa cosa. Nessun Dio. Nessun Diavolo.

Rimasi seduto, perfettamente immobile, consapevole di disagi insulsi: il fatto che il locale era soffocante; che il profumo non era davvero tale e che non c’erano gigli in quelle stanze; che fuori doveva fare molto freddo; che non potevo pensare al riposo fin­ché l’alba non mi costringeva a farlo; che la notte era lunga; che non riuscivo a spiegare in modo chiaro la situazione a David e rischiavo di perderlo... e che la Cosa poteva arrivare, poteva arri­vare di nuovo.

«Mi resterai vicino?» Detestai le mie stesse parole.

«Rimarrò al tuo fianco e cercherò di tenerti stretto se tenta di rapirti.»

«Davvero?»

«Sì», rispose.

«Perché?»

«Non essere sciocco. Senti, non so cosa ho visto in quel caffè. In vita mia non ho mai più visto o sentito nulla di simile. Tu lo sai, una volta ti ho raccontato la mia storia. Sono andato in Brasi­le, ho appreso i segreti del Candomblé. La notte in cui mi hai... braccato, ho cercato di evocare gli spiriti.»

«Sono venuti, ma erano troppo deboli per poterti aiutare.»

«Già. Ma qual è il nocciolo della questione? Io voglio dire semplicemente che ti amo, che il nostro legame è diverso da quello di chiunque altro. Louis ti adora. Per lui rappresenti una sorta di oscuro dio, anche se finge di odiarti perché lo hai creato. Armand ti invidia e ti spia molto più di quanto tu possa immagi­nare.»

«Sento Armand, lo vedo e lo ignoro», risposi.

«Marius non ti ha perdonato di non essere diventato il suo al­lievo — penso che tu lo sappia —, di non essere diventato suo se­guace, di non aver creduto nella storia come un insieme coerente capace di redimere.»

«Ben detto. È questo che crede. Oh, ma è infuriato con me per cose ben più importanti di questa, tu non eri tra noi quando ho svegliato la Madre e il Padre. Non c’eri. Ma questa è un’altra storia.»

«So tutto al riguardo. Dimentichi i tuoi libri. Leggo le tue opere non appena le scrivi e le diffondi nel mondo dei mortali.»

Risi amaramente. «Forse anche il Diavolo legge i miei libri», ipotizzai. Ancora una volta detestai di aver paura, mi rendeva fu­ribondo.

«Ma il punto è che resterò con te», promise David. Abbassò lo sguardo, astraendosi così come aveva fatto tanto spesso quan­do era mortale, quando riuscivo a leggergli nel pensiero eppure lui mi sconfiggeva, escludendomi consapevolmente. Ma adesso c’era una barriera. Non avrei mai più scoperto cosa pensava.

«Ho fame», sussurrai.

«Da’ inizio alla caccia.»

Scossi il capo. «Prenderò la vittima quando sarò pronto. Non appena Dora lascia New York e torna nel suo vecchio convento. Sa che il bastardo è spacciato. È questo che penserà dopo che io l’avrò fatto, penserà che uno dei suoi nemici lo abbia ucciso, che il male fatto da suo padre si sia ritorto contro di lui. Molto bibli­co... Quando in realtà si è sempre trattato di una razza di killer che vaga nel giardino selvaggio della terra, un vampiro in cerca di un succoso mortale, e suo padre aveva solo attirato la mia at­tenzione e tutto finirà, molto semplicemente.»

«Hai intenzione di torturare quest’uomo?»

«David, mi sconvolgi. Che domanda maleducata!»

«Lo farai?» chiese timidamente, in tono più supplichevole.

«Non credo. Ne ho solo voglia...» Sorrisi. Ormai ne sapeva abbastanza, in proposito. Nessuno doveva più spiegargli come si beve il sangue, parlargli dell’anima, la memoria, lo spirito, il cuo­re. Non avrei conosciuto quella sfortunata creatura mortale fin­ché non l’avessi presa, me la fossi stretta al petto, avessi squarcia­to l’unica vena onesta del suo corpo. Ah, troppi pensieri, troppi ricordi, troppa rabbia!

«Resterò con te», annunciò. «Hai una suite qui in albergo?»

«Niente di decoroso. Trova qualcosa per tutti e due. Vicino a... vicino alla cattedrale.»

«Perché?»

«Be’,David, dovresti saperlo. Se il Diavolo comincia a inse­guirmi lungo la Quinta Avenue, correrò dentro San Patrizio, rag­giungerò l’altare maggiore, m’inginocchierò davanti al santo sacramento e supplicherò Dio di perdonarmi, di non immergermi sino agli occhi nel fiume di fuoco.»

«Sei davvero sul punto di perdere la ragione.»

«Niente affatto. Guardami. Riesco a legarmi i lacci delle scar­pe. Vedi? E ad annodarmi la cravatta. È necessaria una certa cu­ra, sai, per avvolgerla intorno al collo, infilarla nella camicia e così via, senza sembrare un folle con un’enorme sciarpa al collo. Sono controllato, come dicono i mortali in modo tanto stringato, puoi cercare delle stanze per noi due?»

Accennò di sì.

«C’è una torre di vetro, proprio laggiù accanto alla cattedrale. Un edificio mostruoso.»

«L’Olympic Tower.»

«Sì, potresti affittare delle stanze là? In realtà, ho agenti mor­tali in grado di svolgere questo tipo d’incombenze. Non so come mai sto piagnucolando come un idiota in questo bar, chiedendo­ti di occuparti di dettagli umilianti...»

«Ci penso io. Probabilmente adesso è troppo tardi per farlo, ma posso sistemare tutto domani sera. Userò il nome David Talbot.»

«I miei abiti... Ce ne sono un po’ qui, a nome di Isaac Rummel. Solo una valigia o due, e alcuni cappotti. È proprio inverno, vero?» Gli passai la chiave della stanza. Era umiliante per lui. Era come trasformarlo in un domestico. Forse avrebbe cambiato idea e affittato il nostro nuovo alloggio col nome di Renfield.

«Mi occuperò io di tutto. Entro domani disporremo di una sontuosa base operativa. Farò in modo di lasciarti le chiavi al bancone della reception. Ma che hai intenzione di fare?»

Non risposi subito, stavo cercando di ascoltare la vittima. Sta­va ancora parlando con Dora, che sarebbe partita il mattino se­guente. Puntai il dito verso l’alto. «Uccidere quel bastardo. Lo farò domani, subito dopo il tramonto, se riesco a raggiungerlo abbastanza rapidamente. A quel punto, Dora sarà già lontana. Oh, sono così affamato! Vorrei tanto che lei prendesse un aereo stanotte. Dora, Dora.»

«Questa ragazza ti piace davvero, giusto?»

«Sì. Una volta o l’altra guardala in televisione e vedrai. Il suo talento è alquanto spettacolare e i suoi insegnamenti sfoggiano una pericolosa attrattiva emotiva.»

«È davvero dotata?»

«Non le manca niente. Pelle bianchissima, corti capelli neri tagliati a caschetto, lunghe gambe magre ma flessuose, e balla con un tale abbandono, con le braccia spalancate, che ricorda un derviscio danzante o i sufi nella loro perfezione; quando parla, poi, il suo eloquio non è esattamente umile, ma colmo di meravi­glia, e tutto sembra molto, molto benevolo.»

«Lo immagino.»

«Be’,la religione non sempre lo è, sai. Voglio dire che lei non farnetica sull’imminente apocalisse o sul Diavolo pronto a venir­ti a prendere se non le spedisci un assegno.»

Dopo un attimo di riflessione, David rispose in tono eloquen­te: «Capisco benissimo».

«No, non capisci. La amo, sì, ma ben presto la dimenticherò. È solo che... be’,lì ci sono una convincente versione di qualcosa e una spiccata delicatezza, e lei ci crede davvero; pensa che Gesù abbia camminato su questa terra. Pensa che sia davvero succes­so.»

«E questa Cosa che ti sta seguendo non è collegata in alcun modo alla vittima che hai scelto, suo padre?»

«Be’,c’è un modo per scoprirlo», dissi.

«Quale?»

«Uccidere quel figlio di puttana stanotte. Forse lo farò dopo che si separa dalla ragazza. La mia vittima non rimarrà qui con lei, perché ha troppa paura di metterla in pericolo; non alloggia mai nello stesso albergo della figlia. Ha tre diversi appartamenti qui. Mi stupisce che si sia fermato così a lungo.»

«Rimango con te.»

«No, va’ pure, devo concludere questa faccenda. Ho bisogno di te, ho davvero bisogno di te. Dovevo raccontartelo e dovevo averti vicino — gli antichi e venerandi bisogni umani —, ma non mi serve averti accanto. So che sei assetato, non mi occorre leg­gerti nel pensiero per capirlo. Hai patito la fame mentre venivi qui, per non deludermi. Va’ a perlustrare la città. Non hai mai cacciato a New York, vero?» Sorrisi.

Fece cenno di no col capo. I suoi occhi stavano cambiando. Dipendeva dalla fame: gli stava conferendo quello sguardo vitreo, tipico di un cane che abbia percepito l’odore penetrante di una femmina in calore. Assumiamo tutti quello sguardo, lo sguardo bestiale, ma non siamo affatto buoni come gli animali, vero? Nessuno di noi lo è.

Mi alzai. «Le stanze all’Olympic Tower, fa’ in modo che si affaccino su San Patrizio, d’accordo? Non su un piano troppo al­to, anzi possibilmente basso, in modo che i campanili siano vici­ni», dissi.

«Hai perso la testa, la tua brillante testa sovrannaturale.»

«No. Ma adesso esco tra la neve. Lo sento lassù. Ha in pro­gramma di lasciare la figlia, la sta baciando, baci casti e amorevo­li. La sua macchina sta girando in tondo qui fuori. Lui si dirigerà verso i quartieri residenziali, raggiungendo l’appartamento se­greto dove conserva le reliquie. Pensa che i suoi nemici nel mon­do del crimine e nel governo non ne sappiano nulla oppure lo ri­tengano semplicemente il negozio da rigattiere di un amico; ma io ne sono al corrente e so cosa significano per lui tutti quei teso­ri. Se va là, lo seguirò... Non c’è più tempo, David.»

«Non sono mai stato così confuso», confessò. «Stavo per dir­ti: ‘Che Dio ti accompagni’.»

Scoppiai a ridere. Mi piegai per baciarlo sulla fronte, in modo così repentino che gli altri non ci avrebbero fatto caso se lo aves­sero notato, e poi, inghiottendo la paura, la paura immediata, lo lasciai.

Nelle stanze ai piani superiori Dora piangeva. Era seduta ac­canto alla finestra a osservare la neve e a piangere. Si era pentita di aver rifiutato il nuovo regalo del padre. Se soltanto... Premette la fronte contro il vetro gelido e pregò per lui.

Attraversai la strada. Trovai gradevole la neve, ma, in fin dei conti, sono un mostro. Rimasi fermo sul retro della chiesa di San Patrizio, stando a osservare mentre la mia bella vittima usciva, calpestava in fretta la neve, le spalle curve, e si sistemava sul sedi­le posteriore di una costosa auto nera. Lo sentii dare all’autista un indirizzo vicinissimo all’appartamento-negozio da rigattiere in cui conservava i suoi tesori. Benissimo, per un po’ sarebbe ri­masto lassù da solo. Perché non farlo, Lestat?

Perché non lasciare che il Diavolo ti prenda? Procedi! Rifiu­tati di entrare all’inferno in preda alla paura. Va’ all’attacco.

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